Che effetto fa l’insegnamento?

Cambiare la scuola a partire dalla consapevolezza dei modelli didattici.

Dopo le polemiche sollevate dalla “lettera dei 600” ha ancora senso considerare il modello didattico centrato sullo sviluppo delle competenze come il baricentro dell’innovazione didattica? Simone Giusti sui modelli didattici coinvolti nei processi di insegnamento/apprendimento e sui vantaggi che questi modelli producono sugli insegnanti.

 Che insegnante sono? Come dovrei essere?

Qualche giorno fa sono intervenuto nel dibattito sul declino dell’italiano a scuola e all’università con una “contro-lettera” che suggeriva, tra il serio e il faceto, di cominciare a cambiare le cose a partire dai docenti universitari, sostanzialmente inconsapevoli di cosa significhi insegnare e, soprattutto, di quale rapporto intercorra esattamente tra insegnamento e apprendimento. Se vogliamo cambiare la scuola – dicevo pressappoco – dobbiamo migliorare l’impatto del nostro insegnamento sugli apprendimenti degli studenti, all’università e a scuola, e anche dopo nei corsi di specializzazione per gli apprendisti docenti. E, aggiungevo, occorre fare ricerca, aumentare le conoscenze sulla didattica, in modo da poter fare scelte oculate, che siano in grado di far progredire la scuola senza lanciarla ogni volta in nuove e improvvisate avventure pedagogiche.

Adesso che si sono placate le polemiche ritengo possa essere utile tornare sulla questione per fornire qualche argomento in più a coloro che ripongono ancora una qualche fiducia nel ruolo educativo della scuola all’interno di una società democratica. Prendo le mosse da una considerazione piuttosto banale: l’attività didattica di noi insegnanti è influenzata da una miriade di condizionamenti. Siamo influenzati dai modelli che abbiamo avuto: i nostri insegnanti, i genitori, gli allenatori… tanti adulti di riferimento che con le loro azioni intenzionalmente educative hanno avuto un impatto sulla nostra vita e che tendiamo già o meno inconsciamente a prendere ad esempio, in positivo o in negativo. Una voce interiore ogni tanto interviene per dirci: “Io non farò mai quello che hanno fatto a me!”, oppure, “Anch’io userò quel metodo, perché ha funzionato e mi è piaciuto”.

Siamo inoltre influenzati dai colleghi che abbiamo incontrato, soprattutto all’inizio della carriera. A volte sono loro ad averci insegnato a insegnare, dandoci suggerimenti, consigli, oppure raccontandoci storie, condividendo con noi le loro esperienze.

Il contesto in cui ci troviamo a lavorare, inoltre, ha effetti decisivi sulle nostre scelte didattiche. Non insegniamo allo stesso modo in tutte le scuole, in tutte le classi. Il dirigente e il consiglio di classe hanno un ruolo decisivo, così come è fondamentale il quartiere in cui la scuola è situata, la qualità della partecipazione dei genitori alla vita scolastica, il loro livello di istruzione, il tipo di lavoro che fanno, la casa che abitano, le loro aspettative sui figli. Se un genitore viene a chiedevi conto del fatto che suo figlio è “indietro nel programma” rispetto a quelli della classe accanto, avete voglia a spiegargli che i programmi non esistono e che la scuola deve costruire competenze. Quello vi guarderà come si guarda un pazzo, o un incompetente.

Cosa dire poi degli alunni? Non ci hanno forse, a loro volta, educati? Soprattutto negli ultimi anni, man mano che i loro freni inibitori sono andati diminuendo e le loro richieste si sono fatte sempre già pressanti. E il loro numero, è forse indifferente? Insegnare a quindici alunni è forse la stessa cosa di insegnare a trenta? Se so fare la prima cosa, non è detto che sappia fare la seconda. Sono due mestieri diversi, quasi.

Poi ci sono le indicazioni nazionali, i corsi di formazione, le circolari ministeriali, i risultati delle indagini nazionali e internazionali, e poi le lettere aperte e tutti quei soggetti interessati a vario titolo al cambiamento della scuola, che per questo tirano per la giacca gli insegnanti, cercando di suggerire nuovi e vecchi metodi, di consigliare strumenti e tecnologie didattiche più o meno all’avanguardia. D’altronde lo sappiamo, noi insegnanti, cosa significhi avere l’uno o l’altro libro, l’una o l’altra tecnologia. I libri, ormai, hanno introiettato le pratiche didattiche. Alcuni ti guidano passo nell’insegnamento, insegnandoti così a insegnare secondo un metodo preciso, di cui non è importante essere consapevoli. Introdurre un nuovo strumento può avere un impatto notevolissimo sulla scuola, e noi potremmo anche non accorgercene, o semplicemente, non aver previsto le conseguenze.

Insomma, in estrema sintesi, siamo condizionati da tanti fattori e proprio per questo, come scrive Primo Levi nell’ “Appendice” a Se questo è un uomo, se non possiamo liberarci da tutti i condizionamenti, possiamo almeno scegliere il condizionamento che preferiamo. Cominciamo, dunque, col prendere atto della nostra scarsa consapevolezza delle azioni didattiche che compiamo quotidianamente a scuola, delle quali non conosciamo bene le origini, né tantomeno le conseguenze. È una forma di ignoranza poco percepita, che fa sì che ciascun cittadino e ciascun politico – indipendentemente dagli studi fatti e dal ruolo ricoperto – si senta in grado di parlare di scuola e di didattica pur senza averne una reale conoscenza, a parte quella che giace riposta nella memoria personale e che è sempre pronta a tornare alla mente sotto forma di pungente nostalgia o di soluzione pedagogica perfetta trent’anni addietro come oggi. Invece dobbiamo ammetterlo, specialmente noi insegnanti laureati in lettere, che come molti altri colleghi non abbiamo mai sentito parlare di pedagogia o di psicologia prima di intraprendere una specializzazione per l’insegnamento. Così come dovremmo ammettere – per comunicare a ragionare seriamente – che la qualità dell’insegnamento (che si dovrebbe misurare sulla qualità degli apprendimenti) non è direttamente proporzionale alla durata degli studi dell’insegnante, né alla quantità di conoscenze disciplinari acquisite. Altrimenti non si spiegherebbe il fatto che i livelli scolastici più efficaci, in Italia, sono la scuola primaria (ora in declino) e la scuola dell’infanzia. Scuole in cui insegnano persone meno pagate e meno formate – in senso meramente quantitativo – dei colleghi delle scuole secondarie, costretti da tanti anni a un iter formativo interminabile.

Chi mi sta spingendo? Dove mi vogliono portare?

Negli ultimi anni abbiamo assistito inermi a tre piccole rivoluzioni didattiche che sono state introdotte nella scuola senza passare per delle vere e proprie riforme. Mentre gli esperti scrivevano linee guida e indicazioni nazionali rimaste per lo più inapplicate, alcuni politici – si immagina supportati da tecnici – decidevano di dotare le scuole di tecnologie digitali, di usare le prove nazionali INVALSI per valutare i singoli alunni in uscita alla terza media e, inoltre, di aumentare le ore di insegnamento effettivo in classe di ciascun docente della scuola secondaria e ridurre le ore di compresenza nella scuola primaria.

L’introduzione massiccia e fondamentalmente acritica di tecnologie – specialmente nelle scuole del Mezzogiorno – ha fatto parlare di colonialismo digitale (espressione usata da Roberto Casati nel suo Contro il colonialismo digitale), una sorta di ideologia secondo cui dal semplice fatto che una qualche attività umana possa migrare verso il digitale ne segue che essa debba migrare verso il digitale. Dalla possibilità – dice Casati – viene fatta seguire la necessità normativa: si può, quindi si deve.

Questo atteggiamento passivo nei confronti del digitale ha portato a fare investimenti in tecnologie capaci di condizionare le tecniche didattiche e la relazione alunno-insegnante in modo subdolo, costringendo tutti a fare un salto nell’ignoto (su questi argomenti rimando all’indagine Gli effetti degli investimenti in tecnologie digitali nelle scuola del Mezzogiorno).

Anche l’introduzione delle prove INVALSI nel contesto degli esami di Stato della scuola secondaria di primo grado (a.s. 2007/2008) ha avuto un impatto significativo sulla didattica, andando di fatto a sovrastare e oscurare le ottime Indicazioni nazionali per la scuola del primo ciclo (2007). Queste prove, infatti, nate per fornire ai ricercatori, ai decisori e a tutti i cittadini una base dati utile a valutare l’impatto della scuola sulle competenze di base degli alunni (literacy in lettura e literacy matematica in primo luogo), sono state usate in modo improprio per valutare i singoli alunni e le scuole di appartenenza, scatenando una vera e propria corsa al test. Anziché focalizzare il dibattito sui processi di alfabetizzazione, infatti, tutti – dirigenti, insegnanti, studenti e anche genitori – si sono concentrati sui risultati, ovvero sui punteggi conseguiti nelle prove di Italiano e di Matematica.

La terza rivoluzione, legata fondamentalmente al taglio delle risorse, è stata quella dagli effetti più devastanti. Di fatto oggi gli insegnanti italiani sono più isolati rispetto a qualche anno fa. Si sono ridotte le compresenze, è diminuita la possibilità di fare uscite con gli alunni e di partecipare ad attività extrascolastiche durante le ore di scuola, si è persa l’idea di continuità del percorso. Se prima gli insegnanti della secondaria di secondo grado erano legati a una determinata sezione e lavoravano perlopiù al biennio o al triennio, oggi tutti gli insegnanti si spostano da una sezione all’altra, dal primo al secondo biennio e quinto anno (il triennio non esiste più). Questo fa sì, ad esempio, che i libri di testo siano adottati non sulla base della scelta del singolo docente ma per esigenze dell’intero dipartimento, con conseguente appiattimento e omologazione dei metodi e degli strumenti didattici. In sintesi, diminuisce sensibilmente la libertà di insegnamento – anche a causa dell’inserimento scriteriato della pur buona pratica dell’alternanza scuola-lavoro, ma questo argomento richiederebbe altri approfondimenti – senza che ce ne rendiamo veramente conto.

Intanto le varie indicazioni nazionali invitano gli insegnanti a personalizzare l’insegnamento, a fare didattica laboratoriale, a usare strumenti di tipo partecipativo e attivo…

Dove sono? Fin dove posso arrivare?

Mi è capitato di vedere sul sito di Rai Scuola un documentario girato nel 1968 su un incontro tra alcuni insegnanti italiani con il pedagogista brasiliano Paulo Freire. Freire insiste molto sulla necessità di sottoporre ad analisi critica qualsiasi pratica educativa nata in contesti diversi da quello di applicazione, in modo tale che sia l’insegnante ad avere il controllo sugli effetti del processo educativo, che non è mai neutro e porta sempre con sé una visione del mondo che dovrebbe essere il più consapevole possibile.

Il ragionamento di Freire è di una semplicità disarmante e merita di essere riproposto. Il punto di partenza è la constatazione della natura relazionale del processo educativo. Si tratta di una relazione che coinvolge, ovviamente, docente e alunno, e che è mediata sempre da un oggetto di conoscenza (una disciplina, un contenuto), che deve prima essere conosciuto dal docente e poi appreso dall’alunno. Nessuno di questi elementi può essere assente dal processo educativo, che ha sempre una finalità, un obiettivo di apprendimento, una specifica direzione. Per questo una pratica educativa non può essere neutra, è sempre necessariamente direttiva. Nella storia dell’educazione – continua Freire – si è spostata l’attenzione su uno o sull’altro elemento della pratica educativa. In passato, quando la didattica era una pratica per pochi, l’attenzione era focalizzata sull’insegnante, il maestro. Oggi, nel 1968, i sistemi educativi sono sbilanciati sugli oggetti di conoscenza e tendono a fornire agli insegnanti – sostanzialmente svalutati e manipolati – delle tecniche didattiche preconfezionate, costruite altrove, lontano dalla comunità scolastica, da nuclei di esperti. Per questo occorre una formazione permanente dell’insegnante, una formazione che sia politica e pedagogica.

Io solitamente inizio così i miei corsi di formazione per i neoassunti. Comincio da una riflessione sul fatto che tutti noi, anche i nuovi arrivati, quelli che sono entrati in aula qualche mese prima, sappiamo insegnare. Lo abbiamo già fatto. Così come, forse, sappiamo nuotare. Anche senza essere dei campioni, sappiamo stare a galla. Ci hanno buttato in acqua e abbiamo galleggiato. Tanto basta. Tuttavia, indipendentemente da dove e come abbiamo imparato a insegnare, come dice Freire, le pratiche educative non sono mai neutre, poiché corrispondono sempre a dei modelli didattici, ovvero a dei fini sociali, a un quadro di valori, e a delle specifiche teorie da cui derivano specifiche tecniche operative.

Per questo ritengo utile proporre l’uso di uno strumento di osservazione delle pratiche educative ideato dal pedagogista Massimo Baldacci. Egli prende le mosse da quella che definisce “situazione didattica tipica”, descritta come “un ‘processo’ d’interazione di un ‘soggetto’ e un ‘oggetto’ culturale, che dà luogo a un ‘esito’ d’apprendimento (più o meno adeguato)”. Sulla base di questo schema può essere elaborata una vera e propria tavola dei modelli didattici:


Tracciando due assi ortogonali, all’estremità in alto si colloca il processo di apprendimento, in basso il prodotto, a sinistra il soggetto che apprende e a destra l’oggetto culturale, cioè la disciplina che interagisce col soggetto per dare luogo all’apprendimento. Nei quattro quadranti che si formano dall’incrocio degli assi si collocano altrettanti modelli didattici ideali, che sono identificati e etichettati attraverso il loro fine formativo predominante:

  • il modello dei processi cognitivi superiori (focalizzato sul processo e sul soggetto)
  • il modello dei talenti personali (focalizzato sul soggetto e sul prodotto o risultato di apprendimento)
  • il modello dell’arricchimento culturale (focalizzato su processo e oggetto culturale)
  • il modello delle competenze di base (focalizzato sul prodotto e sull’oggetto culturale).

Non ci sono modelli migliori o peggiori di altri, ovviamente. Ciascun quadrante può essere riempito di pratiche di programmazione, di insegnamento e di valutazione che sono state sviluppate in precisi contesti socio-economici con specifiche finalità. Il modello didattico centrato sull’acquisizione delle competenze di base, per esempio, caratteristico della scuola dell’obbligo dei paesi democratici, si fonda su un’intenzione sociale e, in linea di principio, si oppone a una concezione elitaria della formazione. Il suo scopo è dare a tutti i cittadini la capacità d’uso di competenze disciplinari attinenti alla sfera dell’alfabetizzazione logico-matematica e linguistico-comunicativa. È il modello dominante, quello in cui siamo immersi, spesso senza accorgercene. Chi si muove al suo interno mette al centro dell’azione didattica la necessità di conseguire dei risultati (prodotti) inerenti a campi del sapere (oggetti culturali) e si situa nel riquadro in basso a destra dello schema proposto, nel punto più distante dai soggetti e dai processi di apprendimento. Per intendersi, chi insegna seguendo principalmente questo modello sa già prima di cominciare quali sono i risultati da raggiungere per tutti gli alunni; risultati che sono strettamente collegati alla disciplina di insegnamento e alle conoscenze e capacità che ad essa fanno esclusivo riferimento. Siamo dalla parte delle prove di valutazione il più possibile ‘oggettive’, tese a verificare l’effettiva acquisizione di conoscenze e abilità rigorosamente programmate e standardizzate. Da questo modello discendono la programmazione individualizzata e il lavoro per unità didattiche, pratiche ormai entrate nell’uso scolastico attraverso i programmi del 1979 e, soprattutto, attraverso i libri di testo, che rimangono, di fatto, nella frammentata e disorganizzata situazione italiana, il principale canale di diffusione dei modelli didattici.

L’altro modello didattico dominante nella scuola italiana, soprattutto a partire dalla secondaria di secondo grado, è quello centrato sull’arricchimento culturale. È il modello gentiliano, fondato sull’utilizzo di un ristretto numero di discipline (oggetti culturali) che le persone devono apprendere con fatica, allo scopo di crescere culturalmente, di arricchirsi, di dotarsi di strumenti cognitivi e culturali per affrontare la vita adulta e, infine, diventare maturi. Come nel modello precedente, le discipline hanno un valore fondamentale e rimangono assolutamente centrali in quanto oggetto di apprendimento – con l’avvertenza che in questo caso esse sono considerate portatrici di valori prima che di competenze. È la persona che, interiorizzando significati e valori che sono propri di alcuni oggetti culturali (un canone di opere letterarie, ad esempio), si arricchisce. Fanno parte di questo modello pratiche didattiche come la lezione ‘socratica’, centrata sul dialogo e sul conflitto delle interpretazioni, e il tema, attraverso il quale l’alunno può allenare le competenze linguistiche ma anche rivelare a se stesso e al docente il proprio quadro di valori, le proprie conoscenze e la propria capacità di ragionare e argomentare su un determinato argomento.

Il modello dei talenti personali – caratteristico dei paesi anglosassoni – mette al centro il soggetto che apprende per raggiungere un determinato risultato (prodotto), da individuare sulla base dei talenti e delle diverse forme di intelligenza dell’alunno. Si differenzia dal modello precedente perché non intende sviluppare, in generale, le facoltà mentali, ma intende concentrarsi su specifiche abilità. Si distingue dal modello delle competenze di base per la centralità del soggetto e delle sue “intelligenze” rispetto alla disciplina, che è considerata uno strumento utilizzato per valorizzare al massimo il talento della persona, al di fuori di un curriculum standardizzato.

Nell’ambito del modello centrato sullo sviluppo dei processi cognitivi superiori, l’insegnante mira prevalentemente a sollecitare lo sviluppo delle capacità mentali più elevate dell’alunno. È la posizione di chi rifiuta decisamente ogni nozionismo e, abbandonando ogni attenzione per l’oggetto di apprendimento (la disciplina), si focalizza sul processo di apprendimento del soggetto (la metacognizione). Il modello dei processi cognitivi superiori è di sicuro quello che più si presta ad una didattica centrata sulle competenze, in particolare sulle competenze trasversali, ovvero quelle competenze che non si acquisiscono esclusivamente attraverso percorsi formativi strutturati e intenzionali (salvo l’eccezione delle scuole materne e elementari), ma anche attraverso l’affrontare quotidianamente dei problemi, oppure attraverso attività sportive, associative, ecc. All’interno di questo modello, centrato sul soggetto e sul processo, le discipline – gli oggetti culturali – non trovano spazio se non come strumenti, e i risultati contano meno dei processi e delle procedure messe in atto e apprese dal soggetto. La valutazione interessa soprattutto in quanto autovalutazione, al fine di documentare i processi e riflettere sulle conoscenze acquisite e sulle competenze sviluppate. La stessa programmazione, come accade anche nel modello dell’arricchimento culturale, non è focalizzata sul risultato dell’apprendimento ma sul processo. Ciò significa che occorre avere un controllo molto rigoroso sulle azioni che si fanno compiere agli alunni. Una modalità di programmazione congruente con questi modelli è la programmazione per progetti didattici, nella quale l’insegnante deve descrivere e raccontare la sequenza delle operazioni che intende mettere in atto (la procedura), evidenziando almeno il tema trattato, i materiali, le attività, il ruolo che intende ricoprire e le modalità di lavoro degli alunni.

Tornando al mio lavoro di formatore di insegnanti e di ricercatore nell’ambito della didattica della letteratura, io cerco di non fornire metodi o tecniche precostituiti, ma di aumentare la consapevolezza dei docenti della loro “posizione” rispetto ai modelli didattici e delle “forze” che tendono a spostarli da una parte all’altra. Mi piace pensare a una scuola in cui gli insegnanti riescono a muoversi tra i vari modelli didattici mettendone a frutto le potenzialità e cercando di mantenere un equilibrio tra le varie dimensioni del processo di apprendimento. Naturalmente, perché ciò accada occorre rispettare la congruenza tra le varie azioni didattiche all’interno di uno stesso modello. Questo significa che se l’insegnante fa una programmazione per obiettivi (modello delle competenze di base), deve poi adottare delle metodologie didattiche adeguate al loro raggiungimento, deve prevedere un sistema di monitoraggio e di valutazione degli apprendimenti e deve dare la possibilità di recuperare a coloro che non raggiungono gli obiettivi previsti. Significa anche che se l’insegnante intende sviluppare la competenza metacognitiva deve lavorare con strumenti congruenti al modello dei processi cognitivi superiori e, quindi, non avrebbe senso utilizzare test a risposta multipla o fare lezioni frontali per spiegare che cosa significa “imparare a imparare”.

In particolare, visto che i quadranti di destra della tavola – con una preferenza per il quadrante in basso a destra – sono quelli più frequentati dagli insegnanti delle scuole secondarie, i quali rimangono legati, specialmente durante i primi anni di insegnamento, alla loro disciplina, mi piacerebbe che si concentrassero gli sforzi nello spostare il baricentro dell’insegnamento verso il lato sinistro, dalla parte del soggetto che apprende. Ma per sapere da che parte andare, per poter scegliere la direzione da intraprendere, occorre innanzitutto sapere dove ci troviamo, senza abbandonarsi come sugheri in mezzo alle onde, evitando di rimanere attaccati come ostriche al nostro scoglio.

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