Il libro delle case, di Andrea Bajani: una recensione di Fabio Stassi.
Il libro delle case di Andrea Bajani, come in molti hanno sottolineato, è un registro catastale, con le sue mappe, le misure, gli atti di vendita e di trasloco, l’elenco dei beni perduti e di quelli che si sono provati a riacquistare; verrebbe da dire che inventaria l’amore che tra un muro e l’altro si è sperperato, lo scialo e l’esistenza, le tante possibilità di domicilio andate al macero, e il progressivo spossessamento di ogni oggetto o proprietà fino all’identificazione simbolica con il destino delle tartarughe, che la loro casa se la portano sempre appresso. E non è una semplificazione che il piano inclinato del titolo leghi la parola libro alla parola casa, perché alla fine, almeno per chi scrive, ma anche per chi legge, sono i libri il nostro carapace.
Sì è discusso pure sulla questione dello spazio, e di come la scrittura generi sempre un corpo a corpo con una superficie, la informi e gli dia forma, ne tracci la pianta, fissi il numero dei riquadri e degli ambienti, il perimetro della scacchiera e la disposizione di ciascun elemento: insomma, di come la scrittura sia, in altra scala, un’applicazione dell’architettura, o viceversa. Un libro, ci dice Bajani, in fondo è fatto allo stesso modo di una casa, si potrebbe ridurre sempre a una mappa, simile a quelle che sono riportate tra un capitolo e l’altro. Ha ingressi, porte, finestre, battiscopa, perché lo sforzo di chi scrive è un continuo arredare e traslocare, un inesausto spostare di mobili.
Si è parlato, infine, della parola di Bajani, ascrivibile alla sfera della condensazione poetica come di una scelta di campo stilistica irreversibile. Dell’esattezza della sua lingua, della precisione nomenclatoria, delle sue possibilità musicali. Perché Il libro delle case è anche un poema mascherato: lo si potrebbe scomporre in versi, e se ne riconoscerebbe l’andamento metrico, se ne conterebbero il numero delle sillabe. Umberto Eco diceva che i poeti si fanno guidare dalla parola, i romanzieri dalla ricostruzione dell’ambiente: Bajani, acrobaticamente, fa l’uno e l’altro.
Ma insieme a tutto questo, altre ancora, ed essenziali, sono le innovazioni di questo romanzo, alcune di natura specificatamente tecnica (ma non appaia freddo l’uso di questo termine in un contesto di così grande incandescenza emotiva).
La prima, e più grande, è lo scarto con cui il pronome “Io” viene declinato in terza persona. È una mossa semplice, ma nessuno l’aveva ancora fatta. Talmente semplice da rischiare di passare inosservata, o almeno di non misurarne appieno l’entità. Con un solo movimento, simile a quello del cavallo negli scacchi, Bajani riporta all’interno del romanzo la lunga eresia dell’autofiction, e di fatto la conclude. Determina un cortocircuito con il narcisismo imperante delle narrazioni di sé o, nei casi migliori, con la disperata mancanza di alternative dai labirinti di questi anni e si schiera apertamente dal lato del racconto. È un’intuizione decisiva e Bajani ci arriva attraverso un lungo percorso di rarefazione che lo ha portato via via a scarnificare i protagonisti delle sue storie (in Un bene al mondo si chiamano già bambino e bambina), fino a rendere personaggi gli stessi archetipi: Io, Padre, Madre, Sorella, Parenti, Poeta, Prigioniero, Moglie, Bambina… È un processo pirandelliano, un teatro di maschere senza dialoghi e senza più neppure il teatro stesso, ma dove le quinte, i fondali, la scena tornano a essere, appunto, le case, gli interni. Insieme alla grafia di un pronome o di un sostantivo, si sono rovesciate anche le luci della ribalta e i rapporti di forza. Tutto questo avvicina Il libro delle case alla dimensione del mito, ma al tempo stesso lo spoglia di ogni alone, lo trasforma in una sorta di leggenda famigliare dove finalmente “Io” con la maiuscola viene separato dall’“io” minuscolo, ma assai più ingombrante di tanta recente sovrapproduzione letteraria, e, liberato da sé stesso, può finalmente tornare a raccontare la sua e la nostra Storia. È lo stratagemma necessario perché anche allo scrittore sia consentito di rindossare la giacca e i panni di Wakefield, affittare un appartamento sulla stessa strada dove abitava e osservare da fuori la sua vita senza di lui.