Immedesimazioni. Un portrait chinois di Carrère a partire da “Il Regno”

L’immagine e la parola ­– spin-off primaverile del Festival del film di Locarno – ha recentemente ospitato Emmanuel Carrère, lasciandogli carta bianca per la composizione del suo programma. Congiuntamente all’uscita in Italia de Il Regno (Adelphi), questo evento offre lo spunto per una riflessione sull’universo dello scrittore francese.

L’operazione compiuta da L’immagine e la parola ha questo di particolare: che le scelte curatoriali di Carrère sono tese a costituire una sorta di portrait chinois:[1] i film e gli ospiti selezionati indicano gusti, preferenze e, di riflesso, aspetti salienti della personalità dello scrittore sottolineandone al contempo le preoccupazioni attuali. Tra gli ospiti invitati spiccano le figure dei registi Pawel Pawlikowski e Fabrice Gobert: il primo ha appena vinto l’Oscar per il miglior film straniero per Ida, mentre il secondo vinse qualche anno fa l’International Emmy Award per la serie televisiva francese Les Revenants, alla sceneggiatura della quale partecipò lo stesso Carrère per un certo periodo, e che racconta la storia di morti – non zombie né fantasmi, ma persone normalissime, ignare persino di essere morte – che un bel giorno ritornano tra i vivi.

L’evento non poteva non includere inoltre una lettura pubblica de Il Regno eseguita dall’autore e, per la traduzione italiana, da una Valeria Golino un po’ sottotono. È allora il caso di partire da questo libro labirintico, nel quale si accumulano rimandi intertestuali a tutta l’opera precedente di Carrère.

Da un lato Il Regno si presenta come un’indagine storica che ritraccia la storia dei primi cristiani, e in particolare le vicende di Paolo di Tarso e dell’evangelista Luca, ricorrendo all’uso di ipotesi narrative laddove le fonti presentino lacune temporali. Il capitolo centrale del libro esplora una simile lacuna: nella fabula degli Atti degli Apostoli vi è infatti un buco di due anni che corrisponde al periodo di prigionia di Paolo a Cesarea, durante il quale Carrère immagina che Luca avrebbe svolto un lavoro d’inchiesta preparatorio alla stesura del suo vangelo, raccogliendo testimonianze di prima mano e visitando i luoghi frequentati da Gesù.

D’altro lato, il libro racconta anche la vicenda personale di Carrère e la sua conversione al cristianesimo nei primi anni Novanta, in seguito a una crisi esistenziale che lo aveva lasciato incapace di scrivere. Per tre anni fu un fervente devoto, che andava a messa tutti i giorni, si confessava, prendeva la comunione, e leggeva e commentava le scritture sacre. Vent’anni dopo, ormai non più credente da molto tempo, la decisione di riaccostarsi ai testi fondatori del Cristianesimo trae origine da quello scarto e dal desiderio di capire quell’altro da sé che un tempo era sé, quella passata versione di sé ormai radicalmente diversa da quello che è diventato oggi lo scrittore.

Per L’immagine e la parola Carrère ha scelto di leggere un passaggio dal prologo, il quale non rappresenta solo la porta d’entrata nel libro, ma anche una porta che ci schiude, sotto gli auspici di Philip K. Dick, un primo percorso intertestuale all’interno del suo stesso universo. Questa porta d’entrata è costituita da Les Revenants, o per meglio dire, dall’analogia che collega questa serie televisiva a ciò di cui tratta Il Regno. Perché quella storia di morti che tornano – ci dice Carrère nel prologo – è precisamente ciò in cui credevano i seguaci della strana fede predicata da Paolo di Tarso, convinti di vivere gli ultimi giorni prima della fine, quando i morti risorgeranno e avrà luogo il giudizio universale. In entrambi i casi si parla di uno stesso evento impossibile che pure accade: la resurrezione dei morti. E tutto questo Carrère lo racconta durante una cena, proprio a Fabrice Gobert; gli racconta la storia dei primi cristiani come se fosse un racconto di fantascienza di Dick, la storia di un contagio e di una mutazione al contempo radicali e invisibili, annunciati dal ritorno di un oscuro profeta giudeo dal mondo dei morti.

L’allusione a Dick, che può sembrare aneddotica, presenta in realtà delle radici profonde che vale la pena seguire perché risalgono proprio al periodo cristiano di Carrère. In quegli anni, in cui non riesce più a scrivere, il suo agente gli propone di lavorare a una biografia come esercizio per superare il suo blocco. Carrère accetta e sceglie di scrivere su Dick, autore intensamente amato, nella vita del quale ritrova in quel momento numerose corrispondenze con la propria: quando si è convertito alla fede cristiana, Dick aveva la stessa età di Carrère, era sposato con una donna con lo stesso nome, era anche lui in crisi e non riusciva più a scrivere. La biografia che Carrère ha scritto su Dick, intitolata Io sono vivo, voi siete morti, conta tranquillamente tra i suoi libri migliori.

Il titolo è in realtà una citazione tratta da Ubik, romanzo in cui la fantascienza si tinge di spiritualità. È una frase di Glen Runciter – che il protagonista Joe Chip crede essere intrappolato in uno stato di “semi-vita” –, un misterioso messaggio che Runciter invia a quest’ultimo per fargli capire che, in realtà, è lui stesso a essere sospeso tra la vita e la morte. Questo messaggio è accompagnato dall’apparizione ripetuta di un enigmatico prodotto commerciale chiamato Ubik e che Joe Chip scoprirà essere l’unico mezzo capace di conservare la semi-vita in cui trova, impedendogli di scivolare nella morte definitiva. Come Carrère ha giustamente notato, dietro a questo prodotto miracoloso si nasconde un concetto centrale per il cristianesimo: la promessa pubblicitaria di Ubik di bloccare il decadimento che minaccia il mondo di Joe Chip – aprendogli de facto un orizzonte di vita eterna – è infatti la trasposizione in termini fantascientifici della promessa eucaristica del Cristo Redentore: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna, ed io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (Gv 6, 54). Ubik, in ultima analisi, non è altro che il sacramento dell’eucarestia sotto forma di bomboletta spray.

Ne Il Regno Carrère non ci dice esplicitamente che cosa abbia provocato il suo allontanamento progressivo dalla fede cristiana. Di certo sappiamo che la scrittura della biografia su Dick ha avuto un effetto catartico su di lui, dato che da quel momento in poi riprende effettivamente a scrivere libri. Tuttavia, credo sia lecito supporre che quell’esperienza abbia anche inciso su quell’allontanamento. A sostegno di questa ipotesi, c’è anzitutto l’effetto di travaso che si instaura tra il commento quotidiano al Vangelo secondo Giovanni – commento al quale Carrère si dedica negli anni successivi alla sua conversione – e la scrittura della biografia, con quest’ultimo lavoro che viene a sostituire progressivamente la pratica del primo, fino a prosciugarla. Ma la ragione più profonda, a mio vedere, ha a che fare con ciò che Carrère ha potuto scorgere di angosciante nella trama di fondo della travagliata e da molti punti di vista catastrofica vita di Dick, con quel suo inabissamento finale nel misticismo paranoico. Un’inquietudine che si percepisce fin dalla nota d’intenzione di Carrère per il progetto biografico:

Scrittore di fiction, e della fiction la più esuberante, era convinto di scrivere dei «rapporti». Gli ultimi dieci anni della sua vita, li ha trascorsi su un interminabile e inclassificabile «rapporto», che chiamava la sua «Esegesi». Questa «Esegesi» tentava di rendere conto di un’esperienza che di volta in volta interpretava come l’incontro con Dio («È una cosa terribile, dice San Paolo, cadere nelle mani del Dio vivente»), l’effetto ritardato delle droghe che aveva assorbito durante la sua vita, l’invasione del suo spirito da parte di extraterrestri o semplicemente una pura costruzione paranoica. Malgrado tutti i suoi sforzi, non è mai riuscito a tracciare il confine tra fantasmagoria e rivelazione divina – a suppore che ne esista uno. Ma ne esiste uno? (Le Royaume, p. 134 – la traduzione è mia).

Calatosi nei panni di Dick, ha avuto modo di cogliere quanto c’è di angoscioso e di infelice nella prospettiva di trascorrere un’intera vita, come Dick, a inseguire un fantasma inafferrabile. È legittimo chiedersi allora se la consapevolezza – evinta da tale esperienza – dell’impossibilità intrinseca di ancorare la propria angoscia ad una certezza definitiva, non abbia contribuito in modo decisivo ad alimentare il dubbio in Carrère, fino a fargli perdere la fede. Per lui la scrittura della biografia si è trasformata dunque in un’occasione per una riflessione su di sé, condotta utilizzando gli strumenti del confronto e dell’immedesimazione. L’immedesimazione con Dick è stata tale addirittura da rendere a tratti incerta la stessa distinzione tra i due scrittori, come ammette lo stesso Carrère ne Il Regno, quando dichiara di non essere più in grado di distinguere quanto della propria esperienza di allora abbia effettivamente proiettato sulla vita di Dick.

La biografia su Dick rappresenta indubbiamente una svolta decisiva nel percorso di Carrère come scrittore. Si tratta infatti della prima di quelle opere della maturità in cui trova la propria voce, prendendo a soggetto Le vite degli altri. Nei libri successivi, Carrère abbandonerà la pura fiction per raccontare con empatia le vite di persone reali, vite verso le quali si sente attratto perché in un certo modo sente di condividere qualcosa con loro. In questi libri si instaura una relazione che è dell’ordine dell’affinità elettiva; in essi il fascino subito dall’autore si mescola spesso a un senso di vergogna o addirittura di repulsione, in una dialettica che oscilla tra una tendenza all’immedesimazione con il soggetto e l’allontanamento critico da esso.

Da nessuna parte questa dialettica si trova meglio illustrata che ne L’Avversario, il libro nel quale Carrère conquista laboriosamente l’uso della prima persona narrante per raccontare la vicenda di Jean-Claude Romand, il quale nel gennaio del 1993 uccise moglie, figli e genitori, dopo avergli fatto credere, per più di quindici anni, che lavorava come medico presso l’Oms di Ginevra mentre in realtà non lo era mai stato e trascorreva invece le sue giornate seduto in macchina in aree di sosta autostradali, leggendo riviste e aspettando la sera per poter rientrare a casa. Per più di sette anni Carrère ha seguito il processo di Romand – intrattenendo con lui anche un rapporto epistolare – dalla prospettiva di chi è interessato più a capire che a giudicare; ma dentro di sé provava un senso di vergogna per l’attrazione morbosa che lo legava a Romand. Che cosa rivelava di lui quell’ossessione per quel criminale mostruoso? Gli sembrava come se il suo coinvolgimento e la sua empatia facessero ricadere su di lui parte di quell’ignominia, e lo inquietava l’oscuro sentimento di condividere qualcosa di profondo con Romand.

Come l’indagine su Dick aveva rivelato nella sua vita un abisso di paranoia e di angoscia, anche L’Avversario si confrontava con un abisso, stavolta racchiuso all’interno della mente ermetica di Romand. «All’interno di ognuno di noi, – scrive Carrère – c’è una finestra che dà sull’inferno, alla quale solitamente evitiamo di avvicinarci. Ho trascorso sette anni della mia vita, di mia propria volontà, davanti a quella finestra: come ipnotizzato» (p. 432). Se L’Avversario rappresenta l’esemplificazione più estrema della dialettica tra fascino e repulsione che anima la scrittura autobiografica di Carrère, questa è comunque presente anche in altri libri. In Limonov, ad esempio, è narrato lo sgomento che un episodio della vita dell’omonimo protagonista, fascinosa figura di avventuriero e poeta russo, provoca in Carrère quando viene a sapere della partecipazione di questi alla guerra in Bosnia, come volontario a fianco dei nazionalisti serbi. Nel documentario Serbian Epics di Pawel Pawlikowski che scopre poco dopo, Carrère avrà la spiacevole sorpresa di vedere il suo eroe mentre intervista Radovan Karadžić o spara con un’arma automatica su Sarajevo assediata.

Anche ne Il Regno si avverte questa stessa dialettica di fascino e repulsione. Attrazione, da un lato, che lo porta ad immedesimarsi successivamente con tre figure – il Carrère cattolico degli anni Novanta, Paolo e Luca; ribrezzo, d’altra parte, per il fatto che, dopo duemila anni, ci siano ancora molte persone che «recitano il Credo, ogni frase del quale è un insulto alla ragione» (p. 14); imbarazzo, infine, per essere stato lui stesso un tempo cristiano. Un senso di vergogna aleggia sul libro, che richiama quello ne l’Avversario: anche qui il lavoro autobiografico va a scavare in zone oscure della memoria, in un territorio del rimosso il cui corrispettivo nella realtà è quello sgabuzzino «buio, molto buio» nel quale è stata relegata la ventina di quaderni che racchiude i commenti evangelici del Carrère credente – un ripostiglio che, significativamente, lui e sua moglie chiamano «la stanza di Jean-Claude Romand», perché lì è riposto anche il fascicolo istruttorio del suo processo.

«Chi può credere oggi che si possa ancora credere a una cosa simile?», si chiedeva Nietzsche a proposito del cristianesimo. È in primo luogo per rispondere a questa domanda che Carrère scrive Il Regno, cercando di capire così quello che lui stesso fu un tempo. Oltre a se stesso, nel libro Carrère segue anche le vicende di due figure di spicco del cristianesimo delle origini. Dapprima Paolo di Tarso, strana figura di esagitato e dissidente missionario – dal punto di vista della chiesa di Gerusalemme – che sosteneva di essere stato convertito per intervento diretto di Cristo. Carrère ci racconta questa conversione in chiave paranoico-dickiana:

Sulla strada di Damasco, Saulo aveva subito una mutazione: si era trasformato in Paolo, il suo opposto. Colui che era stato era diventato ai suoi occhi un mostro, inversamente, era diventato un mostro agli occhi di colui che era stato. […] Credo che un incubo dovesse visitare spesso le notti di Paolo. E se ridiventasse Saulo? E se, in modo tanto stupefacente e inatteso come era diventato Paolo, diventasse ora un altro da Paolo? E se quest’altro da Paolo, con il viso, la voce e la persuasione di Paulo, venisse un giorno a trovare i suoi discepoli per sottrarli a Cristo? (p. 266)

Nell’economia del libro, appare evidente come questo sdoppiamento rinvii ad un altro sdoppiamento, quello che divide il credente dal non credente in seno allo stesso Carrère. Nel caso di Luca, invece, l’immedesimazione opera ad un altro livello. Entrambi sono scrittori, per questo Carrère si sente vicino a Luca, non solo come “collega”, ma soprattutto perché vede somiglianze nel loro modo di lavorare. Nel Vangelo secondo Luca, questi sostiene infatti di aver condotto, riguardo alla vita di Gesù, «ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi» (Luca 1,3) – ossia di aver svolto quello che oggi considereremmo come un lavoro d’indagine. Per Carrère, il progetto di Luca assomiglia a quello di uno storico o di un reporter; e confrontando vari incipit di opere antiche, considera l’impostazione di Luca più simile a quella di Tucidide che a quella del Vangelo secondo Marco. Ma se l’opera di Luca è una sorta di inchiesta, il rapporto tra Luca e Carrère si configura come la mise en abîme di uno stesso gesto: con il secondo che si propone di indagare su quella che ha potuto essere l’indagine del primo.

C’è un dipinto di Rogier van der Weyden, che Carrère cita ne Il Regno, che rappresenta Luca intento a disegnare il ritratto della Vergine, come vorrebbe una certa tradizione medievale. La particolarità di questo dipinto sta nel fatto che van der Weyden, quasi sicuramente, ha prestato i propri tratti alla figura di Luca. Tutto ciò, ovviamente, non può che piacere molto a Carrère, anche perché, dettaglio non irrilevante, lui stesso compie un’operazione simile. Accingendomi a concludere questo articolo, mi accorgo che il portrait chinois di Carrère che inseguo già esiste e che questo ritratto composito scaturisce dai suoi libri sulle vite degli altri. Perché, in realtà, parlando e scrivendo degli altri, Carrère non cessa di scrivere su di sé. Perché in questo suo ritrarli minuziosamente, si celano i gesti con cui traccia il proprio autoritratto.

La scrittura autobiografica di Carrère non è solo dunque un’indagine, ma è anche un’operazione di costruzione di sé attraverso le vite degli altri. Man mano che queste vite vengono accumulate, con ogni nuovo libro e ogni nuova immedesimazione, questo sé cresce e si consolida il luogo da cui esso parla. Perché Carrère non scrive semplicemente su Dick, Luca, Romand o Limonov, ma immedesimandosi diventa anche un po’ loro. Altrettante vite vissute per empatia che vengono ad arricchire di nuovi strati un’identità, un soggetto in divenire. Penso a questo sé come a un luogo che esiste su un altro piano della realtà: un po’ come la dimensione di semi-vita dove sono intrappolati Joe Chip e i suoi amici, un po’ come quel misterioso Regno di cui tratta il libro di Carrère. Mi piace immaginare che – da qualche parte in quel luogo chiamato Emmanuel Carrère – Paolo, Luca, Dick, Romand e gli altri siano riuniti in un’agape, intenti a rinnovare quella comunione che li fa vivere e li confonde in un unico corpo fatto di scrittura.

Note

[1] Un ritratto cinese è un gioco letterario – simile a un famoso questionario di Proust – nel quale si tratta di rivelare alcuni aspetti della personalità di un individuo o di identificare igusti e le preferenze personali, solitamente attraverso un questionario basato sull’identificazione con certe persone, oggetti o altri elementi.

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