«Sapere è sapere di sapere», afferma Alain in contrappunto col socratico «So di non sapere». È tra queste due rive opposte (ma forse non così tanto) che si racconta di un’esperienza d’insegnamento della filosofia nei Licei in Francia.
Iniziamo dal generale, la scuola, per poi andare al particolare, l’insegnamento della filosofia. In uno dei due Licei in cui insegno seguo, per due ore a settimana, Mohammed, un ragazzo italo-marocchino di sedici anni recentemente arrivato in Francia. Lo seguo e lo aiuto perché Mohammed non parla ancora francese. Gli insegno la lingua, traduciamo i testi di Voltaire, li commentiamo e li critichiamo (sì, qui un insegnante di filosofia è valorizzato, nella misura del possibile, per tutte le sue competenze come per esempio per la sua esperienza nell’insegnamento della lingua agli stranieri).
Ci incontriamo nel cortile de Liceo: «Come è andata la prima settimana di scuola?» Chiedo. «Bene» mi risponde sorridente. «Come sono i compagni? Come ti trovi?» continuo. «Bene, simpatici, risponde Mohammed, ma si vestono quasi tutti allo stesso modo. Non è come in Italia dove ci sono colori diversi, stili differenti». A questo punto penso, tra me e me, a un testo di Pastoureau dove si dice che le società povere sono ricche di colori e, viceversa, quelle ricche ne sono povere. Ma chissà, in questo momento non mi sento molto d’accordo. «Poi, continua Mohammed, qui non sono gli insegnanti che cambiano le aule secondo la classe, ma gli studenti che si spostano di aula in aula, secondo le discipline, va a capire perché…»
Questo è solo uno spaccato, generale, dell’ambiente liceale francese. Andiamo ora al particolare, alla mia disciplina, la filosofia.
Sappiamo come funziona in Italia dove prima di tutto l’insegnante di filosofia (parlo della classe A037) insegna anche la storia. In Francia invece la storia è insegnata con la geografia. In questo modo cambia completamente quello che Bourdieu chiama «l’inconscio scolastico», la visione del mondo che assimiliamo e riproponiamo senza rendercene conto, perché ce lo insegnano (la Gioconda è bella perché ce lo hanno detto, la scienza è esatta perché ci è stato raccontato). Ne segue che se per gli studenti italiani ogni periodo storico si caratterizza per una certa corrente di pensiero e ogni pensiero si incarna in un fatto (il vero e il fatto sono reciproci, secondo Vico), per le giovani generazioni francesi non è così. Il sistema scolastico francese, infatti, unendo la storia alla geografia fa sì che a un qualsiasi fatto storico non si associ un concetto bensì un certo spazio geografico, un territorio, un’economia, un flusso migratorio, un’organizzazione della città, una popolazione. Insomma per ogni fatto vi è un territorio o per ogni territorio dei fatti.
Vediamo ora il programma. In Italia, lo sappiamo, il programma di filosofia inizia dai presocratici e prevede di arrivare al Novecento, a Popper, alla scuola di Francoforte, all’esistenzialismo. Si segue insomma un ordine storico e si leggono i concetti non direttamente ma filtrati attraverso un manuale. In Francia è diverso. Il programma non è storico ma concettuale, si studiano le cosiddette Nozioni (la verità, l’arte, la coscienza, la morale, eccetera) e all’interno di questi quadri concettuali si inseriscono i testi (ad esempio un breve estratto di Nietzsche sull’arte messo in relazione a un testo di Platone in cui si espone una contraria visione dell’artista). La coerenza allora non è affidata alla storia ma alle tematiche, che paiono così senza tempo. Se la filosofia, da un lato, si permette la ricchezza di una libertà temporale, dall’altro la periodizzazione ne soffre e Socrate diventa facilmente contemporaneo di Nietzsche o Sant’Agostino di Voltaire. Il pensiero è libero ma in modo falsato, è libero di spaziare storicamente ma non può essere libero da quello che non ha mai avuto: la storia. Libero di tutto ma libero da nulla?
Se gli studenti francesi imparano la filosofia per grandi tematiche, l’insegnante le presenta attraverso domande del tipo: ciò che è legittimo è sempre legale? Ci sono culture superiori alle altre? L’opera d’arte ha sempre un senso? La politica si sottrae all’esigenza di verità? I ragazzi imparano ad affrontare questo tipo di domande, a metterle in prospettiva, a cercare il contraddittorio per poi risolvere in maniera personale e inventiva. Il tutto senza pensare alla coerenza storica; e se è vero che il presente è ciò che riattiva il passato (come afferma Bergson), una riflessione sul mondo che manca di passato manca allora anche di quel presente, la contemporaneità, che tuttavia i ragazzi dovrebbero riuscire a criticare (come afferma il programma di filosofia per i Licei). I ragazzi sono così paradossalmente portati a riflettere su di un presente, risultato del passato, ma che è privo di passato. Quindi in generale riflettono su un presente senza tempo. Sono liberi DI pensare, ma non liberi DAL tempo, proprio perché questi viene meno.
Veniamo ora alle conseguenze, hic et nunc, di una formazione del pensiero di generazioni che devono affrontare questi tempi, le contemporaneità, e questi spazi, l’Europa nel mondo. Abbiamo visto come in Francia il fatto sia territorio e come il concetto sia senza tempo mentre in Italia il fatto è concetto e il concetto è nella storia. Ero in classe e facevo lezione quando il 7 gennaio 2015 a Parigi è avvenuto il drammatico attentato alla redazione di Charlie Hebdo. La Francia è rimasta paralizzata per tre giorni e le conseguenze dello shock sono ancora presenti, dopo mesi la paura è tangibile e la tensione tuttora viva. Il giorno seguente all’attentato io, come gli altri miei colleghi ancora sotto l’effetto dell’accaduto, entriamo in classe e continuiamo a fare lezione. Ma il modo, l’atmosfera, qualcosa era cambiato. Nelle settimane che sono seguite, con i ragazzi, non abbiamo potuto non ritornare spesso sulla questione. Ci siamo chiesti che cosa significhi parlare dell’attentato. Perché? Per quale motivo è stato organizzato? Condannare? Certo. Capire? Sicuramente. Ma se capiamo allora cessiamo di condannare? Abbiamo parlato di tre tempi che si sovrappongono: dei fatti che stavano accadendo, di un contesto geopolitico, del significato di quei fatti. Il presente, l’attuale e il contemporaneo. Ma un dubbio, piano, stava nascendo: questo presente caratterizzato da eventi drammatici, da dibattiti, da valori che rivivono, da condanne, da sentimenti di unità, questo presente, dicevo, avrà un futuro o sarà dimenticato? Il rischio è che non diventi mai passato e che rimanga nella storia senza farsi storia. C’è il dubbio, insomma, che venga vissuto al pari di oggetti di riflessione quali l’arte, la verità, la politica, e quindi come un presente senza tempo e non come un oggetto nella storia.
Immagino ora di essere insegnante in Italia e immagino cosa avrei detto ai miei studenti. Forse non mi sarei soffermato a lungo sulle domande ma avrei riflettuto in e sul senso storico: sarei partito da riferimenti al periodo del Terrore della rivoluzione francese, facendo poi accenni alla guerriglia che praticavano gli spagnoli contro Napoleone, passando in seguito per gli «anni di piombo» in Italia per poi arrivare al terrorismo internazionale e a Charlie-Hebdo. Tutto questo al fine di capire cosa stesse accadendo, il contesto geopolitico, il significato dei fatti. Il presente, l’attuale, il contemporaneo, certamente, ma anche il passato. Forse meno domande, meno interrogazioni ma più tempo (in tutti i sensi) per capire. Le domande verranno, il tempo perduto invece, Proust ce lo insegna, è difficilmente ritrovato.
Faccio sempre lezione in questi giorni in cui la Francia bombarda le basi dell’Isis in Siria. L’anno scolastico è iniziato solo qualche giorno dopo lo sventato attacco terrorista sul treno Amsterdam-Parigi. Perché qui c’è tutta questa paura? È giusto avere paura? No. E naturale? Certo che è naturale avere paura. Come fare allora? Semplice, bisogna avere paura ma non bisogna avere paura della paura. Ecco, forse, la prospettiva buona, la contemporaneità futura, il lato generoso della scuola francese.
Riassumendo le due prospettive possiamo dire che la filosofia, come è insegnata nei Licei italiani, presenta il sapere come ciò che deriva dalla riflessione storica, essa è quindi un sapere sul sapere. In Francia invece l’impressione è che il sapere non voglia legami temporali e si svincoli dalla storia del pensiero, il sapere si presenta insomma come sapere che sa di non sapere. Il primo vive una continuità nelle risposte, il secondo rifonda in continuazione le proprie basi nelle domande.
Per terminare ritorniamo al generale, alla società, e chiediamoci di nuovo: perché la paura in Francia? Domanda che mi pare possa essere declinata in una rosa di questioni equivalenti: perché la radicalizzazione è in aumento? Perché l’estrema destra avanza? Perché le aggressioni a sfondo discriminatorio sembrano incrementarsi? Perché il razzismo non è più tabù? Sempre in Francia, nel 2014, il 53,6 per cento dei diplomati ha studiato filosofia, il che ci fa supporre che circa la metà della popolazione (almeno la metà della popolazione delle ultime generazioni) è stata abituata, durante l’ora di filosofia, ad affrontare domande senza tempo. Ovvero senza quel riferimento principale, anche se non sempre sufficiente, alla comprensione dell’attuale. Gli assi per orientarsi nelle domande vanno allora ricreati dallo studente-soggetto attraverso la problematizzazione, i concetti filosofici, lo spirito critico e le conoscenze. Ma il dato del 53,6 per cento significa anche che l’altra metà della popolazione non ha vissuto l’esperienza della domanda filosofica, che non è stata in contatto prolungato con l’effetto estraniante della domanda né con l’inquietudine della pagina bianca che accompagna l’angoscia dell’incompreso.
Certo, gli studi sulla radicalizzazione dei cittadini francesi mostrano che non esiste un profilo tipico dello Jihadista eccetto che per un paio di elementi ricorrenti e quindi caratterizzanti. Sembrerebbe, in primo luogo, che il soggetto incline alla radicalizzazione sia di carattere «ipersensibile», incline dunque a domande sul senso della vita. In secondo luogo, come afferma lo psichiatra Serge Hefez, il discorso Jihadista separando di un taglio netto il puro dall’impuro offre dei riferimenti strutturanti a colui che soffre della perdita (postmoderna?) di ogni riferimento. Riassumendo potremmo affermare che l’attrazione per il discorso jihadista attiri quegli individui che da un lato tendono al questionamento e dall’altro sembrano insofferenti al punto di domanda. Personalità insomma che tendono alle domande ma che non riescono a vivere il venir meno dei riferimenti e con esso non sopportano il sottrarsi di una comprensione chiara e distinta.
I video diffusi dall’Isis ormai più di un anno fa e nei quali si mostrano scenari di decapitazioni pubbliche incarnano, lo sappiamo, la spettacolarizzazione della pena. E stato fatto notare a più riprese come tali riti di giustizia non ci sono nuovi perché, come afferma Foucault nel suo Sorvegliare e punire, fino al XVIII secolo la pena era «splendore dei supplizi», il rito era pubblico al fine di mostrare come il corpo dei sudditi appartenesse allo Stato. Allora se l’Isis, oggi, spettacolarizza la scena come lo si faceva in Europa, secoli fa, questo significa che noi siamo attualmente contemporanei di più contemporaneità, quella di internet et quella delle pene pubbliche. Ma questo significa anche che, come scrive Shakespeare in un verso dell’Amleto, «il tempo è fuori dai cardini». Altrimenti detto l’Isis segue una logica schizofrenica: toglie il tempo e ne prodiga la cura, sottrae tutti i riferimenti temporali e ne porge di nuovi.
Per concludere, da un lato abbiamo il metodo filosofico francese che insegna a pensare senza tempo, in mancanza quindi di uno dei riferimenti fondamentali della sensibilità. Dall’altro lato abbiamo invece lo jihadismo che, una volta sottratto il tempo, trancia il giusto dall’ingiusto, il chiaro dallo scuro, il puro dall’impuro. Pare allora che l’educazione filosofica e il terrorismo di stampo jihadista siano contrastanti: la filosofia apprenderebbe a restare di fronte alla domanda, lo jihadismo procurerebbe riferimenti a chi non riesce a vivere la crisi dello stare senza risposta. La filosofia sarebbe allora il rimedio al terrorismo? La conclusione parrebbe affrettata e riduzionista in ragione, tra l’altro, della mancanza di dati al proposito ma anche perché il campione della popolazione francese radicalizzata è oltremodo marginale, insufficiente dunque per qualsiasi tipo di conclusione.
Possiamo però invertire la questione e chiederci come mai una popolazione, quella francese, abituata a pensare senza riferimenti, abituata alle domande, avvezza alla sospensione del tempo e con esse alla crisi del pensiero, viva oggi tutta questa paura. Il “nemico” è senza dubbio spiazzante, fa certamente paura, mette sicuramente in crisi. Ma come mai tutta questa paura di fronte alla paura? Da dove nasce tutta questa crisi di fronte alla crisi? Perché tutto questo disorientamento di fronte alla mancanza di riferimenti se, come abbiamo detto, la filosofia attraverso le sue domande abitua proprio a questo: a non avere paura della paura, a non andare in crisi di fronte alla crisi a non perdersi di fronte alla mancanza di riferimenti temporali?
Forse la risposta va ricercata nella domanda. Il fondamentalismo attira perché sembra proporre una visione binaria ed elementare del mondo attraverso risposte trancianti (da un lato il puro dall’altro l’impuro, da un lato il giusto dall’altro l’ingiusto). Risposte che rispondono, e quindi risposte pericolose perché estinguono la possibilità del dubbio e il diritto all’incertezza, e con essi il diritto di replicare con una domanda ad una domanda. Tali risposte appaiono allora inquietanti, pericolose e drammatiche a quel pensiero (filosofico e non solo) che vive di risposte che non esauriscono mai le proprie domande.
Insomma il terrorismo, il fondamentalismo, l’attacco a Charlie Hebdo sono segnali allarmanti di risposte che, con la loro categoricità, minacciano il futuro possibile di ogni domanda: ecco forse la ragione di tutta questa paura.