Inciampare nella complessità del mondo. Intervista a Franco Lorenzoni

Franco Lorenzoni, maestro della scuola primaria di Giove in Umbria, e fondatore della Casa-laboratorio di Cenci ha raccolto in “I bambini pensano grande. Cronaca di una avventura pedagogica” (Sellerio, 2014) osservazioni e riflessioni sulla propria attività di sperimentazione educativa.

Mentre il Presidente Mattarella sta firmando la legge di riforma della scuola del duo Renzi-Confindustria abbiamo intervistato Franco Lorenzoni che, con la sua attività didattica e di ricerca, ha contribuito a mantenere viva l’attenzione su problemi altrimenti offuscati dai mantra della valutazione e della digitalizzazione.

Marco Ambra — Prima di tutto complimenti per il libro, che oltre a raccontare un’esperienza, che riguarda da vicino una moltitudine di insegnanti, racconta tutto in una forma godibile.

Proprio nel prologo, in cui in un certo senso spieghi al lettore perché hai messo al centro della narrazione i pensieri infantili trascritti durante un intero ciclo scolastico, attribuisci come prima responsabilità a chi fa scuola e in particolare attività didattica la responsabilità di portare bambini e ragazzi a sviluppare un’attitudine, quella di «indossare a rovescio qualche abito mentale».

Senza lo sviluppo di questa attitudine è impossibile uscire dalla ripetizione degli apprendimenti meccanici, dalla applicazione della tabellina mandata giù a memoria o dalla pedissequa esposizione della parafrasi alla poesia. Alla luce di questa tua posizione come pensi che si affrontino, oggi, nella scuola pubblica italiana, le difficoltà di apprendimento? Non credi che imperversi un senso comune che tende ad istituzionalizzare e consolidare gli apprendimenti meccanici a svantaggio dell’attitudine a rovesciare gli abiti mentali?

Franco Lorenzoni — La tua domanda è complessa. Io penso che noi insegnanti dobbiamo riuscire a dare un senso allo sforzo che comporta il ricercare e lo studiare. Conoscere il mondo comporta sempre uno sforzo che per alcuni è uno sforzo enorme. Ora  è possibile compiere questa fatica e questo sforzo solo se si intravede un orizzonte di senso.

Nella mia esperienza e nella mia formazione all’interno del Movimento di Cooperazione Educativa consideravamo come assai importante quello che chiamavamo “inciampo”: un elemento che spiazzava e che aiutava a rendere attivo e partecipe il percorso di ricerca proposto. Noi insegnanti dobbiamo creare degli “inciampi” ai ragazzi.

Dobbiamo cioè proporre uno spiazzamento che ci fa ad un tratto vedere le cose da un altro punto di vista. Questo lo si può fare in qualsiasi disciplina: guardando un quadro, leggendo un romanzo, affrontando una questione matematica.

L’inciampo è l’idea che tu proponi ai ragazzi una domanda aperta, un enigma capace di suscitare in loro reazioni più diverse. A partire da queste domande poi cerchiamo di costruire un tessuto di relazioni e questo è il momento più delicato e difficile. Però, se tutti siamo di fronte a un oggetto o a una questione che non conosciamo, ma che ci ha incuriosito e spiazzato, è più facile che attiviamo una relazione viva fra quello che sentiamo dentro e il nostro dire e il nostro ragionare, confrontando le nostre opinioni.

Credo che sia necessario scalfire e incrinare le tante corazze dietro cui ci nascondiamo un po’ tutti e che spesso vengono indossate da ragazze e ragazzi per dire “ciò di cui voi insegnanti state parlando non ci riguarda”.

Nella scuola infatti, purtroppo, l’alienazione cresce con l’età: dalla scuola dell’infanzia all’università lo studio appare ogni anno di più a troppi ragazzi (soprattutto maschi) come qualcosa  di estraneo. Il nostro compito – assai difficile – è allora quello di trovare i modi per cui natura, arte e scienza  come tutti i manufatti culturali che noi presentiamo all’attenzione dei ragazzi a scuola, possano far specchio al loro modo di conoscere maggiormente se stessi.

C’è una bella frase di Emma Castelnuovo nella prefazione che scrisse al suo primo libro, La geometria intuitiva (La Nuova Italia, Firenze 1949, p.VII), che è il suo primo libro, scritto dopo appena quattro anni che insegnava: «Bisogna cercare […] di incoraggiare la naturale, istintiva, curiosità che ha il ragazzo dagli 11 ai 14 anni, conducendolo alla scoperta delle verità matematiche in modo da dargli l’impressione di aver fatto qualcosa per sé».

In queste due parole – per sé –  c’è il nodo che tutti noi insegnanti dobbiamo tentare di sciogliere, cercando di prenderci cura della relazione educativa tanto da permettere a tutti i bambini e ragazzi di appassionarsi alla conoscenza del mondo.

Quando dico “indossare a rovescio un abito mentale” io alludo proprio a questo: che buon maestro o buona maestra è colui o colei che riesce a seminare inquietudini, a mettere un po’ sulle spine, a non accontentarsi. Questo è molto importante, altrimenti il sapere rischia di presentarsi come qualcosa di rigido, già strutturato, distante dai ragazzi e dalle ragazze, e questo è il motivo principale per cui ne perdiamo troppi per strada.

M. A. — A me sembra che il senso comune contemporaneo sull’istruzione sia orientato a fornire ai ragazzi e alle ragazze degli strumenti per eliminare più “inciampi” possibili, per fare piazza pulita delle inquietudini che vengono dall’esterno.

Come a dire, anche la scuola viene arruolata fra quelle istituzioni che funzionano da schermo rispetto ai pericoli che provengono dalla società liquida: dietro tutto il discorso pedagogico sulle competenze ho l’impressione che ci sia al lavoro una logica di questo tipo, per cui la scuola dovrebbe approntare degli strumenti come le competenze di base e trasversali, per aiutare i ragazzi e le ragazze ad affrontare la complessità del mondo, rimuovendola.

L’inciampo viene insomma sostituito dalla pratica chirurgica del know-how: questo è il problema, la scuola ti fornisce la soluzione. Cosa pensi del discorso sulle competenze?

F. L. — Il discorso sulle competenze è abbastanza delicato. Da un certo punto di vista io penso che sia giusto costruire “competenze” se per “competenze” intendiamo un rapporto attivo con la conoscenza.

Se competenza è saper utilizzare ciò che si sa, farne tesoro, e trasformarlo in potenzialità da sperimentare nelle esperienze concrete e nella vita, allora io penso che sia giusto educare alle competenze.

C’è però il rischio che prevalga un’idea completamente utilitaristica dello studio, oggi rafforzata da alcuni modi perversi di utilizzare le prove di verifica, che chiudono il ragionamento invece di aprirlo. E nella scuola, oggi, purtroppo l’uso di questi test è sempre più frequente e decisamente esagerato. Se torniamo all’etimologia della parola scuola scopriamo che l’antica parola greca scholé equivale al latino otium, e indica un luogo in cui si perde tempo o, meglio, si utilizza il tempo in modi completamente diversi da fuori, facendo altro da quello che si fa nella vita quotidiana, sempre più dominata dal negotium.

La scuola per me dovrebbe sempre provare ad essere un luogo diverso e migliore dalla società, perché sappiamo bene che società e natura sono luoghi di profonda ingiustizia. Negli ultimi mesi, grazie anche al bel film di Mario Martone, si è tornati proficuamente a parlare di Leopardi, che riguardo alle ingiustizie proprie della natura ha ancora molto da insegnarci.

Sono le ingiustizie che abbiamo davanti tutti i giorni: quelle che devono affrontare ogni giorno i ragazzi disabili che la natura ha reso diversi anche in modo molto penalizzante e che la scuola dovrebbe saper accogliere, e le enormi ingiustizie sociali. Noi sappiamo che tutti i ragazzi sono diversi perché hanno alle spalle memorie diverse, linguaggi diversi, informazioni diverse, possibilità economiche diverse, esperienze emotive diverse.

Allora la scuola dovrebbe essere il luogo in cui le discriminazioni possono essere attenuate e trasformate in nuove possibilità da aprire. Le differenze non possono essere abolite, ma ogni forma di discriminazione va combattuta con decisione perché la scuola deve darsi come compito prioritario quello di attenuare le discriminazioni. Senza però cadere nella retorica per cui la differenza è di per sé una ricchezza: la differenza può diventare un fattore molto positivo a patto però che ci si lavori sopra tanto, con decisione, dedicando tutto il tempo che occorre.

Gli insegnanti devono cioè costruire una didattica in grado di mostrare al gruppo classe che le difficoltà di qualcuno possono essere uno stimolo a tutti per ripensare il percorso, perché, molte volte, un percorso ripensato per le difficoltà di qualcuno si dimostra un percorso più ricco per tutti. Non dimentichiamoci che Maria Montessori e Ovide Decroly erano medici che si occuparono di disabilità e scoprirono nuove vie per l’educazione di tutti.

Ad esempio è un dato internazionalmente riconosciuto che le classi in cui ci sono dei ragazzi con disabilità sono classi in cui le competenze sociali si sviluppano maggiormente perché la qualità delle relazioni è più alta. Questo però non è un dato acquisito. Ci dice solo che se si svolge un buon lavoro inclusivo allora si ottengono ottimi risultati per tutti.

La scuola italiana è stata tra le prime in Europa ad aver integrato i ragazzi portatori di disabilità. Il problema è che per mantener vivo lo spirito di quell’ottima legge bisogna rendere vero ed efficace questo potenziale e per farlo sono necessarie una serie di condizioni: per esempio, ci vuole una relazione molto diversa tra insegnanti di sostegno e insegnanti curricolari, facendo sì che davvero ogni insegnante sia insegnante di tutta la classe, altrimenti succede che il ragazzo con disabilità viene affidato all’insegnante di sostegno e la classe continua a lavorare come se quel ragazzo non ci fosse.

Solo se accresciamo la capacità di lavorare in gruppo tra insegnanti, di metterci in relazione, di crescere e ricercare insieme, possiamo tentare di conciliare due aspetti che a mio avviso devono essere sempre presenti nella scuola: da una parte la costruzione di competenze, ovvero il fatto che ciò che si impara sia vissuto come qualcosa di utile per la vita, dall’altra il preservare l’aspetto atemporale, direi quasi antistorico della conoscenza, che costituisce il paradosso dell’arte del conoscere e che dovremmo essere in grado di proporre in modo affascinante ai ragazzi.

Noi studiamo molte cose che non sono direttamente utili (la letteratura, l’antica cultura greca, ecc…) eppure proprio questi incontri con i “ morti”, con i nostri antenati, ci permettono di pensare con più lungimiranza all’oggi, allargano i nostri orizzonti. Io credo che questi due aspetti vadano tenuti insieme, perché se si separano, si rischia di fare una scuola utilitaristica.

Noi dobbiamo cercare tutte le forme possibili per aprire le nostre menti perché si formino giovani curiosi verso il mondo, desiderosi di conoscere proprio perché, purtroppo, viviamo in un mondo che premia la semplificazione, lo slogan, il tweet spesso idiota, che sintetizza tutto senza far comprendere nulla, perché il mondo e gli altri sono straordinariamente complessi e difficili da intendere.

In altri termini, noi insegnanti, dovremmo cercare di lavorare sulla bellezza della complessità, del porci domande, la bellezza di scoprire che sono proprio le grandi questioni difficili da risolvere quelle che maggiormente possono stimolare noi e i ragazzi. Del resto abbiamo di fronte un mondo largamente incomprensibile, basti pensare a quello che è successo questo inverno a Parigi con l’attacco a Charlie Hebdo e tutto ciò che sta accadendo ai popoli che si affacciano sul Mediterraneo.

Cercare di capire il mondo è molto difficile, ma i ragazzi devono vivere in questo mondo e bisogna dunque che imparino ad esercitarsi confrontandosi con tante complessità intrecciate. Per questo penso sia utile la lettura di grandi romanzi, lo studio della storia, un approccio alle scienze interessante e critico. Ci vuole spessore culturale.

La scuola, secondo me, dovrebbe essere un luogo in cui insegnati e ragazzi si impegnano a dissodare la terra per accrescere in tutti lo spessore culturale e magari scoprire che nuove piante inaspettate possono germogliare, dandoci la gioia dello scoprire insieme.

M. A. –  A proposito dei fatti di Parigi e della loro complessità. Hai parlato in classe dell’attentato a Charlie Hebdo? Ci sono nella tua classe bambini o bambine provenienti da famiglie di fede islamica? Se sì, quali strategie hai utilizzato?

F. L. — Non ci ho lavorato perché ho una seconda elementare e non ho ritenuto ancora opportuno affrontare questo argomento. In classe ho una bambina musulmana proveniente dal Marocco e mi piacerebbe pensare qualcosa da costruire con lei e con i suoi familiari, che sono molto disponibili.

Nella nostra scuola, tuttavia, a fine dicembre la maestra Roberta Passoni ha messo in scena la storia di Malala Yousafzai con la terza e la quarta elementare. Le due classi hanno prima letto il diario di Malala, lo hanno studiato, hanno ragionato a lungo intorno al discorso che quella loro straordinaria “compagna” ha tenuto al momento della consegna del Nobel e, da questo percorso di ricerca, hanno tratto uno spettacolo molto coinvolgente.

Diciamo che hanno cercato, attraverso quello strumento meraviglioso di rottura delle distanze che è il teatro, di avvicinarsi alla storia di una ragazza che si è ribellata alla terribile ingiustizia del vietare l’accesso all’istruzione alle bambine. Sono tuttavia entrati in quel tema facendosi accompagnare dalle parole scritte e dette da Malala, che da una testimone vera che è diventata così importante per loro che le hanno voluto dare voce con i loro corpi davanti a tutti i genitori. Ecco un esempio in cui l’intreccio tra una storia che proviene dall’esterno e ciò che noi proviamo diventa vitale e generativo.

Io credo che la scuola dovrebbe sempre stare in questa tensione: da una parte l’oggetto culturale, una storia, qualcosa che viene dall’esterno, dall’altra una comunità che si conosce e riconosce ricercando e parlando intorno a questo oggetto. È quella che io chiamo educazione alla vulnerabilità: noi dobbiamo ricercare e lavorare a fondo intorno al nostro essere fragili, al nostro essere toccati dalle cose del mondo. Questa per me è la via maestra per educarci alla non-indifferenza.

Ma per fare questo dobbiamo costruire dei percorsi didattici significativi, lavorare a lungo su materiali e renderli oggetti per riflessioni profonde: non ne parli solo un giorno, facendo magari vedere un film sulla persecuzione degli ebrei nel Giorno della Memoria, così non funziona. Io credo molto alla lezione di Nora Giacobini, una grande maestra che ho incontrato nel Movimento di Cooperazione Educativa e che ha poi vissuto nella casa-laboratorio di Cenci, con noi, i suoi ultimi 12 anni: nell’affrontare la storia c’è sempre bisogno di progettare lunghe manovra di avvicinamento.

Nora Giacobini ha lavorato ad esempio intorno alla storia di David Rubinowicz, un ragazzo ebreo morto nel campo di sterminio di Treblinka nel 1942, che scrisse dal 1940 fino alla deportazione dei diari su cinque quaderni di scuola. La sua scelta era dovuta a una precisa strategia didattica: se partiamo dal racconto di come un bambino guardava a quello che accadeva, noi abbiamo la possibilità di sposare un punto di vista e interrogarci su cosa è accaduto, accompagnati dalla sensibilità e dalla percezione delle cose del mondo di un bambino partendo da ciò che il suo punto di vista ci comunica, da ciò che le sue parole scritte provocano in noi. Lavorare su materiali oggettivi, capaci di suscitare emozioni, allontana dal rischio di affrontare temi drammatici in modo ideologico. Noi non dobbiamo trasferire ai bambini le nostre idee, ma suscitare il loro libero pensare ponendoli di fronte a dati e oggetti culturali. Questo non significa, naturalmente, rinunciare alle nostre opinioni, ma dare la possibilità a bambini e ragazzi di forgiare le proprie opinioni – spesso diverse tra loro – in un confronto a caldo, diretto, forte, con documenti e momenti della storia particolarmente significativi. Se prepariamo bene i materiali permettiamo una riflessione articolata ed è nella cura con cui predisponiamo l’avvio di un percorso di ricerca che testimoniamo quanto quel tema ci sia caro.

M. A. — Questa idea la esprimi molto chiaramente ne I bambini pensano grande, quando affermi, a proposito dell’uso della storia in classe che «è sempre molto difficile individuare la linea di confine tra una costruzione condivisa di valori e l’indottrinamento dei bambini» (p. 47). Leggendo questo paragrafo mi sono venute in mente le immagini dello scorso marzo, con il Presidente del Consiglio accolto in una scuola siciliana sulle note dell’inno di Mameli, fra applausi e poesie dedicate. Ecco, ti chiedo quali siano le modalità per evitare il passaggio dalla costruzione condivisa di valori all’indottrinamento. Non ti sembra, questo, un compito molto più semplice nella scuola secondaria, ma che invece risulta più arduo nella scuola primaria, con i bambini? Non c’è sempre in agguato il rischio a volte invisibile della manipolazione?

F. L.  — Seguendo la tradizione del Movimento di Cooperazione Educativa credo che bisogna fornire a bambini e ragazzi materiali di qualità, preparati con cura. Che siano testi, immagini, musiche o film, i materiali provocano risposte plurali, che rendono la complessità di posizioni differenti. Ecco, non credo che bisogna dare agli studenti cibo già masticato o, peggio, liofilizzato e insapore, ma fornire gli ingredienti e poi preparare tutti insieme un buon forno per mettere a cottura ciò che si è composto collettivamente, con l’apporto di tutti. Qui è essenziale l’atteggiamento che abbiamo noi insegnanti: se sappiamo dare valore alla discussione, alle posizioni differenti, i ragazzi pian piano si abituano a riconoscere di possedere un pensiero autonomo e ne sono felici.

La scuola, purtroppo, troppe volte non aiuta i ragazzi a pensare che hanno diritto di ragionare in modo libero, critico e autonomo. Li abitua piuttosto a rispondere alle interrogazioni tutti allo stesso modo.

Il troppo peso che hanno assunto le prove Invalsi agli occhi dei dirigenti e degli insegnanti è rischioso perché quelle prove ci aiutano a capire solo alcune cose parziali e specifiche su come lavorano i ragazzi. Non ci dicono nulla su moltissime altri aspetti del conoscere e del relazionarsi con gli altri. Inoltre, trattandosi di test, obbligatoriamente valutano come corretta una sola risposta, uguale per tutti. In quelle prove vai bene se dici la stessa cosa degli altri, mentre nella costruzione corale della conoscenza e nel dialogo, ciò che maggiormente ci arricchisce sono le differenze di pensiero e di procedimento scelte da ciascuno. Riguardo alle prove che dovrebbero attestare la capacità di comprensione di un testo, ad esempio, a volte ho trovato domande che mi hanno lasciato assai perplesso, perché pretendevano di individuare una sola risposta univoca e corretta, quando i significati del testo potevano essere variamente interpretati. Il rischio è che un cattivo uso delle prove invalsi in italiano potrebbe dare un colpo mortale al già precario rapporto tra i ragazzi e la letteratura, troppo spesso utilizzata a scuola più per giudicare i ragazzi che per dar loro la possibilità di pensare in grande in un confronto vivo con grandi opere.

Noi abbiamo il dovere di lavorare per una scuola che renda tutti capaci di comprendere testi anche difficili, in un paese dove oltre metà della popolazione non è in grado di leggere una scrittura complessa, ma questo non deve andare a scapito della costruzione della capacità di ragionare e sviluppare il proprio spirito critico.

Il paradosso è che la conversazione si pratica spesso nella scuola dell’infanzia e nella primaria e molto meno nelle classi superiori, quando sarebbe ancor più necessario per contrastare la progressiva alienazione e allontanamento dei ragazzi dallo studio. Non è facile costruire una scuola capace di democrazia e di dialogo perché noi insegnanti non siamo stati formati per questa pratica. Salvo rare eccezione, infatti, scuole superiori e università non sono luoghi di discussione quanto piuttosto di trasmissione: i dati ci dicono che più del 70 % del tempo è ancora impiegato in lezioni frontali, in barba a tutte le belle parole sulla didattica dei laboratori.

M. A. — Mi chiedo allora se una disciplina finalizzata alla pratica del pensiero critico, come la filosofia, non trovi il luogo più adatto per potere essere esercitata, il proprio “luogo naturale”, nella scuola primaria e dell’infanzia. Di fronte all’ipostatizzazione della filosofia nella lezione frontale sulla storia della filosofia non sarebbe più auspicabile introdurre un insegnamento della filosofia nella scuola primaria, magari nella forma molto in voga della Philosophy for Children?

F. L.Mi piacerebbe che la pratica filosofica, il discutere a fondo, ciò che John Campbell definiva «il guardare il sorgere dei pensieri come in una moviola», ovvero l’attitudine ad avere un rapporto vivo con i propri pensieri, esistesse già nella scuola dell’infanzia.

In una scuola spesso sorda a tutto ciò sono favorevole al fatto che ci siano progetti anche con etichette alla moda, come la Philosophy for Children. È chiaro che una volta mosse le acque con i progetti mirati e seri, mi piacerebbe che poi si desse continuità a queste pratiche. Si può iniziare magari dedicando un’ora a settimana al dialogo su temi, ma poi io auspico che si faccia “filosofia” insegnando matematica, storia, religioni, altrimenti, se il filosofare lo metti in un recinto, rischia di divenire un controsenso.
La filosofia nelle prime classi non può essere una disciplina a se stante, è innanzitutto il prendere progressiva coscienza e costruire una metaconoscenza che ci aiuti a comprendere ciò che facciamo. Il linguaggio ne è pieno: basta riflettere sulla lingua per fare filosofia. Il problema vero è quindi quello della formazione di noi insegnanti, formare gli insegnanti a questa attitudine, al dare valore al pensiero che indaga a qualsiasi età. E darsi tempo. Bisogna darci tempo per fare tutto ciò, quindi scegliere, affrontare meno contenuti, ma trattarli con grande profondità. Allora si fa filosofia. Non è aggiungendo ma togliendo che si trova lo spazio per fare filosofia. Il lavoro nella scuola per me dovrebbe essere prevalentemente un lavoro di scultura: noi dobbiamo togliere, togliere, togliere… per trovare le cose essenziali.

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