Immaginari giovanili e narrazioni mediatiche di mafia e antimafia

Pubblichiamo in anteprima un estratto dal volume “Vista dal Nord. Educazione antimafia e immaginario mafioso in Piemonte e Lombardia” curato da Ludovica Ioppolo, Francesca della Ratta-Rinaldi e Giuseppe Ricotta (Edizioni Gruppo Abele).

Il volume affronta in che modo le narrazioni che hanno per oggetto la «mafia» possano influenzare le rappresentazioni del fenomeno nell’immaginario giovanile.

La riflessione sull’immaginario mafioso e sulle rappresentazioni sociali delle mafie ha assunto negli ultimi tempi un’importanza sempre maggiore, restituendo nuova centralità alle dimensioni culturali e simboliche del fenomeno. L’indagine Vista dal Nord esplora le conoscenze e le rappresentazioni dei più giovani sulle mafie, per capire se e in che misura queste siano condizionate dalle narrazioni mediatiche, da un lato, e dalle attività pedagogico-educative svolte a scuola, dall’altro.[1]

Dal punto di vista delle rappresentazioni e dell’immaginario, oggi possiamo osservare che le tendenze tracciate qualche anno fa – articolate nel precedente volume Con i loro occhi – si sono ulteriormente accentuate e sviluppate: è quindi utile ripercorrerle, specificarle e aggiornarle. Innanzitutto, bisogna partire dalla (sempre crescente) sovraesposizione mediatica[2] – sia della mafia che dell’antimafia – con una sua precisa cadenza temporale.

Dopo il cono d’ombra tra il 1995 e il 2005, quando sembrava che l’Italia avesse archiviato e risolto il problema mafia, il 2006 può essere considerato l’anno di svolta in relazione a due eventi: da un lato, l’arresto eccellente e spettacolarizzato di Bernando Provenzano, il boss corleonese tra i principali responsabili delle stragi del ‘92 e ‘93 e latitante da 43 anni. Dall’altro, la pubblicazione di Gomorra di Roberto Saviano, che nel giro di pochi anni diventa un best seller a livello mondiale.

Negli anni successivi hanno forte eco mediatica la strage di Duisburg nel 2007 e il processo Spartacus a Napoli nel 2008 con le minacce in aula di tribunale a Roberto Saviano e alla giornalista Rosaria Capacchione.

Dal 2010, inoltre, una lunga sequela di indagini e processi hanno acceso i riflettori sulla presenza mafiosa (in particolare la ‘ndrangheta) nel Centro e Nord Italia: Crimine Infinito in Lombardia dal 2010, Minotauro dal 2011 in Piemonte, le indagini sulle infiltrazioni mafiose negli appalti per il Mose a Venezia dal 2013 e nei lavori per Expo a Milano dal 2014, fino alle più recenti inchieste Mondo di mezzo su “mafia capitale” a Roma, esplosa nel dicembre 2014, e Aemilia nel gennaio 2015 sull’Emilia Romagna.[3]

A questa nuova centralità mediatica si somma una consistente sovrapproduzione culturale in cui l’immaginario mafioso diventa brand su scala internazionale: fiction e film, libri e documentari, ma anche videogiochi e reality, magliette e gadget che usano le immagini più tradizionali e stereotipate di cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta come simboli del made in Italy di grande valore commerciale.[4] La mafia, insomma, va di moda.

Per fare l’esempio delle fiction, dopo l’ormai storica La Piovra, tra le fiction più note e seguite, in particolare dai più giovani, troviamo Il Capo dei capi, Romanzo criminale e Squadra antimafia, ma anche L’onore e il rispetto, Il peccato e la vergogna e Pupetta (Maresca).

Tutte, a partire dai titoli e dai personaggi, giocano sui presunti valori caratteristici delle mafie. Come la più recente Gomorra, girata nel quartiere di Scampia e ispirata all’omonimo romanzo, su cui si è acceso un interessante dibattito tra chi accusa gli autori di aver estromesso il “bene” dal racconto di un territorio e gli autori che invece rivendicano la scelta di rappresentare la camorra e le guerre tra clan nella forma più dura e negativa possibile.[5]

Sembra emergere una sorta di separatezza tra ciò che è mafia e ciò che non lo è: se da un lato questo tipo di lettura consente di vedere con maggiore nettezza i confini del fenomeno criminale, dall’altro può determinare un atteggiamento di estraniazione e, quindi, delega e auto-assoluzione.[6]

In generale, in tutte le forme possibili di produzione mediale e culturale, ci troviamo di fronte, nella maggior parte dei casi, a una narrazione fortemente stereotipata del fenomeno mafioso, in particolare intorno ad alcuni nodi critici.

La diffusione geografica e il binomio arcaico/moderno
Si alterna l’immagine tradizionale del mafioso con coppola e lupara e, quindi, della mafia come fenomeno legato all’arretratezza e al sottosviluppo del Sud Italia, con la rappresentazione della mafia come fenomeno moderno ormai legato in prevalenza a dinamiche finanziarie ed internazionali, quindi estremamente distanti dalla vita quotidiana di ciascun individuo.

Il confine legale/illegale

Mentre i confini tra economia legale e illegale diventano sempre più labili (come dimostrato – tra i tanti esempi possibili – dalle recenti indagini su mafia capitale), si continua invece a rappresentare le mafie come fenomeno esclusivamente criminale, da contrastare con i soli strumenti della repressione militare, in una prospettiva di delega pressoché totale a forze dell’ordine e magistratura e, al tempo stesso, di completa de-responsabilizzazione individuale.

Le ambivalenze classiche: bisogno e paura vs potere e denaro

Non passa mai di moda l’idea che le organizzazioni mafiose possano svolgere funzioni positive legate al mantenimento della sicurezza su un territorio e alla garanzia di lavoro e occupazione per le classi sociali svantaggiate.

Al tempo stesso, nella rappresentazione mediatica e socialmente diffusa del fenomeno non emergono quasi mai, da un lato, i legami tra mafia e poteri economico e politico e, dall’altro, il ruolo della cosiddetta zona grigia, ovvero quell’area di connivenza alimentata da colletti bianchi, professionisti, imprenditori, politici, che consentono di fatto la persistenza e la diffusione delle organizzazioni mafiose sul territorio.

Ma anche sul fronte antimafia ci si confronta con una narrazione altrettanto stereotipata – attorno ai filoni narrativi del genere poliziesco o degli eroi epici (i giornalisti, i magistrati, le donne, etc. a seconda della “moda” del momento) – e con una sorta di invisibilità delle piccole storie di antimafia quotidiana che lentamente cambiano dal basso il Paese.

Da un lato, possiamo leggere positivamente il ruolo dell’eroe antimafia nella storia recente italiana, in particolare con riferimento alle tante vittime innocenti: «Il racconto delle mafie, sviluppatosi dopo il 1992 […] ha impiegato questo patrimonio secolare per costruire intorno al “martire” dell’antimafia (ovvero le vittime innocenti delle mafie) un immaginario, una simbologia e una ritualità tese a conferire sacralità alla vittima inserendola nel tradizionale solco del culto per i defunti.

Sono diventati oggetti intangibili, di devozione e di dedizione collettiva, che rinnovano i valori delle libertà repubblicane in senso religioso senza porsi in antagonismo con il cattolicesimo, anzi umanizzandolo grazie al sacrificio esemplare di donne e uomini ribellatisi in nome del bene comune».[7]

Ma d’altro canto, bisogna saper riconoscere i rischi di una ormai diffusa retorica dell’eroismo: «lì nasce una rappresentazione del Bene, dell’Antimafia, come Eroe solitario in lotta con la Piovra. […] Ma il bisogno del capo, dell’uomo forte – che è in stretta relazione a sua volta con la debolezza della cultura democratica – si sposa a meraviglia con la deresponsabilizzazione del cittadino».[8]

La ricerca di Libera si colloca in un dibattito sempre più ampio e acceso sulle rappresentazioni della mafia e sulla ridefinizione della cultura antimafia: nel movimento antimafia si fa strada il tentativo di emanciparsi definitivamente dalla definizione in negativo – essere contro la mafia – per affermare una narrazione e una progettualità in positivo, ovvero di trasformazione e costruzione di una società alternativa al sistema mafioso.

La ricerca nasce dall’esigenza di interrogare e mettere in discussione l’efficacia dei percorsi educativi nelle scuole e, più in generale, nel movimento antimafia, a partire dalla consapevolezza dello svilimento della parola legalità e della sempre più diffusa retorica dell’antimafia.

Come già nelle edizioni precedenti, uno dei risultati più significativi e incoraggianti della ricerca è l’effetto positivo dell’educazione antimafia sulle conoscenze e gli atteggiamenti degli studenti.

Da un lato, le variabili strutturali condizionano ancora in maniera incisiva la consapevolezza dei giovani: gli studenti con livelli più elevati di conoscenza e partecipazione antimafia hanno un elevato capitale culturale e sono orientati politicamente, in particolare con il centro-sinistra.

D’altro canto, le variabili culturali considerate nella ricerca – l’informazione attraverso i media e l’educazione attraverso attività scolastiche – svolgono un ruolo positivo, a prescindere dalle caratteristiche di base degli studenti.

In particolare, l’educazione antimafia attraverso attività strutturate incide in maniera significativa – più di ogni altra variabile considerata – sia sulla conoscenza sia sulla partecipazione diretta degli studenti e tale effetto è più forte se la relazione educativa instaurata in classe determina un coinvolgimento effettivo degli studenti. Resta ancora molto da fare: in particolare emerge la necessità di affinare le proposte educative verso un approfondimento più accurato della memoria storica del movimento antimafia e, al tempo stesso, nei termini di una maggiore consapevolezza di cosa voglia dire essere autenticamente antimafia oggi nel Paese.

Note

[1] Il progetto di ricerca, avviato dal 2009 da Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie, è stato negli anni replicato in diverse regioni del Centro-Nord Italia (Toscana, Lazio, Liguria e Provincia di Trento). Le ultime regioni coinvolte – i cui risultati son qui discussi – sono il Piemonte, dove l’indagine è stata svolta nel 2013, e la Lombardia, nel 2014.

[2] Sull’esposizione mediatica del fenomeno mafioso si vedano A. La Spina, A. Dino, M. Santoro e R. Sciarrone  (2009) «L’analisi sociologica della mafia oggi», tavola rotonda in Rassegna Italiana di Sociologia, n. 2, aprile-giugno; U. Santino, 2011, Don Vito a Gomorra, Roma, Editori Riuniti; M. D’Amato (a cura di), 2013, La mafia allo specchio. La trasformazione mediatica del mafioso, Milano, Angeli.

[3] Sulla diffusione delle mafie al Nord, cfr. R. Sciarrone, 2014, Mafie del Nord. Strategie criminali e contesti locali, Roma, Donzelli. Su mafia capitale, cfr. G. Savatteri e F. Grignetti, 2015, Mafia capitale. L’atto di accusa della Procura di Roma, Milano, Melampo.

[4] Sul punto si veda L. Ioppolo, Mafie, fiction e menù internazionali: il potere dell’immaginario mafioso, su liberainformazione.org, 10 giugno 2013.

[5] Si vedano ad esempio M. Demarco, “Gomorra, un successo che cancella il bene”, in Corriere della Sera, del 5 giugno 2014; G. Bianconi, “Gomorra senza il bene. È la realtà nella guerra tra i clan”, in Corriere della Sera, del 7 giugno 2014; R. Saviano, “Perché sono tutti cattivi nella Gomorra che va in tv”, in Repubblica, del 10 giugno 2014.

[6] Per un esempio concreto degli effetti della fiction Gomorra sull’immaginario dei più giovani, cfr. A. Palladino, 2014, “Gomorra party: dalla serie tv alle discoteche di Fondi”, del 29 agosto, su liberainformazione.org.

[7] M. Ravveduto, La religione civile dell’antimafia, in «Reset», 20 novembre 2014.

[8] N. Dalla Chiesa, 2014, Manifesto dell’Antimafia, Torino, Einaudi, p. 53.

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