“Il popolo di legno” (Einaudi Stile libero big, 2015), ambientato in una Calabria sospesa tra il simbolico, il realistico e il paradigmatico, è l’ultimo romanzo di Emanuele Trevi, scrittore e critico letterario già autore, fra gli altri, di I cani del nulla (2003), Il libro della gioia perpetua (2010) e Qualcosa di scritto (2012).
Protagonista è il Topo, per il quale «la vita non era niente di più e niente di meno che una biglia che rotola su un piano inclinato» e che come gli altri personaggi del libro – il Delinquente, un po’ vittima e un po’ amico d’infanzia, gli Zii, il Vescovo – è identificato con il suo nomignolo e in esso si identifica. Un nome proprio, ma poco più di quello, è riservato invece alle donne che compaiono nel romanzo: l’una, Donna Filomena, nonna del delinquente, è un’intelligenza femminile tutta dispiegata nell’angusto ruolo riservatole da un ambiente mafioso; l’altra, Rosa, la moglie del Topo, è una pingue idiota incapace di formulare una qualsiasi opinione, del tutto indifferente alla vita e ai suoi eventi, il perfetto complemento di uno schermo televisivo. Entrambe, proprio per le loro opposte nature, riescono a guadagnarsi la stima, e persino l’amore, di cui è così avaro dispensatore il Topo.
Un uomo estremamente affascinante, il Topo, con un passato da prete cui lo lega solamente l’incredibile capacità affabulatoria e il potere dello sguardo. Un fascino che però non è frutto di alcuna forma di cultura: al contrario. L’unico libro che possiede è il Pinocchio di Collodi, e su una sua lettura ribaltata ed evangelizzante si basa Le avventure di Pinocchio il calabrese, la trasmissione radiofonica che egli imbastisce grazie all’appoggio del Delinquente. Dai microfoni di Tele Radio Sirena, il Topo esorta i calabresi a prendere coscienza del proprio essere diversi dagli altri, a smascherare l’inutilità di ogni volontà educativa e di ogni appello al senso di realtà. La sua esortazione, però, non ha fini migliorativi: il Topo infatti è convinto che la superiorità morale sia «il peggiore dei morbi che possono infettare la mente umana» e che la pretesa di migliorare la propria vita, soprattutto quella di farlo attraverso l’intelligenza, sia la più stupida delle illusioni.
Il popolo di legno è un libro facile da divorare ma difficile da digerire, che mi ha lasciata con molti interrogativi, alcuni dei quali ho avuto l’opportunità di porre a Emanuele Trevi.
Tutti noi calabresi, fratelli e sorelle di legno, considerati come popolo con la sua storia lunga secoli, o come semplici individui, tutti noi calabresi siamo gente che qualcuno, in un modo o nell’altro, ha tentato di mandare a scuola. […]
Ma con noi non ce la fanno mai davvero. Certe volte si illudono, perché ci compriamo dei giornali, o andiamo a votare. I romani, i visigoti, gli spagnoli, i piemontesi: si sono tutti illusi per qualche tempo. Perché loro non posso capire, non hanno le orecchie di legno, loro a scuola ci arrivano sempre, non la sentono, la musica,
pi-pí, pi-pí, pi-pí, zum zum zum zum
pi-pí, pi-pí, pi-pí, zum zum zum zum
pi-pí, pi-pí, pi-pí, zum zum zum zum,
o se la sentono si tappano le orecchie, si credono migliori degli altri perché fanno sacrifici, perché pensano al futuro, perché credono che ascoltare le lezioni della scuola perpetua come un ergastolo che è diventato il mondo gli servirà a qualcosa.
M.T.G.: Per cominciare volevo chiederle, in modo decisamente scontato: com’è nata l’idea di questo libro, e come si è sviluppata?
E.T.: La prima scintilla di questo libro sono delle parole che ho appuntato su un quaderno qualche anno fa. C’era scritto solamente: «Gesù e Pinocchio = i figli del falegname». Poi per i casi della vita mi è capitato di tornare spesso in Calabria, sia in luoghi che conoscevo fin dall’infanzia e dove ho trascorso una parte importante della mia vita, sia in luoghi che non mi erano affatto familiari. E queste due cose, il pensiero sui “figli del falegname” e il paesaggio della Calabria hanno cominciato a fermentare insieme. Ma quando dico “Calabria” intendo anche qualcosa di più vasto, un meridione universale, che si stende dall’America Latina all’Asia e all’Africa, e di cui il Mediterraneo è una variante domestica. Però tutto quello che uno ha in mente non ha una vera esistenza, solo scrivendo si capiscono le cose. La speranza è che quel processo di comprensione che il libro rappresenta appassioni non solo chi lo scrive, ma anche un po’ di lettori.
M.T.G.: Tutto, nel libro, si basa sul ribaltamento: le cose non sono quello che sembrano, Lucignolo è un angelo custode, i libri hanno significati diversi da quelli che leggiamo. Dove finisce la spirale che porta di contrario in contrario e cosa resta della sua visione della Calabria – che, per quanto simbolica, è pur sempre un riferimento alla Calabria reale? La ritiene veramente l’unica, inconsapevole roccaforte di un vivere in qualche modo autentico, ma condannato all’immobilità?
E.T.: Mi colpisce che nella domanda ci siano queste parole: «le cose non sono quelle che sembrano», perché uno scrittore americano, un grande autore di romanzi noir, ha detto che ogni racconto si può riassumere in queste sette parole (Proust ne usa solo tre per dire qualcosa di simile: «il cuore cambia»). In questo processo di svelamento, però, mi sembra che la Calabria rimanga un punto fermo, perché la Calabria non è altro che lo Spirito, come direbbe il mio protagonista, lo stesso Spirito che si è servito di Collodi per scrivere di Pinocchio. A un certo punto del libro il Topo se ne rende conto esplicitamente. Ma a prezzo di un rovesciamento: noi tendiamo a immaginare ciò che è spirituale come etereo, e dunque più leggero e volatile della materia, invece lo Spirito è proprio la parte più tenace della materia, le ossa della bestia scomparsa. Viaggiando in Calabria, mi è avvenuto molte volte di provare questa sensazione. Ed è anche il motivo per cui vado spesso in Grecia e in Grecia ho scritto parte dei miei libri. In Grecia ritrovo esattamente delle emozioni e delle sensazioni che risvegliano in me quelle stesse identiche emozioni e sensazioni che provavo in Calabria da bambino.
M.T.G.: La quarta di copertina de Il popolo di legno recita: «Una delle più folgoranti testimonianze di nichilismo letterario dell’ultimo decennio». Il libro, però, è anche costellato di affermazioni forti da parte del Topo, prese di posizione nette che sanciscono la propria visione del mondo e della vita: «Le canzoni, a giudizio del Topo, erano il più efficace strumento di sottomissione e annebbiamento spirituale che esistesse al mondo. Se governavi le canzoni non avevi bisogno della bomba atomica»; «Le cose non sono quasi mai quelle che sembrano. Solo le cose stupide sono esattamente quello che sembrano»; «Una calunnia, nonostante quello che si crede, può incontrare molti ostacoli nel suo diffondersi, e addirittura perdere forza. La verità invece viaggia alla velocità della luce, tanto che tutti, nel momento stesso in cui la apprendono, nutrono l’illusione di saperla già da tempo». Come occorre interpretarle, dunque? Come si conciliano – o non si conciliano – il nichilismo del Topo e le massime dal sapore quasi moraleggiante che a volte esprime?
E.T.: Ovviamente avevo il potere di correggere quello che volevo, quindi condivido con l’editore la responsabilità della quarta di copertina, ma l’idea di definire “nichilista” la filosofia del libro non è stata mia. Del nichilismo, mi interessa la sua definizione più classica e in fondo più ovvia: un pensiero che procede in assenza di un fondamento. In questo senso ristretto e scolastico, io posso riconoscermi pienamente nel nichilismo, perché nella mia vita non mi sono mai poggiato a un fondamento di qualche natura, non sono religioso, non nutro una particolare idea politica del mondo, non sento un senso di appartenenza a una qualunque comunità. Ma non vedo una grande contraddizione fra il nichilismo e l’emettere un giudizio, sia pure un giudizio morale. Il Topo detesta le canzoni, e tante altre cose, e non mi nascondo dietro di lui, i suoi giudizi spesso coincidono con i miei. Forse però non sono abbastanza ferrato in filosofia per riconoscere questa contraddizione.
M.T.G.: Concludo con una domanda che in qualche modo sottende le prime due: lei ha parlato di «processo di comprensione che il libro rappresenta». L’impressione che ho avuto, è che Il popolo di legno metta in discussione l’intera operazione del raccontare, del narrare: a partire dal rovesciamento di una storia che ha partecipato alla formazione di generazioni di italiani, Pinocchio appunto, il cui messaggio eversivo non sarebbe stato compreso neppure da Collodi stesso, fino alla messa in ridicolo di chi concepisce la propria vita «come un romanzo». Il Topo stesso sostiene di avere vinto, alla fine, di essere riuscito a rendere indelebili Le avventure di Pinocchio il calabrese, ma il prezzo della vittoria è il non sopravvivere al proprio racconto. Che tipo di rapporto con la narrativa c’è dietro questa visione? Raccontare è pericoloso, eroico, o semplicemente inutile?
E.T.: Con la sua sparizione, il Topo entrerà in una specie di leggenda perpetua, se ne diranno tante su di lui. Ma è la situazione particolare che mi sono immaginato a produrre questa specie di immortalità generata dal mistero. In questa materia, bisogna sempre evitare le generalizzazioni, perché lo stesso racconto potrà risultare pericoloso, eroico, o del tutto inutile a seconda delle situazioni in cui si produce. Un naturale processo di usura inoltre trasforma un gesto eroico in un gesto inutile, un’affermazione pericolosa in un luogo comune.