Insolvenza precaria

Pubblichiamo “Diritto all’insolvenza” di Lesto Fante, estratto dalla Piccola enciclopedia precaria. Dai “Quaderni di San Precario”, a cura di Cristina Morini e Paolo Vignola (Agenzia X, 2015)

È ravvisabile in tempi recenti un interesse verso due (con linguaggio d’altri tempi, ma a me caro) “parole d’ordine” che emergono impetuose dal rivolgersi dei movimenti: “diritto alla bancarotta” (o all’insolvenza) e “diritto al default”. Si tratta di due pretese assunte dalla moltitudine (dal precariato che prova a farsi moltitudine) in relazione:
a) alla propria posizione soggettiva (diritto alla bancarotta) quale consacrazione – in senso lato giuridica – della sentita necessità di non pagare i propri debiti “personali” (più propriamente, come meglio cercherò di esprimere in seguito, di non vedersi inibito l’accesso al credito nonostante l’insolvenza);
b) alla comunità di consociati (diritto al default) laddove questa ritenga che lo stato di appartenenza non debba procedere al pagamento del debito sovrano. Imprescindibile premessa è l’attuale sistema di produzione laddove la ricchezza è prodotta dalla moltitudine degli uomini in forma di comune (pur misconosciuto e, talvolta, negato) e lo stato si è dissolto nella funzione di polizia, cosicché il default dello stato non sarà auspicio dell’ente ma di persone “casualmente” ritrovatesi ristrette dalle medesime frontiere.

Per quanto riguarda il diritto al default (nell’accezione sopra data), rilevo la necessità del riferimento alla “comunità” di partecipanti lo stato e non allo stato in quanto tale, in ragione del fatto che lo stato-nazione neppure può ipotizzarsi insolvente, pena il venire meno della propria entità. Ed è questo il limite, ma anche la grandezza dell’ipotesi: auspicare il default della propria patria appare primo tentativo di superamento dell’identità statuale come normalmente intesa. Il pericolo paventato dai sostenitori del “pagamento a ogni costo”, ovvero l’eutanasia dello stato, è anche la mirabile conseguenza da prodursi che procede, appunto, dal mancato rispetto dello stato; stato che il precario (come in passato il proletario), non riconosce (del resto neanche il capitale pare riconoscere lo stato nazione né le sue prerogative fittiziamente attribuitegli dal diritto internazionale). Peraltro, si avrà qui riguardo alla sola situazione “soggettiva” del precario cognitivo, da assumersi non quale soggetto “a sé stante”/individuo isolato, poiché per sua natura egli opera all’interno di reti ed è comunque completamente immerso nel sistema di capitale-crisi per la cui sopravvivenza egli ha posto al lavoro la propria vita. Il principio è questo, insomma: possono l’uomo indebitato [e lo stato (per altro verso)] desiderare la propria fine? E il desiderio o il puro fatto del default come possono essere agiti? Ecco un’analisi schematica e volutamente grossolana dei concetti utilizzati:
insolvenza: incapacità di fare fronte alle proprie obbligazioni (ove legittimamente assunte, infatti una prestazione viziata non può comportare l’insorgere del correlativo obbligo);
bancarotta: è tecnicamente istituto che rileva per il caso di fallimento del debitore e procede, per l’ipotesi più lieve, dal caso in cui il fallito abbia effettuato spese di carattere personale o familiare che siano eccessive o sproporzionate in ragione della sua condizione economica, riguardando in genere fenomeni distrattivi operati dall’imprenditore in difficoltà.

Non è inutile accennare al concetto di “bancarotta” nel diritto romano arcaico e al consolidarsi del termine “bancarotta”. Per la legge delle XII tavole, il creditore (come tale riconosciuto “giudizialmente”) se non era soddisfatto entro trenta giorni, poteva agire contro il debitore che diveniva addictus ovvero sottoposto a una sorta di carcerazione privata da parte del creditore che tratteneva l’addictus presso di sé per sessanta giorni e aveva l’obbligo di condurlo per tre volte consecutive al mercato (che si teneva ogni nove giorni) affinché qualcuno potesse riscattarlo. Decorso tale termine, il soggetto poteva essere venduto come schiavo o ucciso a discrezione del creditore, addirittura si poteva arrivare allo smembramento (una sorta di macabra realizzazione della par condicio creditorum). Non meno significativo è l’origine del termine “bancarotta”. Presso i romani coloro che “commerciavano” (non si perda il senso del banchiere come commerciante che si ritrova immutato sino alla codificazione del ’42) in denaro, stavano dinanzi a un banco detto mensa argentaria sul quale disponevano il denaro necessario per gli affari della giornata. A questo antico uso debbono la loro origine i termini banchiere e banca-rotta, uso poi passato nel corso del medioevo per mezzo dei fiorentini al mondo intero. Anche questi esponevano il loro denaro sopra un banco di legno (donde il nome di banchieri); se qualcuno non poteva soddisfare i suoi obblighi, il suo banco era immediatamente rotto, fatto in pezzi e a questi era impedito di continuare più oltre a fare affari. La connotazione dell’istituto (bancarotta e insolvenza erano dapprincipio termini pressoché equivalenti) è evidente: la messa a disposizione del “corpo” del debitore e l’espulsione del medesimo dal “corpo sociale”. La spogliazione del corpo del fallito era qui tutt’altro che simbolica e andava di pari passo con l’espulsione del medesimo dalla comunità degli “affari”, comunità che risolveva in sé l’intero stato e il diritto. Non differente era ed è la situazione nella società capitalistica che, osservava Pasukanis, è

prima di tutto una società di possessori di merci […] allo stesso tempo che il prodotto del lavoro acquista la proprietà di merce e diviene portatore di valore, l’uomo acquista la proprietà di soggetto giuridico e diviene portatore di un diritto”. E ancora annotava: “non appena l’uomo merce, vale a dire lo schiavo opera come possessore di merci e diviene compartecipe dello scambio, assume per riflesso valore di soggetto. Nella società moderna, invece, l’uomo libero, cioè il proletario, quando cerca come tale il mercato per vendere la sua forza lavoro, viene trattato come oggetto e nelle leggi sull’emigrazione resta sottoposto agli stessi divieti e norme di contingentamento ecc. come le altre merci esportate oltre la frontiera dello stato (E.B. Pasukanis, La teoria generale del diritto, in Teorie sovietiche del diritto, p. 157, nt. 2).

Sin d’ora si può affermare che se la società dei possessori di merci, doverosamente espelleva dal proprio corpo l’insolvente per conservare la fiducia (il credito) nel traffico delle merci (il mercato) quindi in se stessa, d’altra parte essa era sempre pronta ad arruolare colui che potesse partecipare allo scambio [il capitale rendeva (anche nuovamente) compartecipe di sé il debitore]. L’insolvente era ed è eliminato dal consesso sociale unicamente laddove “inutile” al perpetuarsi del capitale, se tale inutilità poteva ravvisarsi nel capitalismo industriale al verificarsi dell’insolvenza, lo stesso non può dirsi nel capitalismo finanziario e nell’economia basata sulla conoscenza, laddove ciascuno per il solo fatto che vive, esprime ricchezza, contribuisce alla creazione di rendita. Si diceva, partire dalla finanziarizzazione ovvero dal dato che siamo tutti immersi e viviamo nella finanza e per la finanza. Ovviamente, diritto all’insolvenza non può essere inteso quale “diritto a essere insolventi” cioè diritto a essere dichiarati insolventi [paradosso come “diritto a essere” sfrattati o licenziati (al più, nelle attuali condizioni, per il precario esiste un obbligo all’insolvenza)].

Diritto all’insolvenza è presa d’atto del progressivo indebitamento del precario per sopperire alla demolizione del welfare e alla precarizzazione dei rapporti di lavoro, per giungere alla privatizzazione della vita, all’obbligo (impossibile da assolvere) per il precario di onorare (i prestiti d’onore?) a ogni rapporto obbligatorio (salute, scuola, casa, in una sola parola la vita) con il suo patrimonio (non più rinveniente, o sempre meno, da un salario). Il precario nasce insolvente. Nonostante questo vive e produce, la vita necessariamente collaborativa della singolarità fa sì che la sola morte elida il rapporto vita/produzione. Diritto all’insolvenza significa il diritto di proseguire a vivere e quindi a lavorare nonostante la sopravvenuta/originaria incapacità finanziaria. Non è rivendicazione di impotenza ma affermazione, al contrario della potenza del proprio essere quale creatore di ricchezza attraverso il realizzarsi della rendita finanziaria. Il privato deve andare in bancarotta e non deve essere punito, perché la sua bancarotta è il futuro del capitale. Il rivolgimento costituente dell’accezione della bancarotta ne è la reale cognizione, il nuovo senso da attribuirsi al concetto: abuso e/o distrazione, immediata appropriazione della rendita nel momento della sua formazione. Riconoscere al precario indebitato il diritto a essere, pur insolvente, soggetto di diritto e come tale di accedere al credito, comporta la fine del diritto proprietario sul quale si regge l’ordinamento mondiale. Si invoca il diritto di non pagare la merce in nome della produzione della stessa; meglio, il diritto a non essere esclusi dal mondo dei “possessori di merci” poiché, pur deprivati, creatori di ricchezza. Diritto all’insolvenza significa disconoscere:
il patto di produzione;
il patto di rispetto reciproco tra possessori di merci (meglio il rispetto dei patti);
il senso di tradimento;
il senso di impotenza;
il senso di inutilità.

Tutti principi mortiferi come la famiglia, il lavoro, la scuola, lo stato. Rifiutare il pagamento e pretendersi comunque “creditore” per il solo fatto di esistere è proclamare la fine della scuola, il rifiuto del lavoro, la morte dello stato. Il diritto alla bancarotta/insolvenza del privato sarà: – riconoscimento dell’uomo-impresa; – riconoscimento dell’uomo indebitato; – riconoscimento dell’uomo-impresa indebitata all’interno di un mondo indebitato e finanziarizzato; – negazione del diritto quale limite al proprio sviluppo (per esempio della fondamentale regola cosiddetta pacta sunt servanda); – stravolgimento del principio del merito (creditizio) che sarà dato non dal sapersi “accreditare” ma dalla capacità di realizzazione del comune.

Ma può invocarsi l’attivazione immediata del diritto all’insolvenza? Si può rinvenire nell’ordinamento una possibilità di lecita insolvenza? In maniera assolutamente riformistica si può affermare di sì. La lettura del fenomeno dell’insolvenza dell’imprenditore che negli ultimi trenta anni ha visto lo stravolgimento dei principi fallimentari ci induce a pensare in tal senso.

La crisi e il concetto di insolvenza non sono cambiati anche quasi dopo settanta anni. Tuttavia l’esigenza di dissolvere le imprese inadempienti con la liquidazione atomistica dei loro beni è certamente venuta meno, perché il mercato e le imprese sono cambiate. Il valore patrimoniale dell’impresa, infatti, ha lasciato il passo al valore reddituale e immateriale dei beni che la compongono. Il legislatore del 2006, dopo anni di attese e dibattiti ha finalmente modificato la legge fallimentare e ha abbandonato la visione del fallimento (la bancarotta) come condizione sanzionatoria dell’imprenditore, spostando il proprio focus dall’imprenditore all’impresa. Quest’ultima, soggetto svincolato dall’imprenditore, deve essere preservata tutte le volte che sia possibile e, deve aggiungersi, sempre che ne esistano le opportunità e convenienze. Ecco dunque il dilemma shakespeariano “liquidare o risanare”

che affligge oggi tutti coloro che debbono affrontare la crisi delle imprese. In realtà la spinta alla continuità aziendale prevale su di ogni alternativa. Le aziende tutte operano per sopravvivere, la stessa prospettiva di sviluppo può essere vista come condizione di sopravvivenza e anche quando in assenza di autosufficienza economico patrimoniale taluni sistemi assistiti sopravvivono, emerge che la forza di continuità è talmente forte da prevalere su altre prospettive e ciò anche in prospettive di patologie divenute croniche (Marcello Pollio, Gli accordi per gestire la crisi di impresa, Euroconference, Verona 2009).

L’azienda è il vero centro d’interessi, si autonomizza dall’imprenditore. Questo perché la sola vita dell’impresa è rendita. Per il solo fatto di “essere” (magari non produce, non realizza profitto ma crea rendita). L’impresa odierna è l’emblema della creazione di ricchezza, fittizia nel concepimento, ma che si concreta nello spiegarsi dell’esistenza: l’impresa truffa lo stato, i dipendenti, froda i contributi europei, modifica le leggi, pretende credito: tutto per il solo fatto di essere impresa. La partecipazione alla finanziarizzazione del mondo [dai sistemi più artigianali (il ricorso al credito portando allo sconto fatture inesistenti) a quelli più sofisticati delle cartolarizzazioni dei mutui subprime] comporta la permanenza dell’impresa nel sistema “dei produttori di merci”. Analoghe osservazioni possono svolgersi per il precario nella ristretta e partigiana accezione di consumatore. Nello spiegarsi dell’economia fordista, parve affermarsi il principio del cosiddetto favor debitoris quale criterio ermeneutico per interpretare i rapporti tra il lavoratore indebitato e il “padrone” (di fabbrica, di casa, di merci, di servizi). Ritenendo alcuni servizi essenziali si giunse ad affermare che non potessero cessarsi l’erogazione dell’acqua, del riscaldamento, del telefono (anche sotto la spinta di massicce lotte per l’autoriduzione o per la concessione dei ridetti servizi a prezzi “sociali”).

Il capitale in cerca di rivincita, fermo il concetto di base, ne operò l’astrazione ponendo il soggetto all’interno del mercato e operando fattivamente poiché nonostante i debiti potesse continuare a consumare. Tutta la normativa cosiddetta consumeristica agisce in tal senso: il capitale per continuare a vendere doveva tutelare il consumatore e a tal fine furono predisposte norme anche assai penetranti. Anche in questo caso il capitale non agiva per il “bene comune” ma unicamente per perpetuare la propria esistenza. Il produttore non vedeva certamente di buon occhio: 1) le maggiori garanzie predisposte a tutela della bontà del prodotto venduto; 2) la facoltà di ripensamento attribuite al consumatore; 3) la necessità di regolamenti trasparenti. Era il prezzo che si doveva pagare nell’epoca del “capitalismo maturo” per la sopravvivenza del sistema di produzione. Venendo a tempi più vicini a noi, anche consentire ai poveracci di avere una casa attraverso la concessione di mutui, già al loro sorgere certi nella sofferenza, non fu azione benevola o munificente. Ma allora, se questo è il riconoscimento che l’ordinamento offre all’impresa/truffa perché non estendere tale riconoscimento al precario/indebitato? Il precario, impresa tra imprese, oggetto di costante captazione da parte del capitale deve svolgere una duplice resistenza: dal lato passivo predicando appunto il diritto all’insolvenza, l’urgenza di continuare a partecipare al processo di farsi rendita del profitto, dal lato attivo sottraendosi alla captazione e moltiplicando la propria propensione alla messa in comune della conoscenza. Il precario deve partecipare attivamente al processo del proprio sfruttamento, non quindi sfruttati ma felici, bensì sfruttati ma felici di esserlo un po’ meno o magari con un bel po’ di merce nella dispensa. Il precario offre al capitale la più “reale” tra le garanzie: la propria vita. Un vincolo costante e intrasmissibile perché comune. Ogni lotta deve essere diretta, pertanto, all’affermazione del precario/impresa indebitata, alla rivendicazione di potere partecipare alla realizzazione e all’appropriazione di rendita sin dall’atto del suo sorgere. Accesso al credito incondizionato, riscadenziamento dei debiti, transazioni a stralcio, adesione a consorzi fidi, per una modificazione sensibile delle condizioni di vita: verso il superamento della forma impresa, di tutte le imprese, per il comune. A conclusione di queste considerazioni, su suggestione di un caro amico e soprattutto maestro e soprattutto compagno, mi sono imbattuto in un articolo che intendeva demolire il percorso logico-(anti)giuridico che induce all’affermazione del diritto (moltitudinario) all’insolvenza. La lettura, sortendo un effetto probabilmente indesiderato dall’autore mi ha ritemprato nel corpo e nell’anima e mi induce ad affermare: il precario/impresa/indebitato non è “soggetto debole”. La forza antigiuridica che egli esprime dissolve ogni limite alla realizzazione del proprio agire “in comune”.

Il precario pur indebitato e “strangolato” dalle banche (terminologia cara a Scilipoti, sedicente difensore degli usurati) vive e vivendo collabora, nel senso rivoluzionario sopra visto, al perpetuarsi del capitale. Il capitale necessita della vita precaria e non può dargli la morte. Di qui la ricordata legislazione favorevole al consumatore, al cliente di banche, il dilatato accesso al credito anche per persone prive di qualsivoglia garanzia (che non sia la propria vita, appunto). Il precario è soggetto immediatamente costituente nella propria rivendicazione di vita e quindi di credito (a ogni costo). “Credito organizzato” non sono le banche, i poteri forti, la finanza. L’unico creditore (non ancora, purtroppo, o non tanto quanto dovrebbe) organizzato è il precario che con il proprio agire, reclamando rendita, proclamando diserzione, si rivela creditore del capitale e lo fa con forza che potrà diventare costitutiva in quanto moltitudinaria assunzione del superamento dell’individuo-impresa.

[da “Quaderni di San Precario”, 3, maggio 2012]

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