Intorno al “Silenzio sugli innocenti”. Conversazione con Luca Mariani

Roma, il giorno prima di Pasqua. Incontro il giornalista dell’AGI, Luca Mariani, in un pub nel centro. È tardo pomeriggio. Fuori ha piovuto. Ci accomodiamo al secondo piano del locale, iniziamo la conversazione.
Per i temi toccati, il testo qui di seguito si può anche leggere come una sorta di continuazione/approfondimento della recensione al suo libro scritta mesi fa.

Gianluca Pulsoni: Dal tuo punto di vista, qual’è stata la copertura della stampa norvegese in merito al massacro compiuto da Breivik e a distanza di anni?

Luca Mariani: Dunque, la prima cosa che voglio dire, a distanza di due anni, quasi tre dai fatti di Utøya, è questa: i norvegesi non parlano affatto volentieri della vicenda. Non ne parlano né a livello popolare, né a livello governativo. Così io mi sono chiesto perché, e mi sono dato alcune spiegazioni. La prima, la più semplice, è per il dolore tremendo che ha causato Breivik nell’isola, perché ha ucciso 69 giovani laburisti provenienti da tutta Europa, con l’aggiunta che i giovani laburisti norvegesi erano distribuiti a seconda delle province e quindi bene o male ogni piccola contea è stata toccata, quindi ciascuno può aver avuto e pianto un amico o amica a sua volta vittima della strage. La seconda spiegazione che mi sono dato è simile a quanto viene fuori ascoltando l’intervista che fece Mentana per i settant’anni del rastrellamento del ghetto ebraico di Roma a un sopravvissuto. In quell’occasione l’anziano ebreo più o meno dice: «guarda, io per i primi dieci anni non ne ho parlato neppure con la mia famiglia.» È un meccanismo di rimozione. Questa può essere un’altra spiegazione. La terza spiegazione che mi sono dato è un senso – chiamiamolo non di vergogna, ma forse di imbarazzo – dovuta alla reazione delle forze dell’ordine che effettivamente fu catastrofica. Non c’era l’elicottero, i due poliziotti del vicino commissariato sono rimasti sul pontile, bastava prendere la barca nel vicino campeggio. Breivik si sarebbe arreso perché non vedeva l’ora di farlo, ma l’ordine era quello di attendere le forze speciali, partite a tre chilometri di distanza dall’isola. In più, s’era rotto il motore. Allora, all’epoca in Scandinavia, ci fu un’ampia copertura mediatica dei fatti.

G. P.: Ma, come dicevi, senza affrontare i nodi popolari e politici…

L. M.: Si, ampia copertura ma la “luce” che è stata data a tutta questa vicenda è stata una sola luce di dolore: le candele; le rose rosse che vengono deposte; il concerto un anno dopo con Springsteen. Mai invece – secondo me, né da parte norvegese ma nemmeno dal resto d’Europa – si è andati a scavare bene su quella che è la rete in Europa di estrema destra, xenofoba, nazionalista, che bene o male è il “brodo di coltura” attorno a Breivik. Questo è il tema. 8109 indirizzi e-mail hanno ricevuto il suo compendium, in tutta Europa. Siamo 28 Paesi UE e quindi, almeno, stiamo parlando in media di trecento persone per ogni Paese. Questo aspetto secondo me è stato sicuramente sottovalutato. Tieni conti che al tribunale di Oslo, dove si è svolto solo il processo di primo grado perché Breivik non ha fatto appello – perché lui più o meno disse: «se voi mi dichiarerete pazzo, farò appello, se invece se mi dichiarerete sano di mente, e quindi avallerete il significato politico della mia strage, io non farò appello» – non è stato ascoltato nessuno che non fosse norvegese. Tutta la parte internazionale della rete è stata ignorata. Non è stato ascoltato Fjordman, che era una sorta di maître-à-penser. Ci sono punti interrogativi grossi. Eppure lui era un ammiratore dell’English Defence League, che poi ha preso le distanze. Ha detto che aveva creato questa rete dei cavalieri templari, mette in fila tutti i partiti potenzialmente amici, che poi sono quei partiti che hanno il “vento in poppa” in questo periodo in Europa.

G. P.: Dici ora, con le elezioni europee di quest’anno…

L. M.: In Europa corriamo il rischio che vincano Le Pen in Francia, PVV in Olanda, Vlaams Belang in Belgio, Freiheit Partei in Austria, Veri Finlandesi in Finlandia, la Lega in Italia, nonostante ora sia spuntato il Movimento Cinque Stelle, anti-europeista, che ai tempi di Breivik non c’era. Ma possiamo andare ancora avanti, citando – per esempio – Jobbik in Ungheria. Son tutti partiti che ormai viaggiano forte, intorno a due cifre senz’altro. Alcuni anche oltre il 20%. Ora, quello che mi sorprese molto è che quando lui scriveva, cioè fra il 2009 e il 2011, questa rete, questo collegamento fra tutti questi partiti xenofobi e nazionalisti non era così evidente. Eppure lui li metteva tutti in fila. Ecco perché io mi dico che è stato sottovalutato – da parte europea, non solo norvegese – il significato profondo di questa strage. Cioè, quando si parlava delle Brigate Rosse, si diceva: «ma qual è il loro brodo di coltura? Con chi vanno a cena, quali libri leggono, chi frequentano?» E perché nessuno si fa la stessa domanda per Breivik? Qual è il brodo di coltura di Breivik? Chi frequenta? A chi scrive via Internet? Stiamo monitorando queste persone? Questo, secondo me, è essenziale.

G. P.: A proposito, cosa mi dici delle ultime elezioni in Norvegia? Lì ha vinto il centro-destra. Personalmente, dato quello che è successo, non me lo sarei aspettato. Ma ovviamente parlo da persona che guarda da fuori a quella situazione…

L. M.: Parlando delle ultime elezioni norvegesi, cioè quelle dell’anno scorso, secondo me anche i fatti di Utøya hanno influenzato l’elettorato. Il fatto che le forze dell’ordine abbiano agito con incertezza e ritardo potrebbe aver indotto a un voto a destra. Poi va anche aggiunto come il Partito del Progresso – nel quale Breivik militò da giovane – prese subito immediatamente le distanze da quello che lo stragista aveva commesso. Lì ha vinto l’alleanza di centro-destra perché c’è forse un substrato maggiore di persone di tendenza conservatrice-nazionalista. Inoltre, un altro tema caro a Breivik e tutto sommato ben presente nella società norvegese riguarda il fatto di come loro non amino questo dibattito, entrare o no nella UE. Ci tengono molto a mantenersi al di fuori.
C’è un però, comunque. Perché è nata in Norvegia tutta questa storia? Non stiamo parlando, per esempio, della Grecia. Se sei uno statale e ti tolgono il lavoro, ti mettono in miseria, ti devi vendere la casa, è logico che tu possa fare casino, non ragionare più. In Norvegia no. Tu perdi il lavoro e hai il sussidio di disoccupazione. Welfare esagerato, per noi inimmaginabile. Eppure c’è stato Breivik.

G. P.: Ci sono altri libri, oltre al tuo, dedicati all’argomento?

L. M.: Ci sono due libri di norvegesi disponibili in inglese, uno pubblicato dalla Polity Books e l’altro dalla Zed Books. Leggili e mi dirai. Non voglio anticipare nulla. Vorrei invece dire una cosa sull’isola.

G. P.: Certo.

L. M.: Dovrebbe diventare – e nel libro lo scrivo – una specie di ‘totem’ del socialismo europeo e mondiale. E invece per ora sta prevalendo la linea per cui i genitori delle vittime non vogliono che riprendano i campeggi estivi. È umano. C’è ancora il periodo del lutto. Non so se questa estate faranno il campo lì, probabilmente una cerimonia, e poi il campo estivo magari lo faranno da un’altra parte. Hanno poi pensato a questo monumento che ho visto in foto…

G. P.: Parliamo quindi del progetto di memoriale a opera dell’artista svedese Jonas Dahlberg, nella penisola di Sørbråten, come ha per esempio raccontato The Guardian. Un taglio nell’isola. Una soluzione molto minimale, e radicale.

L. M.: Il taglio chiaramente rappresenta la ferita inferta all’isola.

G. P.: Sempre dal pezzo del giornale britannico, l’idea sarebbe quella di costruire altri memoriali. Uno per esempio a Oslo, quartiere del governo, dove Breivik ha cominciato…

L. M.: Lì son tutti palazzi nuovi, e tra l’altro erano incerti se abbattere e ricostruire tutto. Fai conto palazzi stile quello dell’ENI all’Eur, per darti una idea. Moderni, con vetrate. Inoltre, lì a Oslo, sono tutti palazzi attaccati l’un l’altro: palazzo del Presidente, quello del Ministero dell’Energia, quello del Ministero del Lavoro. Insomma, un quartiere con tutti i luoghi del Governo.

G. P.: Mi dici della ricezione del tuo libro in Norvegia?

L. M.: In Norvegia il mio libro l’hanno letto, ne hanno parlato ma ancora non è stato tradotto. Per ora prevale il silenzio…

L. P.: Comunque questo mi sembra anche indicativo del fatto che il tuo è un libro che ha un “angolo” non esclusivamente norvegese sulla vicenda. Anzi.

L. M.: Ragioniamo in maniera analitica e razionale. Tu hai scelto la pista sostanzialmente interna. Al tribunale di Oslo, non senti nessuno che non fosse norvegese, chiudi lì con la sentenza di primo grado, metti Breivik in carcere. Ma così hai cancellato tutta la parte delle relazioni internazionali, del brodo di coltura. Hai cancellato una parte importante. Allora sai, il libro di un italiano, cioè di qualcuno che viene dall’altra parte dell’Europa, che poi invece prova ad analizzare questa cosa, e che mette i riflettori su una parte che è passata, come dire, inosservata… è logico che possa essere non da prima pagina.

G. P.: Nonostante l’imprinting socialista che c’è lì, mi verrebbe da dire. E a proposito di socialdemocrazia scandinava e Europa, è davvero illuminante leggere cosa un Olaf Palme scrivesse a proposito di un possibile parallelo politico tra loro e noi, a Sinistra, da una prospettiva europea. Siamo nella seconda metà degli anni settanta[1]:

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G. P.: La citazione prosegue e finisce…

Foto3

G.P.: Mi piacerebbe un tuo commento al riguardo.

L. M.: In linea generale, possiamo dire che la socialdemocrazia scandinava è stata un punto di riferimento per tutto il mondo del socialismo europeo. Tanto per dare una idea di che cosa era il campeggio di Utøya, c’andavano persone come il giovane Willy Brandt, oppure – per stare sul pezzo – si può citare una delle vittime di Breivik, Tamta Liparteliani, leader dei giovani socialisti della Georgia.
A ogni modo c’è da dire questo. È un mondo a parte. Scarsamente popolato, prima di tutto. Pensa che i norvegesi sono circa 5 milioni, mentre Roma e Milano da sole hanno già più abitanti. Poi sono Paesi ricchi, e adesso la Norvegia ha anche scoperto il petrolio. Quindi diciamo che è anche più facile creare un Welfare. E il loro Welfare è di un livello per noi inimmaginabile, favorito da ottime condizioni economiche. Va anche detto che in Nord Europa, in generale, è un Welfare che funziona. Come in Germania, oppure in Olanda. Sostanzialmente sottolineo questo, perché fare paragoni come questo di Palme non è facile, perché Olaf Palme non credo avrebbe potuto mai immaginarsi quali situazioni doveva affrontare un partito di Sinistra in Regioni come Sicilia o Campania. Dove il problema non è l’asilo nido, ma la mafia, o la camorra. Per dare l’idea del carattere dei popoli scandinavi, pensa per esempio a come i norvegesi abbiano avuto un grande e secolare rapporto con la Germania come modello culturale. Loro guardavano a Goethe, per intenderci. Ma dopo l’invasione nazista hanno cominciato a parlare inglese. Tutti. Come popolo sono molto silenziosi ma ostinati, risoluti. Dopo l’invasione nazista tutti hanno “dimenticato” il tedesco e tutti, ora – anche la vecchietta – parlano inglese. E questo è significativo. Però ripeto, questo scritto di Palme… è sempre difficile stabilire un rapporto tra ‘termini eterogenei’. In Scandinavia se vuoi fare il socialdemocratico è più facile. È più difficile farlo altrove. Comunque la storia, anche se lentamente, fa passi avanti e nei primi anni ’90 troviamo già il PSE, quindi, vuoi o non vuoi, c’è un collegamento, non federativo, ma comunque un collegamento fra partiti socialisti europei di varie esperienze. È chiaro che il PASOK non può essere come l’Arbeiderpartiet norvegese, e non lo sarà mai. Così come i maltesi non saranno mai come i finlandesi. Ma in una prospettiva di UE…

P. S.: Il giorno 29 aprile ricevo una mail. Un messaggio ANSA. Riguarda il memoriale di Dahlberg, informa dell’opposizione a questo da parte della popolazione locale (intenzionata a chiedere una commemorazione “più degna”), dello slittamento della sua costruzione…

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Note

[1] Monica Quirico (a cura di), Tra utopia e realtà: Olof Palme e il socialismo democratico. Antologia di scritti e discorsi, Editori Riuniti University Press, Roma 2009, pp. 91-92.

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