Siamo testimoni di questi passaggi. Intervista a Giorgio Falco su “La gemella H”

Uscito per Einaudi Stile Libero a febbraio 2014, già vincitore del premio Volponi, il romanzo ha da poco vinto il Premio SuperMondello [*].

Un romanzo completo e complesso, che apre la dimensione del racconto diacronicamente, comprendendo un periodo storico che va dal 1933 fino ai giorni nostri, per voler mostrare in qualche modo come il nazismo – visto dalla piccola cittadina bavarese Bockburg –, e il fascismo dalla costa adriatica, possano venire rielaborati, o meglio rimossi, da alcuni personaggi spinti dall’istinto di sopravvivenza.

La gemella H è tripartito: ha una prima parte dedicata a Helga – una delle due gemelle –, una drammatica sezione centrale, Intermezzo, e una terza parte dedicata alla gemella Hilde; le voci delle sorelle si intrecciano, a tratti mantenendo la propria individualità, a tratti senza possibilità di distinzione. Il procedere della narrazione è retto dalla voce solida e tranquilla dello scrittore, che accompagna dall’inizio alla fine il lettore in questa traversata di generazione in generazione.

Questa è la storia di Helga. Lei doveva prendere la parola, non ha voluto farlo. Pigrizia, desiderio di vivere la propria esistenza senza fermarsi a raccontarla. Helga è stata quasi un fantasma nel racconto di Hilde. Hilde stessa è l’impossibilità di compiersi, voragine riempita da infiniti rivoli digressivi. Se le incontrassimo per strada, sapremmo almeno riconoscerle? Ci vorrebbe un’altra descrizione, partendo dalla testa, dall’acconciatura: come scendono i capelli sulla fronte, sulle tempie, un aggettivo adeguato per gli occhi, il loro colore, la geografia del volto, gli zigomi, il naso, le labbra e i denti svelati dal sorriso o da una smorfia, la scomposizione meccanica del corpo.

Giulia Romanin Jacur – Com’è nata l’idea di questo soggetto – una famiglia tedesca, poi trapiantata in Italia, dapprima sostenitrice del nazismo, che poi fa della rimozione storica il mezzo per sopravvivere – per il tuo romanzo?

Giorgio Falco – L’idea è nata dal fatto di essere stato un bambino degli anni Settanta del Novecento. Ho visto tedeschi e italiani in spiaggia, solo trent’anni dopo la fine della guerra. Non potevo evitare di pensare: chi erano queste persone, come avevano attraversato il nazifascismo, pochi decenni prima?

G.R.J. – Ci sono state delle fonti letterarie e/o storiche che ti hanno ispirato? Una delle associazioni che viene in mente è con la serie televisiva tedesca Heimat di Reitz, per l’ambientazione, lo sviluppo in diacronia di un romanzo che potremmo definire “corale”, la sua aspirazione a parlare non solo di alcuni individui, ma di un’epoca.

G.F. – I giorni e gli anni di Uwe Johnson. La nascita delle gemelle Hinner sono un’omaggio a Gesine Cressphal, la protagonista del libro, nata sempre nel 1933. Poi, un libro molto bello a cui sono arrivato tramite Sebald: La fine. Amburgo 1943, di Hans Erich Nossack. Poi un romanzo che non mi ha entusiasmato, ma che ha ben ritratto le pene economiche di una giovane coppia poco prima della nomina di Hitler a Cancelliere: E adesso, pover’uomo? di Hans Fallada. Memoriali storici, e per i saggi, soprattutto Kracauer, da Gli impiegati a La massa come ornamento. Heimat di Reitz mi ha aiutato nell’invenzione di Bockburg, l’immaginaria cittadina bavarese in cui ho ambientato la prima parte del libro; ma a differenza di Schabbach – l’immaginario villaggio di Reitz –, Bockburg è una cittadina di trentamila abitanti e non un piccolo villaggio. E per il tono su Hitler, è stata fondamentale la visione del Moloch di Sokurov. Una delle ultime frasi di quel film, «sconfiggeremo la morte», detta da Hitler a Eva Braun, trova una sua verità nel fatto che, dopo i fatti luttuosi dell’Intermezzo, la narrazione riprende nell’estate del 1951, con le due gemelle diciottenni, nel pieno della loro vita.

G.R.J. – Un’altra suggestione porta a La trilogia della città di K. di Agota Kristof, banalmente per il titolo, ma soprattutto perché anche lì i protagonisti sono due fratelli gemelli.

G.F. – All’inizio ho anche pensato a una delle gemelle come a una voce narrante metallica, proprio modellata sulla Kristof: lirica quella di Hilde, più metallica, quasi militare, quella di Helga. Ma ciò che funzionava per la Kristof non funzionava per me, così ho buttato via tutto. E poi ho preferito un’unica voce narrante ma con molti slittamenti di punti di vista: così ho mantenuto una coerenza anche con il titolo, La gemella H. La gemella è una, e nemmeno io so dire se sia Hilde, l’artista, o Helga, colei che non ha voluto scrivere, accontentandosi della vita. Ma in fondo La gemella H non è nemmeno un personaggio o un’architettura sociale che ci siamo dati; è la letteratura.

G.R.J. – Come per Cortesforza, nell’Ubicazione del bene, anche Bockburg è una città creata dalla tua fantasia. Perché decidi di ambientare le tue storie in città che non esistono nella realtà (anche se Merano, Milano e Milano Marittima sono al contrario reali)?

G.F. – Bockburg è immaginaria ma ho disegnato una piantina, con i due fiumi (Isar e Loisach, sono fiumi reali) e i nomi delle strade. Avevo sempre la piantina sulla scrivania. Poi Bockburg, come Cortesforza, ha una sua precisa collocazione. È a sud di Monaco, non distante dal lago di Starnberg. Ma del resto, possiamo dire che la Merano ritratta dal cartellonista Franz Josef Lenhart sia reale? La montagna della cartellonistica pubblicitaria dell’epoca è un’astrazione: è la montagna senza montanari, la montagna pare abitata da controfigure abbigliate da montanari.

G.R.J. – La fotografia ha avuto un’importanza nella scrittura di La gemella H? C’è un collegamento – come lo era stato tra L’ubicazione del bene e i New Topographics? Possiamo tracciare un’ipotetica linea immaginaria con un fotografo in particolare il tuo romanzo? (Sappiamo, per esempio, che stai lavorando/hai lavorato sulla produzione del fotografo Lewis Baltz).

G.F. – La fotografia è sempre al centro della mia scrittura. Dentro La gemella H per esempio c’è la parte sul Gran Premio Ippico di Merano. La gara si è disputata il 20 ottobre 1935. Quella decina di pagine è una falsa, anomala cronaca sportiva: ci sono innesti lirici freddi uniti all’entusiasmo della voce dello speaker; il nome del cavallo vittorioso, Roi de Trefle, è reale; il cavallo sconfitto, Orizzonte Italia, è inventato. Quella parte è anche una riflessione sull’atto del vedere (attraverso i binocoli degli spettatori). «Ogni immagine – anche una distesa immobile di ghiaccio all’alba – è un gesto agonistico». Nel romanzo c’è il riferimento a molte fotografie vernacolari nelle quali c’è la normalità della guerra, la normalità seguente a qualche atto spaventoso. Quelle foto sarebbero piaciute molto a Comisso.

G.R.J. – Racconteresti la storia della copertina – la fotografia è di Sabrina Ragucci – che già nell’incontro di Cuneo hai suggerito essere una metafora di come elementi diversi possono reagire agli eventi? Come possiamo vedere declinata questa dinamica nel tuo romanzo?

G.F. – Per me un libro comincia davvero dalla copertina. L’immagine deve essere già il libro, è già dentro il processo. Questo perché partecipo ai lavori di Sabrina Ragucci (a dire il vero per lo più porto il massiccio cavalletto su cui è fissata una macchina giapponese degli anni Settanta). Nell’estate del 2009, a Merano, cercavamo di fotografare le perduranti tracce del fascismo in Alto Adige. Eravamo in campeggio. Il camping di Merano è situato non distante dal Passirio, un corso d’acqua che è troppo piccolo per essere definito un vero fiume, ma è troppo grande per essere definito un semplice torrente. Verso le tre del pomeriggio, un elicottero dei vigili del fuoco ha incominciato a volteggiare quasi sopra le nostre teste, era chiaro che stesse cercando qualcosa nel Passirio ma non sapevamo cosa. Il giorno seguente, ho letto sul quotidiano locale che una donna era morta annegata nel Passirio, mentre cercava di salvare il cane, caduto in acqua nel tentativo di bere. Due giorni dopo la morte della donna, sabato mattina, sono andato al mercatino di Merano, dove gli agricoltori della zona vendono i loro prodotti. Stavo afferrando un sacchetto di mele quando un pensionato (con un cane) ha detto ad alcuni suoi conoscenti di aver visto tutto: la donna (evidentemente la donna annegata) si era lanciata in acqua, e il cane si era tuffato per salvarla, invano. L’uomo alludeva a un suicidio? Non era chiaro. Di sicuro, i suoi conoscenti l’hanno guardato come se fosse impazzito. Mi ha colpito molto la reazione, non capivo più dove fossi: nonostante la luce di una mattina di giugno, e le promesse dell’estate, e i marsupi e gli zainetti dei turisti che alludevano a qualcosa di rassicurante, a me è parso di essere negli anni Trenta del Novecento. Allora abbiamo preso tre mele di quel sacchetto e le abbiamo lasciate su un tavolo, esposte alla luce, alla polvere, al tempo. Come reagiamo agli avvenimenti? Le tre mele hanno reagito in modo molto diverso, come si può vedere dalla fotografia in copertina.

G.R.J. – Nell’incontro di Cuneo a scrittorincittà, hai dichiarato che il tuo libro «non è un libro catastrofista», è un libro «in cui vi è un oscillare tra luce e ombra», cosa intendi con queste due espressioni?

G.F. – Ho dato quella risposta mentre avevo nelle orecchie l’obiezione di una lettrice, qualche tempo fa. Ma se, per esempio, come nella parte sulla riviera romagnola, c’è l’invasione della mucillagine, ha senso fingere che quel fenomeno non vi sia? All’inizio dell’agosto 2013, milioni di pesci sono morti a causa dell’innalzamento della temperatura dell’acqua marina, nel tratto tra i Lidi di Ravenna e i Lidi Ferraresi. Mi rendo conto che alcuni lettori – non tutti, per fortuna – vogliono essere semplicemente rassicurati, sia nella lingua che nei temi. Ma «l’oscillare tra luce e ombra» è il risultato naturale della mia scrittura. Hans Hinner, a settant’anni, guida da Milano Marittima alla zona del petrolchimico di Ravenna alla ricerca di una giovane prostituta. Hinner guida lentamente, in una strada sterrata, a poche centinaia di metri dalle ciminiere. La prostituta gli chiede un fazzoletto dove riporre la gomma da masticare. È un atto di cura verso il mondo, e ha senso ancora di più perché quella scena avviene in un luogo devastato: i campi intorno al petrolchimico di Ravenna. E il movimento, togliere la gomma dalla bocca e portarla al fazzoletto, è un’eucarestia al contrario.

G.R.J. – Si può definire La gemella H un libro sulla mediocrità dell’uomo?

G.F. – È anche questo. «I mediocri mandano avanti il mondo, bisogna ringraziarli», dice l’ex chirurgo estetico Francesco Castelli, il compagno di Hilde. Mediocrità e piccole incomprensioni quotidiane compongono molto spesso le nostre giornate. Trovare in una vita mediocre qualcosa di molto interessante: ecco ciò che mi interessa.

G.R.J – In definitiva, c’è un giudizio dello scrittore sugli avvenimenti che hai descritto, pur prevalendo la descrizione della quotidianità, e la volontà di descrivere il processo di adattamento degli uomini?

G.F. – No, non c’è giudizio.

G.R.J – Quanto tempo ti ha richiesto la stesura di La gemella H? È stato un libro su cui hai lavorato molto e su cui ti sei confrontato con qualcuno in particolare?

G.F. – Sabrina Ragucci è stata la persona con cui mi sono confrontato: del resto, doveva pur sdebitarsi per il mio lavoro di facchinaggio con il cavalletto della macchina fotografica! Ma in realtà, dopo le trecentocinquanta pagine (e in origine erano quasi cinquecento) sono ancora in debito. Ho iniziato a lavorare nell’aprile del 2010. La prima cosa che ho scritto è finita a metà del libro, nella parte intitolata Intermezzo. La scrittura, per una serie di motivi, è stata interrotta a causa di vicende personali. Però, senza di esse, per esempio, non avrei potuto scrivere la quarantina di pagine sull’Uomo di Lenhart, il personaggio vittima del fascismo, che tuttavia trova nella banca una forma anomala di resistenza.

Note

[*] La citazione «Siamo testimoni di questi passaggi», che dà il titolo all’intervista, è tratta dal discorso di Giorgio Falco tenuto a Cuneo per l’incontro di scrittori in città, il 16 novembre 2014.

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