Oltre Zalone. (Ri)educarsi all’immagine. Intervista a Roberto Roversi

Una serie di interviste a cura di Chiara Zanini sulla legge di riforma del cinema e dell’audiovisivo.

Quasi mille circoli in tutta Italia ospitano luoghi di scambio continuo e diretto per amanti del cinema, grazie a sale presenti anche in zone altrimenti desertificate o semi-desertificate come sono ormai chiamate quelle in cui si dovrebbero altrimenti percorrere chilometri per trovare in programmazione un film che nelle grandi città si vede più facilmente.

Il riassetto del settore cinematografico recentemente annunciato dal Mibact riguarda anche i film difficili (nel sito del Ministero vengono bollati così, senza nemmeno più virgolette) e le nove associazioni nazionali di cultura cinematografica, firmatarie di un documento unitario ed apparentemente escluse dallo schema di legge. Ne parliamo con Roberto Roversi, presidente di UCCA, l’Unione dei circoli cinematografici dell’Arci, e direttore della Sala Boldini, l’unica d’essai a Ferrara.

Chiara Zanini: Proprio come voi, anche Confindustria, Rai, Sky, Viacom, Discovery e Prima Tv (l’alleata nordafricana di Mediaset) hanno presentato alla Commissione un documento unitario, ma il giudizio espresso su come il settore possa continuare a vivere e sulla possibilità di un prelievo di scopo è diametralmente opposto. Il loro incontro si è svolto dopo l’annuncio della riforma Franceschini, di cui le vostre associazioni non erano state messe al corrente, mentre eravate stati convocati in precedenza, quando con il ddl Di Giorgi i contenuti erano diversi.

Roverto Roversi: Non mi stupisce che questi soggetti preferiscano lo schema Franceschini-Giacomelli, perché il disegno di legge Di Giorgi era di fatto un calco del modello francese, che prevede una tassa di scopo. Invece lo schema di disegno di legge Franceschini dispone che i 400 milioni di euro annunciati arrivino dall’Ires e dall’Iva pagate dalla filiera cinematografica. In parole povere: dalla fiscalità generale. Sono due cose completamente diverse.

I principali player del comparto (in particolare i broadcaster Rai Cinema, Medusa che è controllata da Mediaset, e Sky) avrebbero dovuto pagare queste imposte a prescindere, ma in Francia il prelievo di scopo è tale appunto perché avviene ad ogni passaggio della filiera. La scelta di prelevare le risorse dalla fiscalità generale, e non dall’esercizio e dai successivi passaggi della filiera, TV e web inclusi, è una scelta politica, che riguarda il modo di pensare il fisco e il relativo gettito. Per chi, come noi, ha sempre sostenuto che la cultura sia a pieno titolo parte integrante del welfare, e che quindi debba essere finanziata dallo Stato, è naturalmente una buona notizia. Purchè non si citi il modello francese.

Il ddl Di Giorgi partiva dal presupposto che il cinema deve autofinanziarsi, mentre il 28 gennaio il Governo ha in sostanza detto che i principali player [i cosiddetti Over The Top, ossia TIMvision di Tim, Infinity, Premium Play e Premium Online di Mediaset, CHILI.tv, Sky Online, Netflix] non si toccano. Come esercente di un piccolo cinema d’essai dovrei esultare: con il ddl Di Giorgi, a regime, avrei dovuto versare allo Stato il 10% di ogni biglietto emesso, e la conseguenza sarebbe stata ovvia per tutto l’esercizio: i costi supplementari si sarebbero tradotti nella maggiorazione del prezzo del biglietto. Ritengo che sarebbe stato più corretto, dal punto di vista comunicativo, ammettere che il modello francese (non dimentichiamo che le presenze annuali in Francia sono più che doppie rispetto a quelle italiane, circa 230 milioni di biglietti staccati contro i 105 nel 2015 del nostro Paese) non è replicabile sic et simpliciter, e che si è preferito percorrere altre vie.

C. Z. : Anche il ruolo delle vostre associazioni potrebbe cambiare con la nuova legge?

 R. R. : Leggi e decreti sul cinema hanno finora sempre definito, attraverso specifici articoli, cos’è un’associazione nazionale di cultura cinematografica. L’indicazione dell’articolo 18 del Decreto Legilslativo del 22 gennaio 2004, n. 28 e successive modificazioni è ben circostanziata: le AANNCC non devono avere scopo di lucro, devono svolgere attività di cultura cinematografica attraverso proiezioni, dibattiti, conferenze, corsi e pubblicazioni, essere diffuse e operative in cinque regioni, con attività perdurante da almeno tre anni.

E nonostante i tagli draconiani subiti negli ultimi anni (il contributo nel nostro caso era passato dal milione e mezzo stanziato nel 2005 ai 600mila euro del 2013), le associazioni nazionali, nove in totale, sono sopravvissute. Con Franceschini si è avuta una prima inversione di tendenza, tornando ad un contributo complessivo annuale di un milione di euro.

In tutti gli articolati che leggo ora, però, non vedo più nominate le AANNCC. Nel testo ci sono passaggi apprezzabili riguardanti quel cinema di qualità che spesso fatica a trovare il suo pubblico, ma le uniche realtà che si danno questo obiettivo sono le associazioni. UCCA ad esempio sta portando ovunque la quinta edizione de L’Italia che non si vede – rassegna itinerante di cinema del reale” con Cloro di Lamberto Sanfelice, Short Skin di Duccio Chiarini, Vergine giurata di Laura Bispuri e altri film passati ai festival internazionali senza riscontro commerciale. Le nostre associazioni si accollano costi con l’obiettivo di portare queste opere in luoghi dove le sale non ci sono affatto, mostrandoli ad esempio in sale polivalenti occasionalmente adibite a cinema. È un lavoro importante di ricucitura che facciamo solo noi, ma in questa fase nel decreto non c’è traccia del ruolo delle Associazioni.

C.Z. : C’è il rischio che il lavoro che fate nei territori attraverso i percorsi di educazione all’immagine venga così svalutato.

R.R. : Come associazione puntiamo al superamento di una fruizione pura e semplice dell’opera nella sala, proponendo innanzitutto socialità. Per noi invitare gli autori e i professionisti che hanno lavorato ai film che presentiamo è fondamentale. Nelle nuove piattaforme digitali il cinema si consuma in modo totalmente diverso, sostanzialmente solipsistico.

Riaprire sale attualmente chiuse e aprirne di nuove è un obiettivo condivisibile di entrambi i decreti, ma realisticamente è difficile immaginare un ampliamento del parco sale senza la formazione di nuovo pubblico. Le dolorose chiusure alle quali abbiamo assistito negli ultimi anni sono state inevitabili, in qualche modo il combinato disposto della crisi economica, dei costi del passaggio al digitale e soprattutto dell’invecchiamento del pubblico. Cioè del mancato ricambio.

Difficile sopravvivere se si programmano contenuti “difficili”, perché un paio di decenni di mancata alfabetizzazione cinematografica hanno comportato un mutamento del gusto. Cosa che non vale ad esempio per la Francia, che ha sempre protetto i film di qualità, soprattutto i propri e quelli europei. Da noi la conseguenza è che i film d’essai sono percepiti come respingenti e/o afflittivi.

Riportare la gente non solo in sala ma semplicemente fuori casa richiede un vero e proprio lavoro. Nelle nostre associazioni le persone tornano a mischiarsi, discutono… alcuni di noi gestiscono anche vere e proprie sale, io ad esempio il Boldini di Ferrara, che ha una programmazione settimanale. E lì si fa un altro tipo di lavoro, di coinvolgimento e di condivisione. Le persone ricominceranno ad andare di più al cinema solo se non ci limiteremo ad offrire loro la proiezione di un film, perché quello stesso titolo può ora essere visto anche comodamente a casa via web.

C.Z. : Come funziona attualmente il sistema dei contributi per le associazioni nazionali?

R.R. : Dobbiamo presentare ogni anno entro il 28 di febbraio un’istanza di contributo, ma come anticipavo in questo momento la legge sul punto è opaca, e infatti nel sito del Ministero alla voce Associazioni appare da mesi un avviso che diffida dal presentare la richiesta nei termini consueti nonostante la scadenza annuale. Viene spiegato che a breve ci sarà il nuovo ddl, e solo il futuro decreto stabilirà con quali nuovi criteri, termini e modulistiche saranno assegnati i contributi.

Quindi viviamo una situazione di attesa: di fatto siamo impossibilitati a presentare il piano delle nostre attività per l’anno già iniziato. Di solito i contributi vengono definiti in agosto, quindi ci troviamo d’abitudine ad operare per i primi otto mesi dell’anno senza conoscere l’entità del contributo proveniente dal FUS (Fondo Unico per lo Spettacolo) che andrà alle associazioni e sarà disponibile per l’anno in corso. Quest’anno non conosciamo nemmeno la tempistica.

C.Z. : Qual è la vostra opinione sulla gestione Franceschini?

R.R. : Senza dubbio ci sembra che il Ministro abbia dimostrato una diversa sensibilità sul cinema rispetto ai suoi predecessori. Sembra finalmente terminata l’epoca dei tagli indiscriminati, anzi già dallo scorso anno le Associazioni hanno potuto recuperare parte delle risorse perdute nel decennio precedente. Il fondo di 400 milioni di euro promesso nel decreto è un altro passo in avanti che accogliamo con favore; ma per dare un giudizio complessivo sul suo operato si dovranno aspettare i decreti attuativi che allungheranno ulteriormente le tempistiche, e per chi deve programmare in continuità questo rappresenta un problema. Il risultato è un’oggettiva incertezza in tutto il comparto, di cui noi siamo i pesci più piccoli. È preoccupante.

Spesso leggiamo titoli ad effetto su nuovi record stabiliti con l’uscita di due o tre film, o addirittura di uno solo: ma può dirsi sana un’industria che conta gli anni in cui uscirà il nuovo film di Checco Zalone? E prima ancora lo stesso discorso valeva per Cameron. Quo Vado? rappresenta da solo circa un decimo degli incassi di tutta l’industria cinematografica italiana: è evidente che il mercato italiano è troppo piccolo e va allargato. Non credo che un comparto possa sopravvivere soltanto grazie ai cosiddetti film-evento.

Purtroppo un’intera generazione è cresciuta con banali fiction TV su cani e preti poliziotto: non mi sorprende che non appena un film è linguisticamente più complesso venga trovato ostico da un pubblico non cinefilo. Per certi contenuti il pubblico ora quasi non esiste, e non basterà un’operazione di maquillage se non si fanno interventi educativi. Per questo quando sento parlare di costruire nuove sale o ammodernarne di vecchie non posso non chiedermi se riusciremo a riempirle. Anche laddove piccoli comuni di provincia sono riusciti a salvare alcune sale di prossimità, l’hanno fatto investendo risorse che permettano alla gestione di sopravvivere: l’intento è encomiabile, ma sono sempre soldi della collettività. Per fortuna ci sono ancora insegnanti illuminati e scuole con cui lavoriamo, alle quali proponiamo film complessi con ottimi riscontri.

C.Z. : Quali sono le scommesse di cui siete più soddisfatti?

R.R. : L’interazione feconda del cinema in sala con il web. Ovvero le proiezioni on demand. L’ha capito ad esempio Movieday.it, una piattaforma digitale che ci ha permesso di attirare 400 persone in una sola sera per la proiezione di Bansky Does New York, “costringendoci” ad una replica. Un risultato simile lo abbiamo riscontrato con Unlearning e Alla ricerca di Vivian Maier.

È di vitale importanza raccogliere i segnali inviati dal pubblico quando ha la possibilità di esprimersi. Con Movieday e altre piattaforme non è più il programmatore a far calare dall’alto le sue scelte, ma sono i gusti del pubblico a trovare spazio. I risultati non sono solo incoraggianti, ma ottimi anche per l’esercente. Sono gli stessi spettatori a promuovere i film con il passaparola, anche (anzi, soprattutto) quando si tratta di film di nicchia. E ormai se ne è accorta anche la grande stampa, se è vero che si tratta di un modello che persino Il Mereghetti (non a caso l’articolo precede il cognome!) ha lodato su «Sette», il magazine del «Corriere della Sera». A dimostrazione che questo fenomeno comincia ad avere dimensioni importanti in tutto il circuito. Anche chi gestisce una monosala, e non può giovarsi dei benefici della multiprogrammazione, dovrebbe avvicinarsi a questi modelli virtuosi.

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