#occupy New York: la parola al cambiamento

di Marianita Palumbo

Il 23 novembre, in occasione del Thanksgiving Day, a Zuccotti Park l’atmosfera è di festa. Lo spazio occupato dal movimento Occupy Wall Street per più di due mesi, è stato ufficialmente sgomberato la settimana scorsa ma per questa occasione si sono dati appuntamento tutti qui per festeggiare insieme e dare ulteriore visibilità alla protesta. Un gruppo di volontari si occupa di distribuire i pasti a chiunque lo chieda. Occupy Wall Street ha fatto un appello a ristoranti e benefattori e ha raccolto fondi sufficienti per preparare più di 3000 pasti. Lo sguardo di un osservatore attento cade subito su qualche dettaglio imprevedibile in uno spazio occupato: non solo gli uomini della sicurezza vestiti di giallo che regolano il traffico per accedere all’interno dello spazio transennato, ma anche un altro gruppetto di uomini che all’interno raccolgono ininterrottamente qualsiasi minuscola cartina o rifiuto caduto per terra.

Le mie prime 24 ore a New York sono sufficienti a capire quanto Occupy sia ormai diventato uno slogan, un simbolo, un logo, una parola d’ordine che circola per le strade della città ridando significato e spazio ad un modo di essere cittadini, ad un modo di interagire, ad un modo di stare. Occupy è diventato un nuovo significato condiviso che funziona come uno spiraglio per un’inversione di corrente nella società americana. E se non faccio nemmeno in tempo a partecipare alle attività della New School, perché l’assemblea generale ha votato per lo sgombero in risposta alle richieste delle autorità, non si tratta della fine del movimento, ma semplicemente della fine di una delle sue possibili manifestazioni. Occupy! Non importa esattamente cosa, l’importante è che si sia aperto, nella politica del quotidiano, un capitolo nuovo, non per forza originale ma decisamente necessario.

Se “Occupy” è la parola d’ordine, “we are the 99%” è quella di riconoscimento. In varie occasioni in queste tre settimane newyorkesi mi è capitato di partecipare o assistere a conversazioni dove “noi siamo il 99%” veniva usato per stabilire un contatto tra persone diverse, per consolidare la condivisione in un conflitto che Occupy Wall Street ha reso visibile: quello tra i cittadini di uno stato e i suoi dirigenti venduti a logiche economiche che dimenticano la maggioranza dei cittadini. Verso un sistema che in questi anni non ha fatto che indebolire il senso civico e politico dei cittadini trasformandoli in consumatori ed impedendo loro di identificarsi l’uno nell’altro. Noi siamo il 99% suona come un richiamo alla comunanza, al di là della differenza di classe e di cultura. Oltre i dubbi e i mille punti interrogativi su come OWS si svilupperà, questo movimento sociale e civile ha avuto un evidente effetto di apertura nella società americana. Attraverso l’occupazione di un luogo fisico, OWS ha occupato la politica, imponendo l’attenzione su tematiche che sembravano intoccabili fino ad ora. E se il futuro del movimento si costruisce giorno per giorno, il significato delle varie occupazioni e del dibattito che esse hanno prodotto sembra avere già avuto un effetto fondamentale sulla grande mela: questa città, paralizzata dopo aver vissuto l’impensabile, ricomincia a pensare, a ripensarsi. Occupy ha creato un precedente e ha riaperto la strada ad un essere newyorkese che non è solo l’essere consumatore della propria potenza o vittima dell’11 settembre. Con Occupy si è ristabilito uno spazio pubblico urbano che non è solo quello della difesa dall’offesa.

Ma la domanda sul futuro resta: ed ora? Dopo la fine della reale occupazione dello Zuccotti, dopo la disoccupazione della New School, cosa succederà? Qual è la prossima mossa? Ora che entrambe le occupazioni sono terminate un vuoto di spazio e di riflessione sembra attraversare le tante e diverse realtà degli occupanti. Ma il primo momento di incertezza e insoddisfazione per la chiusura dell’occupazione della New School è stato seguito da un proliferare di incontri in spazi diversi, improvvisati in tutta la città. Occupy Wall Sreet figlia ogni giorno nuove “Occupy” che prendono il nome del quartiere dove hanno luce. Ed è proprio in questo momento di delocalizzazione del movimento che qualcosa di molto interessante succede. Ne parlo con Corey Eastwood, il mio ospite qui a New York e gestore di una libreria di libri usati nel cuore del Brooklyn imborghesito: Williamsburg. Un quartiere che fino a qualche anno fa aveva un volto molto diverso. Qui Occupy sta aprendo un nuovo capitolo.

Chiedo a Corey di aiutarmi a ricostruire la genealogia di questo movimento la cui storia è breve ma già punteggiata da luoghi ed eventi specifici.

All’inizio c’è stata l’occupazione di Zuccotti Park: un’occupazione simbolica e un uragano di energie diverse, un’esplosione senza una vera direzione. Poi il primo evento è stato la celebrazione del primo mese di occupazione: 10.000 persone a Time Square. Un momento emozionante e allo stesso tempo disastroso perché si trattava di un meeting dove non succedeva niente se non il fatto di essere lì. E la polizia dall’altra parte era ben preparata. È stato quasi scoraggiante, sembrava che nient’altro dovesse succedere, sembrava non ci fosse un vero obiettivo. E invece un mese dopo c’è stato l’appello alla manifestazione studentesca che ha portato all’occupazione della New School. Non è durata molto ma è stata un’esperienza incredibile: era un luogo di lavoro, il quartier generale del movimento: Zuccotti Park la parte “simbolica” e la New School quella strategica. In pochissimo tempo sono stati creati un cineforum, delle lezioni serali, diversi gruppi di riflessione. E corrispondeva bene all’obiettivo di reclamare spazi per usarli in modo diverso e per iniziare a interagire tra di noi in modo diverso. Era diventata la sede organizzativa e non solo: la sera con gli amici ci si diceva “Cosa facciamo? Andiamo alla New School!” Specialmente in una città come New York dove non ci sono praticamente spazi in cui ci si può ritrovare senza consumare.

Poi la “disoccupazione” di Zuccotti e della New School e l’inverno che avanza…

In questa critica al collasso dell’economia globale non si tratta di aspettare la primavera perché in inverno è troppo freddo per occupare! Si tratta di sfruttare questo momento di assenza di uno spazio preciso per riflettere e creare consapevolezza. Affrontare e approfondire problemi locali. Occupy Park in Brooklyn credo sia stato il primo movimento che ha cominciato a riunirsi altrove rispetto a Zuccotti Park. Le questioni locali sono importantissime e più delicate da affrontare perché sono meno visibili, sono meno “glamour”. Ma uno degli obiettivi fondamentali del movimento è affrontare la vita di ogni giorno.

Quindi aspettando marzo 2012 l’idea è creare consapevolezza, diffondere il messaggio e agire su base locale. E grazie a questa azione su base locale preparare nuove azioni simboliche per il futuro.

L’occupazione di Zuccotti è stata qualcosa di spettacolare, che ha aperto il discorso politico negli Stati Uniti. Uno spazio di autonomia che si è creato ma che non era votato a resistere a lungo termine e il lungo termine non era l’obbiettivo principale di quell’occupazione. Ora la conseguenza logica dell’occupazione di Zuccotti è quella di passare ad un’organizzazione locale del movimento il cui obiettivo generale è lottare contro un sistema economico che flirta con il capitalismo più avanzato ignorando la maggioranza. Si tratta dello stesso movimento ma con obiettivi diversi: in generale vogliamo cambiare la maniera di pensare il capitalismo e allo stesso tempo cambiare la maniera di interagire delle persone (maniera di relazionarsi, come le persone interagiscono tra loro). Smettere di vivere come consumatori e ricominciare a vivere come cittadini. Sfidare l’idea che il consumo coincida con felicità e smettere di agire come cittadini infantili. E le persone sembrano essere sempre più consapevoli del loro “agency” e “empowerment”. È la prima volta che mi succede in tutta la mia vita di vedere le persone radunarsi e riflettere su come cambiare le cose in questo paese!

Gli chiedo del passaggio da questo movimento globale e su scala cittadina che occupa una piazza nel cuore economico degli Stati Uniti, alla scala locale di Occupy Williamsburg, quartiere esemplare delle trasformazioni e dell’imborghesimento delle periferie newyorkesi, quartier generale degli “hipster”. Il significato del movimento resta uguale? E i suoi obiettivi?
Per rispondermi Corey mi parla del nuovo finanziamento elargito dallo Stato ad un grosso promotore per il suo progetto di costruzione di una serie di Hotel a Williamsburg visto che la zona sta diventando un luogo di turismo internazionale.

È l’ennesimo esempio del fatto che lo Stato, su pretesto di rilanciare l’economia, sta dando denaro esattamente a coloro che sistematicamente derubano il sistema: il promotore che aveva promesso nel suo programma di hotel un certo numero di impieghi, ha già smentito dicendo che il numero di impieghi non raggiunge nemmeno la meta di quelli previsti.

Questo è un perfetto esempio di manifestazione locale del problema globale contro cui punta il dito Occupy. Ed appunto: occupare cosa su scala locale? Le riunioni di Occupy Williamsburg si terranno all’Union Pull, un bar abbastanza alla moda la cui clientela va ben al di là del quartiere.

Decidere di organizzare la prima grande riunione all’ Union Pull può sembrare strano: si tratta di un luogo alla moda, principalmente frequentato per consumare, per divertirsi. È una scelta che noi difendiamo perché vuol dire rivendicare un luogo per un uso diverso da quello consumistico. Penso che molta gente parteciperà, gente che noi non ci aspettiamo nemmeno.

Chiedo a Corey cosa gli sembra fondamentale del passaggio dal movimento globale a quello locale di Williamsburg vista la popolazione assai specifica che lo abita: i cosidetti hipster.

Il secolo scorso li chiamavamo artisti, questo secolo li chiamiamo hipster, non è giusto! Chiunque sia coinvolto per lavoro o per piacere in qualcosa di creativo viene definito un hipster. Credo che Occupy sia la fine dell’hipsterismo; vuol dire che abbiamo smesso di fregarcene, che preoccuparsi è di moda, essere coinvolti è di moda! Non va più il fatto di essere menefreghisti. Ecco perché scegliere l’Union Pull, il bar degli hipster per eccellenza, è una scelta strategica per dire “questo capitolo è finito!” e corrisponde all’idea che il movimento serve per riappropriarsi di spazi usati solo per consumare e rivendicare un uso diverso!

Rispetto a Occupy Williamsburg c’è un altro aspetto che spiega il punto di vista di Corey:

Il mio coinvolgimento e le mie valutazioni sull’importanza di coinvolgere questa popolazione in particolare è legato anche alla mia vita quotidiana professionale. Sto nella mia libreria di libri usati tutto il giorno e quando non sono qui sono al banchetto di libri su Bedford Avenue, sempre a Williamsburg. E li vedo ogni giorno, li hai visti anche tu! Tutti si sentono coinvolti, tutti mi chiedono di Occupy, tutti prendono il giornale gratuito Occupy, tutti si interessano!

Mentre parliamo nel suo Bookshop di libri usati -un’istituzione nel quartiere- Becca, una ragazza sulla trentina con la sua café-cap-to-go entra in libreria per fissare con Corey una riunione organizzativa del movimento. Mentre parlano si scopre che i volantini affissi in giro per il quartiere che pubblicizzano l’incontro all’Union Pull non sono stati fotocopiati nè da Corey nè da lei.

È incredibile, vedi, la gente si mette a partecipare senza essere sollecitata direttamente. Non sappiamo chi abbia stampato e affisso i manifesti. Questo credo che sia anche quello che Williamsburg ha da offrire al resto della città: siamo un quartiere di creativi, di artisti, e questo è quello che Williamsburg può offrire al resto della città. Ok, Siamo in un quartiere di hipster e in realtà non è vero che la gente qui se ne frega!

Becca lavora nel sociale ma è anche barista. Viene da una famiglia di militanti, è stata molto attiva politicamente e come scrittrice nel periodo prima dello scoppio della guerra in Iraq. Poi l’evidenza che questa guerra non fosse assolutamente giusta anzi illegale, come la definisce lei, e la rabbia per gli avvenimenti seguenti l’hanno fatta allontanare dalla politica. Solo ora ricomincia e con grande energia.

Ho aspettato questo momento tutta la mia vita. Ho aspettato questo momento in cui si può apertamente criticare il capitalismo senza essere presi per degli estremisti o dei moralisti; senza che i tuoi amici ti marginalizzino perché non si rendono conto del mondo in cui viviamo. È veramente importante per me realizzare che ora questa maniera di vedere le cose è condivisa. Se ne parla e si critica il sistema. E tutti attorno a me sembrano essere coinvolti. Essere riusciti ad aprire il dibattito è già la prima vittoria del movimento. Ed è per questo che credo nel fatto di continuare su scala più piccola, di fare delle formazioni e di ripartire per esempio dalla storia del quartiere per renderci conto di quello che è successo e di quello che sta succedendo.

E Corey aggiunge:

Per me tornare ad avere negli Stati Uniti un movimento sociale così è incredibile. La mia piccola rete di anarchici fa finalmente parte di un gruppo più largo. Posso finalmente collegare la mia pazzia con la realtà di altri. Posso dire certe cose e non sembrare pazzo! It’s cool to care, it’s cool to get involved.

Non si stratta dunque della difesa di uno schieramento politico ma della difesa della politica come pratica quotidiana. Il lavoro di Occupy nei mesi d’inverno sarà questo: risvegliare nei consumatori americani i cittadini che sono in loro, rispettando la delicata differenza tra creare consenso e creare consapevolezza.

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