Intervista a Andrea Caccia, regista piemontese.
Andrea Caccia è un regista piemontese. Dopo una formazione pittorica si dedica alla regia, realizzando cortometraggi e lungometraggi. Dopo aver girato, nel 2009, il suo primo lungometraggio, dal titolo Vedozero, il regista ha deciso, nel 2014 di lavorare ad un progetto che ne riprende le caratteristiche essenziali e il medesimo titolo. Nel 2009 Caccia aveva chiesto a settanta ragazzi di tre Istituti Superiori di Milano di provare ad utilizzare il cellulare, loro affidato, come un diario, filmando se stessi e ciò che vedevano per “raccontare i 18anni dal proprio punto di vista”. Gli studenti realizzarono un totale di 5000 minuti video, montati, infine, dall’autore. Vedozero 2014, girato questa volta in tre Istituti Superiori di Palermo, grazie al supporto della Regione Sicilia, ripropone questa idea, ma si confronta con una realtà diversa, nella quale, ad esempio, gli smartphones sono ampiamente diffusi. Il progetto si avvale, inoltre, della creazione di una “app” e di un sito dedicato, in cui è stato possibile seguire quotidianamente lo sviluppo del lavoro. Questo nuovo progetto permette a Caccia di confrontarsi con lo sguardo dei così detti nativi digitali divenuti autori e protagonisti di un racconto collettivo che permette di riflettere sul cambiamento imposto al cinema, ma soprattutto al nostro modo di incontrare il mondo, in seguito alla diffusione dei nuovi dispositivi.
L’intervista che segue si è tenuta il 29 maggio 2015, quando i ragazzi erano ancora impegnati a girare i loro video. Andrea Caccia sta lavorando, in questo momento, alle fasi finali della produzione del film, che si concluderanno il prossimo novembre.
Elisa Binda: da dove nasce l’esigenza di progettare una ricerca come quella intrapresa da Vedozero? A distanza di 5 anni dal primo Vedozero hai deciso di riprendere questo progetto. Questa decisione ha a che fare anche con l’attestare quanto le nuove tecnologie stanno cambiando i linguaggi, da quello con cui raccontiamo la nostra quotidianità, a quello con cui il cinema si costruisce? Hai notato, a questo proposito, una maggiore consapevolezza nell’uso dei dispositivi da parte dei ragazzi dell’ultimo Vedozero?
Andrea Caccia: il mio lavoro si origina da riflessioni teoriche, ma soprattutto da quello che in questi anni ho potuto costatare incontrando i ragazzi nelle scuole. Arrivavo da esperienze demotivanti: mi occupavo di alcuni laboratori di “alfabetizzazione al cinema” nelle classi delle scuole medie, ma mi rendevo conto che, per come questi erano strutturati, avevano spesso il risultato di allontanare i ragazzi dal cinema, piuttosto che insegnargli ad amarlo. Mi sono accorto che il metodo che utilizzavamo non era quello corretto, che non era il giusto modo di aprire una comunicazione efficace con loro. Così, ho pensato che invece di introdurre nella classe una telecamera, che i ragazzi finivano con il considerare un oggetto sacro, avendo tutti un grande terrore di toccarla, per paura di romperla, si poteva trovare un mezzo alternativo, meno intimidatorio. Ho cercato, così, di cogliere le potenzialità offerte dall’arrivo dei primi cellulari con una telecamera integrata; va detto che all’epoca, nel 2009, nessun ragazzo ne possedeva uno. Con il finanziamento offerto dalla Provincia di Milano ho potuto però fornire ai ragazzi alcuni di questi cellulari e far partire così il mio progetto: Vedozero. È stato un percorso strabiliante e pieno di belle sorprese. Nel momento in cui ho dato ai ragazzi il giusto strumento e li ho accompagnati in un processo, che io stesso immaginavo con loro, non avendo un’idea prestabilita, il lavoro ha preso fin da subito una piega diversa rispetto alle mie precedenti esperienze. Non ho mai fatto loro una vera e propria lezione su come si scrive un film, su come funziona la regola dei 180°, ad esempio, ma abbiamo visto insieme alcuni film e ci siamo confrontati. Da un iniziale imbarazzo da parte dei ragazzi, che ritenevano la loro vita troppo “normale” o “banale” per essere filmata e raccontata, attraverso un dialogo continuo, sono giunto a fargli capire che la loro storia “comune” è per questo comune a tutti noi, e quindi che ciò che loro avevano da dire, da mostrare, attraverso l’uso delle immagini, poteva diventare qualcosa di veramente interessante. Il tempo delle riprese è durato da gennaio a giugno, mesi in cui andavo ogni due settimane nelle scuole ad incontrare i ragazzi, alternandomi con un montatore, con un musicista e con uno psicologo. Alla fine mi sono ritrovato con circa 5000 minuti di girato, che ho trasformato poi in un film di 77 minuti. Il film, in maniera inaspettata, ha avuto anche un riscontro positivo dall’esterno. Vedozero è stata una bellissima esperienza, perché il lavoro dei ragazzi è stato foriero di grandi spunti, e per questo ho avuto il desiderio di riproporre lo stesso progetto. Nel 2013 la regione Sicilia ha offerto un finanziamento che ha reso possibile che questo desiderio si realizzasse. In quei pochi anni erano cambiate molte cose, ma in me era forte la convinzione che avesse senso rifare il film, mettendo anche in campo la possibilità che diventasse qualcosa di ripetibile, ed è anche per questo che ho deciso di dargli lo stesso nome, Vedozero.
Esiste un sito, oggi, che raccoglie i video dei ragazzi, ogni giorno ne vengono caricati alcuni. Il tema di quest’anno è la scuola, per questo le riprese termineranno a giugno, di modo da seguire l’intero anno scolastico. Il principio che sorregge questo lavoro è quello di cercare di seguire lo sviluppo tecnologico, e, contemporaneamente, di raccontare il mondo a partire da una visione che si faccia sempre più responsabile e più consapevole.
Vedozero nasce anche come progetto di riflessione “diretta” – attraverso la pratica del filmare – sull’evoluzione del linguaggio cinematografico in un tempo, come quello che stiamo vivendo, in cui tutti fanno video. Mia madre, mio figlio, il mio vicino, il salumiere…chiunque ha una macchina da presa in tasca e la usa costantemente. Questo radicale cambiamento era già in atto nel 2009 e oggi è come se fossimo già oltre quel futuro immaginato. Che senso ha produrre un video di quello che sto mangiando? Di come mi diverto? Di quello che succede intorno a me? Rossellini diceva che filmare è un atto di responsabilità nei confronti della realtà. Mi piace pensare a Vedozero, al di là dell’altisonante riferimento, come una sorta di strumento di responsabilizzazione attraverso il quale le giovani generazioni possano essere più consapevoli e attente al ruolo dell’immagini nella loro vita. Perché quello che ho potuto costatare è che semplificazione tecnica e conoscenza non hanno lo stesso passo…
E. B. Già in Vedozero 2009 emerge, chiaramente, il lavoro di “educazione allo sguardo” che fai con i ragazzi, che rimangono però molto liberi di scegliere cosa raccontare. Si nota come, attraverso il tuo aiuto, i ragazzi imparino a guardare la realtà che li circonda senza darla per scontata, forse è per questo che hai deciso di intitolare il film Vedozero. Vuoi parlarmi, in questo senso, del tuo rapporto con i ragazzi? Come questo modo di lavorare “libero” si confronta poi con il momento del montaggio?
A. C. Oggi come allora, credo che imparare a guardare la realtà sia una delle questioni centrali per comprendere la contemporaneità. Tutti noi e non solo i ragazzi dovremmo essere in grado di vedere le cose senza pregiudizi, a partire da un grado “zero”.
Il mio rapporto con i ragazzi è molto diretto. Li incontro, parlo, li ascolto, discuto i loro girati e piano piano ci conosciamo. Alcuni sono interessati altri no… È normale. Alla fine quelli che partecipano sanno che possono girare quanto vogliono e come vogliono.
La questione dell’ “educazione libera allo sguardo” è uno dei punti nevralgici del progetto; ho cercato di stabilire un rapporto immediato con i ragazzi, fatto di domande e risposte dirette. Il primo meccanismo che ho dovuto scardinare è stato quello del punto di vista: gli ho mostrato che si può cambiare, che si può giocare, andando oltre la ripresa amatoriale standard, e questa è stata una grande scoperta; hanno capito che ci sono cose non scontate, che una situazione, un oggetto, possono essere ripresi da punti di vista di versi, di modo da raccontarli in modi differenti. Questo è il primo passo che io compio con loro, poi, ognuno individua la sua linea, il suo sguardo, e lo segue.
Frutto di questo dialogo continuo con i ragazzi è stata la scelta di lasciarli liberi di girare i loro video in verticale. Sia nei laboratori precedenti, sia con l’ultimo Vedozero, mi sono accorto che, in modo naturale, la maggior parte dei ragazzi non metteva la camera in orizzontale per filmare o anche solo per fare un primo piano, perché gli viene spontaneamente più comodo maneggiare il dispositivo tenendolo in verticale. Credo che questo significhi anche una loro distanza dallo schermo del cinema; i ragazzi non vanno più molto al cinema, non lo pensano più come un orizzonte di sguardo nei confronti della realtà. Allora mi sono detto: “perché non utilizzare lo schermo in verticale?”, è stato un modo per dire ai ragazzi: “questo lavoro è davvero dal vostro punto di vista”. Mi sono messo a girare anche io in verticale, per sperimentare, per educare anche il mio sguardo. È un gesto molto forte, che si installa in quella visione “Vedozero”, di azzeramento e ricostruzione della visione. È anche un modo per mettere in discussione i paradigmi cinematografici tradizionali e credo che, per questo, l’uso del verticale sarà uno shock più per gli adulti che per i ragazzi che vedranno il film.
Nel momento dedicato alla fase di montaggio, la via più facile sarebbe quella di costruire una storia sopra le loro storie; invece, cerco di lavorare su un montaggio che, nel mettere vicini materiali così diversi ed eterogenei, possa far esplodere dei fili narrativi e interrogativi. Mi auguro che siano interrogativi che, se nel 2009 facevano riflettere sull’adolescenza, su come essa vuole raccontarsi, e non su come viene raccontata da qualcuno che adolescente non lo è più, oggi possano parlare della scuola, o meglio di come i ragazzi intendono mostrarla. Quando i ragazzi cominciano a utilizzare i loro cellulari come strumenti attraverso cui raccontarsi in maniera consapevole, attraverso cui raccontare gli altri e il mondo che li circonda, capiscono bene cosa filmare e cosa no, proprio perché partono da loro stessi, dalla loro faccia, dalla loro vita.
E. B. In un’intervista rilasciata ad Anna Caterina Dalmasso per «Rivista di Estetica», hai detto che «Vedozero non è un marchio che può usare solo Andrea Caccia. VedoZero è un progetto fatto a partire da questi elementi, che io mi auguro diventi una serialità, non realizzata da me, ma da altri. Questo, questa possibilità aperta, mi piacerebbe molto». Questo augurio che fai a VedoZero mi sembra molto interessante, perché apre a diverse possibilità, anche imprevedibili. Vuoi dirmi qualcosa a riguardo?
A. C. Ho sempre pensato a Vedozero come ad un progetto seriale, ripetibile all’ennesima potenza. Ma non è così semplice come sembra realizzarlo. Spesso, in questi anni tra il primo e il secondo film, sono stato contattato da scuole e/o docenti per fare Vedozero in una settimana o in due incontri da 2 ore. In questa occasione, invece, abbiamo lavorato per più di un anno, in dieci, ed è stato davvero difficile riuscire a mantenere alto il livello di concentrazione e attenzione, per tutto questo tempo. E non mi riferisco ai soli ragazzi…
Mi piacerebbe molto che Vedozero diventasse una specie di modello per altre esperienze di questo tipo, fermi restando i principi che lo hanno generato, che ahimè spesso fanno a pugni sia con l’industria del cinema che con quella della scuola.