Intersezionalità: la lezione di Angela Davis

Recensione di Donne, razza e classe (Alegre, 2018)

Fonte: Stampa critica

A quasi quarant’anni dalla sua prima edizione originale (1981), la ripubblicazione di questo libro, con prefazione di Cinzia Arruzza e traduzione di Marie Moïse e Alberto Prunetti, è stata una scelta azzeccata ed utile. Si tratta di un saggio che fu elaborato e pubblicato in un contesto, quello statunitense, fortemente caratterizzato da due aspetti: il primo era lo scontro fra suprematismo bianco e razzismo istituzionale da una parte e il nazionalismo nero (black power) dall’altra, con quest’ultimo fortemente pervaso ancora da tratti misogini; il secondo era il rapporto contraddittorio fra il movimento femminista degli anni Sessanta e Settanta del ‘900 e le donne afroamericane. Il fine di Davis, quindi, è di riconsegnare dignità storica e politica al ruolo delle donne nere nella lotta contro lo schiavismo e poi contro la segregazione, come se siano esse stesse a raccontare la propria storia. Inoltre, questo volume fu all’epoca uno studio pionieristico sull’intersezione fra questioni di razza e classe all’interno del movimento delle donne negli Usa. Davis, attraverso un metodo cronologico, studia la transizione delle afroamericane dalla schiavitù alla libertà incrociando le loro scelte con le questioni del suffragio femminile, della resistenza contro gli stupri, del diritto al controllo delle nascite e all’aborto, e infine del lavoro domestico, sulla base dell’assunto che «il punto di partenza per ogni ricerca sulle vite delle donne Nere durante la schiavitù dovrebbe essere l’analisi del loro ruolo in quanto lavoratrici» (pag. 285).

Femminismo versus antirazzismo negli Usa del XIX e XX secolo

La schiava nera, in quanto bracciante agricola, entrava a pieno titolo all’interno della forza-lavoro, lavorava sodo come lo schiavo maschio e non le venivano risparmiate nemmeno le forme di lavoro più dure. Questa uguaglianza,nell’oppressione, con gli uomini neri produsse un egualitarismo delle relazioni sociali all’interno della famiglia, mentre la donna borghese bianca dello stesso periodo veniva espropriata delle sue funzioni socialmente produttive dallo sviluppo capitalistico e svilita nelle proprie funzioni domestiche. Quindi Davis fa risalire le origini della distinzione tra la posizione della donna afrodiscendente e quella della donna borghese bianca alla particolare condizione delle schiave all’interno dei rapporti di produzione. Pur riconoscendo un contributo «inestimabile» delle donne bianche alla campagna abolizionista, l’autrice non risparmia severe critiche alla loro incoerenza politica, frutto di una scarsa conoscenza delle complessità della condizione delle schiave. Le non poche donne bianche che, a partire dagli anni Trenta dell’Ottocento, lavorarono alacremente nel movimento abolizionista, approfondirono la conoscenza dell’oppressione umana e fu quasi spontaneo per loro un iniziale collegamento fra schiavitù da una parte ed emarginazione ed oppressione sociale delle donne dall’altra. La battaglia sul diritto di voto femminile, iniziata con la Dichiarazione di Seneca Falls (19/20 luglio 1848), sebbene rappresentò l’atto fondamentale di nascita del movimento suffragista, ebbe tuttavia come esito la messa in minoranza delle posizioni universaliste e l’affermazione di quelle che avrebbero indulto al razzismo e al classismo: secondo Davis, infatti, la dichiarazione quasi ignorava il dramma delle lavoratrici bianche e delle nere, molto presenti all’epoca nell’industria tessile nordamericana. Davis rileva che il movimento delle donne, contrapponendo il diritto di voto delle donne a quello dei maschi neri, scivolò inesorabilmente verso il matrimonio con le tesi razziste. Proprio il contesto politico generale in cui si trovarono ad agire le suffragiste americane avrebbe forse meritato di essere approfondito, con i Repubblicani intenti a conquistare voti neri per stabilirsi politicamente nel Sud dell’Unione e i Democratici determinati invece a strumentalizzare le rivendicazioni delle donne in un’ottica anti-nera. La conseguenza di questa contraddizione fu la scissione dei due movimenti. Il quattordicesimo e il quindicesimo emendamento alla Costituzione riguardavano il suffragio nero e non ebbero nulla da dire sul suffragio femminile. Le donne bianche, di contro, avrebbero potuto sostenere la causa del diritto di voto ai neri senza rinunciare alla lotta per quello femminile. Ciò avrebbe rafforzato i due movimenti nel loro complesso, ma non avvenne.

In uno dei capitoli successivi, Davis riprende il mito dello “stupratore nero” come pretesto delle pratiche di linciaggio, fenomeno non suffragato da risultanze oggettive e diffuso per terrorizzare i lavoratori neri e aumentare le tensioni all’interno della classe operaia industriale. Anche in questo caso, la critica di Davis alle femministe americane bianche è di non essere riuscite a vedere la perniciosità di questo mito razzista, portando a campagne contro lo stupro viziate da un contenuto anti-nero.

Femministe, sindacaliste, rivoluzionarie

L’interazione delle questioni di classe con quelle razziali e sessuali nel periodo post-schiavistico, viene affrontata nei capitoli Lavoratrici, donne Nere, e la storia del movimento suffragista e Le donne comuniste. L’autrice fa notare come le donne bianche della working class, allo stesso modo delle sorelle nere, non accolsero con entusiasmo la battaglia sul suffragio femminile, che cominciarono a rivendicare solo agli inizi del XX secolo. Erano più interessate a salari e abitazioni migliori, al diritto all’istruzione, ecc. Nel volume è presente un importante affresco delle donne comuniste e sindacaliste rivoluzionarie, sia bianche sia nere, che combatterono all’unisono contro razzismo e sfruttamento di classe. Manca, però, un’analisi più puntuale delle ripercussioni di massa che gli atteggiamenti retrogradi razzisti e sessisti dei sindacati bianchi ebbero sulla solidarietà della classe operaia negli anni successivi. Dopo l’emancipazione, la forza lavoro nera fu utilizzata dai capitalisti per mantenere bassi i salari, minare gli scioperi e creare dissensi all’interno della classe operaia. I lavoratori bianchi si sentivano minacciati da questo nuovo contingente di lavoratori e questo senso di minaccia era manipolato in modo tale da far divampare l’odio razziale, tanto che nel 1869 i neri furono costretti a formare la National Colored Labor Union. Davis fa anche l’interessante osservazione che la National Colored Labour Union era molto più favorevole all’idea di uguaglianza sessuale all’interno dei sindacati rispetto alla sua controparte bianca, la National Labor Union, ma questo non era sufficiente se una parte cospicua di classe operaia americana indulgeva (e indulge, ripeto) a valori borghesi come il razzismo e il sessismo, a maggior ragione perché già Davis mette in luce abbastanza chiaramente i profondi legami ideologici tra razzismo, classismo e sessismo.

Fonte: Sarah J. Seidman, Radical History Review 2020

Razzismo ed eugenetica

Anche l’argomento di Davis nel capitolo Razzismo, controllo delle nascite e diritti riproduttivi si basa in gran parte su questa parziale coincidenza di razzismo con oppressione di classe. Per Davis la libertà – negativa – per le donne di non avere figli non può esistere senza quella – positiva – della maternità volontaria. In un sistema capitalista, secondo Davis, la procreazione e l’educazione dei figli sono sempre molto più un fardello doloroso per le donne della classe lavoratrice e per le lavoratrici a causa della mancanza di sicurezza economica e di benefici per la maternità. Solo i mezzi più pericolosi per il controllo delle nascite (gli aborti clandestini) sono a loro disposizione. Inoltre, i programmi di sterilizzazione obbligatoria all’interno di tali sistemi rischiano di trasformarsi in un mezzo per eliminare i settori “inadatti” della popolazione. Tutto questo era accaduto in America. Inoltre, tali programmi vennero intrisi di un sottofondo razzista che sottolineava la necessità di mantenere la popolazione nera al limite. Questo influenzò anche i circoli femministi per il controllo delle nascite, e sin dall’inizio si ipotizzò che «le donne povere, nere e immigrate avessero un obbligo il “dovere morale di ridurre la grandezza delle loro famiglie”. Ciò che veniva rivendicato come “diritto” dalle privilegiate finì per essere interpretato come un “dovere” per le povere». Così il movimento per il controllo delle nascite e per il diritto all’aborto in America rischiava di rimanere confinato alle classi superiori bianche a meno che non si opponesse anche all’abuso della sterilizzazione, secondo Davis.

Industria, produzione e riproduzione

L’ultimo capitolo di Davis è intitolato Verso la fine del lavoro domestico: una prospettiva working class. In questo capitolo, diventa abbastanza chiaro che quando Davis parla della donna nera, la considera principalmente come membro della classe operaia e come parte della forza lavoro stessa e disconosce completamente il ruolo della riproduzione e cura all’interno del ciclo capitalistico. Qui ella sostiene che le lavoratrici, bianche o nere, sono sempre state prima salariate e solo secondariamente mogli e casalinghe. Tuttavia, secondo Davis, la lavoratrice nera è stata paradossalmente più coinvolta nel lavoro domestico che in qualsiasi altra cosa nella sua qualità di salariata. L’insediamento della donna borghese nella posizione di “casalinga” significava che il sistema del lavoro domestico doveva essere perpetuato come base stessa della vita domestica borghese. Ciò fornisce il fondamento logico al fatto che la responsabilità della nutrizione, dell’assistenza sanitaria e dell’educazione dei figli, invece che venire socializzata, è stata relegata deliberatamente a una dimensione privata. Così la casa borghese nella società capitalista dipende, ove possibile, dal servizio domestico che è fornito dall’esercito industriale di riserva. In America sono principalmente donne nere o immigrate a fornire questo prodotto. Sebbene non siano principalmente casalinghe, guadagnano lo stipendio facendo lavori domestici.

È dal punto di vista di queste donne che Davis critica il movimento del “salario per i lavori domestici”, nato in Italia e che aveva guadagnato una certa forza in America. Sostiene che questa narrazione che coinvolge le casalinghe si basa su una premessa teorica errata, vale a dire che la casalinga è un’operaia segreta all’interno del processo di produzione capitalista e quindi può rivendicare salario al capitale. La forza-lavoro del lavoratore è la merce venduta al capitalista. Secondo Davis, il sostentamento e il rifornimento di questa merce è un “prerequisito” della produzione capitalistica, non parte del processo di produzione. Pertanto, secondo Davis, il rapporto del capitalista con l’unità domestica del lavoratore non sarebbe di sfruttamento. La soluzione alla marginalizzazione casalinga a cui vengono condannate le donne si risolverebbe con l’industrializzazione delle attività domestiche, così come all’epoca stava avvenendo con i servizi di ristorazione.

Ci sono almeno due grosse lacune, a mio avviso, in questa argomentazione. La prima è che quello dell’industrializzazione si è rivelato, già a partire dai primi anni Settanta del secolo scorso, un paradigma errato. Basti solo pensare alle implicazioni che un uso smodato e vorace della tecnologia ha prodotto sul piano delle catastrofi ambientali e delle crisi climatiche, espropriando, come ha scritto Mariarosa Dalla Costa, «gli uomini, le specie viventi, la terra stessa dei loro poteri riproduttivi per trasformarli in capitale». La seconda osservazione è che Davis non vede come buona parte del lavoro riproduttivo, di carattere fortemente relazionale, non possa essere meccanizzabile, come ha ben scritto Silvia Federici

Fonte: Oakland News Now

Davis presenta quindi i problemi del femminismo da una prospettiva a volte contraddittoria, ma la sua forza sta nella sua apertura alla critica, nel suo rifiuto di soccombere a qualsiasi tipo di “particolarismo” sia come donna che come membro della comunità nera. In particolare, la questione delle contraddizioni, basate su fattori di razza e classe, all’interno del movimento femminista viene introdotta nel suo studio con franchezza e coraggio. Questo è ciò che rende la sua lettura obbligatoria.

Nel nostro Paese, lo ricorda Arruzza nella sua prefazione, il pensiero femminista italiano non ha ancora fatto propria con forza sufficiente la questione della crescente presenza di donne migranti e quella della gestione criminale dei flussi migratori da parte di tutti i governi che si avvicendano. Aggiungerei per onestà intellettuale che, però, una parte del movimento femminista, a partire dall’esperienza di Non una di meno, è forse l’unico che, pur tra i limiti citati da Arruzza, sta provando ad affrontare concretamente il tema della trasversalità di una lotta femminista, antirazzista ed anticapitalista. L’analisi di Davis si basa sul presupposto implicito che le questioni di sesso, razza e classe siano strettamente interconnesse e inoltre che il problema dell’oppressione sessuale non possa essere combattuto se non si tiene conto allo stesso tempo del problema dell’oppressione razziale e di classe. Ecco, la più grande lezione delle pagine di Angela Davis è, ce lo ricorda sempre Arruzza, che «qualsiasi movimento di liberazione, per essere realmente universalista, deve conoscere e tenere in conto la storia e la stratificazione di esperienza dei diversi soggetti in gioco».

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