Recensione a “Il vampiro, il mostro, il folle: tre incontri con l’altro in Herzog, Lynch, Tarkovskij” di Paolo Lago.

Mi piacerebbe molto scrivere la storia dei vinti.
È un bel sogno, condiviso da molti: dare finalmente la parola a coloro che sono stati costretti al silenzio dalla storia,
dalla violenza della storia, da tutti i sistemi di dominio e di sfruttamento. (Michel Foucault, intervista a Literaturmagazine, 1977)
La questione dell’“altro” è all’ordine del giorno, anche se spesso sottaciuta o non riconosciuta come tale. Nato come “oggetto” sfruttabile e utilizzabile, l’“altro” è oggi, in tempi di crisi capitalistica, soprattutto un fastidioso ingombro, il nemico tout court, un “competitor” da mettere a lato – a meno che non torni ancora utile per qualcosa –, oppure in qualche modo da eliminare direttamente. Paolo Lago affronta questo tema in un agile quanto intenso libro dal titolo Il vampiro, il mostro,il folle: tre incontri con l’altro in Herzog, Lynch, Tarkovskij, edito nel maggio 2019 dalla casa editrice Clinamen. A questo proposito, il testo analizza tre importanti film diretti dai registi sopra citati. Per Herzog la scelta cade sul celeberrimo Nosferatu, il principe della notte, per Lynch sull’altrettanto noto The Elephant Man, infine per Tarkovskij il prescelto è Nostalghia.
Nel film di Herzog, l’“altro”, come si intuisce, viene identificato con il vampiro. Il Dracula di Herzog, così come quello di Stoker, «rappresenta l’alterità assoluta: un essere dalle connotazioni mostruose e demoniche, spinto da una smania di distruzione ma contemporaneamente mosso dal desiderio di partecipare dell’amore che lega tra loro gli esseri umani, amore che gli è inesorabilmente negato» (p.13). Questo amore, che lega – o dovrebbe farlo – fra loro gli esseri umani, sembra essere ciò a cui anela il mostro Dracula, e l’impossibilità di raggiungerlo scatena in lui la follia sanguinaria di cui si fa portatore. La società che glielo nega e fa di lui un escluso, sarà l’obbiettivo della sua volontà distruttiva.
Il film descrive un “viaggio” dell’uomo “civilizzato” verso l’altro, verso il diverso. Questo viaggio, tuttavia, non è motivato dal desiderio dell’incontro con l’altro ma, in piena coerenza con lo spirito dei tempi, da esigenze commerciali. D’altronde, lo scenario stesso da cui parte tutta l’operazione ha queste caratteristiche: la linda e onesta cittadina della Germania del nord in cui vive il protagonista, Jonathan Harker, è intrisa di «una logica mercantile e imprenditoriale che sembra regnare in ogni dove» (p.18). Tuttavia, questo viaggio non sarà così piacevole e sicuro come abitualmente accade. Già la meta dai contorni oscuri a cui è destinato, la Transilvania, ha connotazioni decisamente perturbanti. Date queste premesse, l’incontro con l’“altro” si preannuncia “terribile”, e così effettivamente sarà.
Dracula appare, sin dalle prime battute, inquietante, avvolto da una semi-oscurità che sembra far parte di lui ancor più che dell’ambiente in penombra che lo circonda. Siamo decisamente in uno spazio “altro”, che per il viaggiatore occidentale risulta ostico e difficile da comprendere. La sua razionalità vacilla, e un po’ alla volta viene introdotto, quasi a sua insaputa, in questo mondo dell’“altro”. Questo “spazio altro” finirà per invadere quello della normalità borghese e industriosa. Il vampiro partirà all’attacco della città, portando con sé, in modo quasi didascalico, la propria bara. Infatti egli «è anche portatore di un sovvertimento dell’ordine costituito di tipo carnevalesco e teatrale. La contaminazione della peste, che egli porta con sé, […] instaura negli abitanti della città sfrenatezza, anche di tipo sessuale, disinibizione, rifiuto di qualsivoglia regola sociale» (pp.35-36).
Il vampiro, “macchina da guerra nomadica” – per usare una terminologia deleuze-guattariana -, porta così il suo attacco all’«occidente razionalistico e illuminato». (p.40) Per riprendere l’esergo di Foucault, il “vinto” questa volta riprende la parola devastando la “civiltà” che lo esclude e fa di lui un reietto.

The Elephant Man, di David Lynch, è il secondo film preso in esame. Qui l’“altro” non è un temibile, vendicativo e indefinito personaggio, ma un uomo dolce e indifeso, John Merrick, che a causa di un incidente, per colpa di un gruppo di elefanti, subìto dalla madre quando era incinta di lui, assume sembianze mostruose, che ricordano appunto quelle di un elefante. Il nostro protagonista si trova al servizio di un perfido e inquietante personaggio che gestisce un baraccone da fiera dove lo esibisce come freak, come mostro da spettacolo.
Interessante è osservare come questo “mostro”, contrariamente al terribile e ribelle Dracula, sia immediatamente interno a questo contesto, non provenga cioè da fuori e da terre lontane e “perturbanti”, ma sia già presente e, diciamo così, “riconosciuto” dal mondo borghese, sia pure appunto come mostro. John Merrick rappresenta dunque il “diverso”, l’“altro” che è qui, che abbiamo in casa, e in questo senso una figura molto attuale e quotidiana.
Come per Dracula, invece, la storia si svolge nel pieno maturare della modernità, quando il lavoro industriale e le macchine cominciano a farla veramente da padrone e tutto ciò che rappresenta la vecchia civiltà contadina e artigiana viene messo da parte. Il dott.Treves, che è il personaggio che cerca di aiutarlo, è anch’egli, a suo modo, un “prodotto” di questo sistema sociale nel momento del suo radicamento più profondo. Nonostante la sua bontà, non ne rappresenta, infatti, una vera alternativa, ma il suo versante politically correct, una specie di “welfare” esistenziale che, in fondo, rende questo mondo più accettabile.
I luoghi per eccellenza deputati al “recupero” del diverso alla ragione borghese, rispetto alla quale egli di fatto è alieno, sono quelli definiti “istituzioni totali”. L’ospedale è quello in cui viene rinchiuso il nostro “anormale”. Qui viene “sottoposto allo sguardo ‘medicalizzante’ della medicina, una scienza che incasella e inquadra, che imprigiona in referti e diagnosi. Su di esso si dispiega inoltre la parola del medico, la quale attraversa il corpo del paziente come uno strumento meccanico, come il bisturi del chirurgo”. (VMF, p.66) Qui «l’Altro è chiamato a “normalizzare” la propria vita» (p.67). Ma «egli è corpo animalesco che arranca nello spazio borghese» (p.67). In definitiva, John Merrick può essere accettato “soltanto all’interno di una dimensione finta, “teatrale”, mascherata” (p.69). L’uomo elefante continua ad essere uno “straniero interno”, e non potrebbe essere diversamente, poiché il contesto che ora sembra “accoglierlo” non è cambiato di una virgola e i “figuranti” di questa farsa sono ancora una volta le “maschere di carattere” di quel mondo orribile e criminale così ben descritto da Marx.
La fine tragica e insieme triste dell’uomo elefante sarà il modo in cui questo “vinto” riprenderà la parola, sottraendosi ad un mondo al quale non appartiene e rispetto al quale mantiene una irriducibile diversità.

Infine, il terzo film oggetto della disamina, Nostalghia di Andrej Tarkovskij, ci mostra un “altro” di diverso tipo, in qualche modo però complementare agli altri due. Qui il protagonista, insieme allo scrittore e poeta russo Andrej Gorčakov, è il “folle” Domenico. I due personaggi quasi si confondono, entrambi estranei nel proprio mondo, entrambi “esiliati”, entrambi – potremmo dire – “nostalgici”.
Entra qui in gioco quello che può essere definito il “diverso” paradigmatico, l’“altro” per eccellenza: il folle, il portatore di “insanità” rispetto al normale incedere degli eventi, il “destabilizzatore” di abitudini e certezze. Il (o la) folle gioca contro l’univocità, spezza il dominio della “normalità” e la costringe, in un certo senso, a guardarsi allo specchio. Il (o la) folle è il dolore e la gioia, l’avvilimento e l’entusiasmo che i “normali” non sanno più provare. È colui (o colei) che osa, che sfida, che vede oltre la cortina di fumo e indica una strada. Che “sragiona” a fronte di una Ragione che si pretende illuminata e normativa.
Entrambi, Domenico e Gorčakov, sono due esiliati, il primo in patria – uscito da poco dal manicomio grazie alla legge Basaglia – il secondo fuori patria. Domenico, l’“asociale” per eccellenza, e il poeta russo, anch’egli a suo modo asociale, vengono percepiti dagli altri come “estranei”, e questo li avvicina e affratella. Ma entrambi ambiscono in realtà ad una unità più profonda, di tipo spirituale e più vicina all’essere umano. Questo non sarà possibile per Domenico, sempre fermato da quella “normalità” che per di più lo fa perché, paradossalmente, vuole pure prendersi cura di lui, ma lo sarà infine per Gorčakov che, portando a compimento il sogno dell’“amico pazzo” porterà a compimento anche l’“identificazione” con lui assumendone lucidamente le istanze.
La “voce” di Domenico, tuttavia, non resterà muta, e si farà nuovamente sentire in un disperato gesto finale quando, recatosi a Roma, improvvisa un comizio nella centrale piazza del Campidoglio dove, di fronte a un pubblico di “matti” come lui, arringa la folla contro la presunta “sanità” del mondo normale, per poi alla fine darsi fuoco e portare a termine la sua vita nel modo, forse, ad essa più consono.
I “vinti” (gli “altri”) riprendono dunque in questi film e nell’esegesi che ne fa Paolo Lago, ognuno a loro modo, la parola. Ma, fuor di metafora e al di là di ogni suggestione letteraria, è bene qui aggiungere una importante glossa, che Foucault stesso ci aiuta a mettere a fuoco. Nell’intervista posta in esergo, dove parla del sogno di ridare la parola ai sottomessi, ai vinti, agli sconfitti etc., subito dopo aggiunge, problematizzando la questione:
Innanzitutto i vinti … sono per definizione coloro a cui è stata tolta la parola! E se, ciò nonostante, essi parlassero, non parlerebbero la loro lingua. A loro è stata imposta una lingua straniera. Essi non sono muti. Non parlano [però] una lingua cui non si sarebbe dato ascolto e che ora ci si sentirebbe obbligati ad ascoltare. Proprio perché sono stati sottoposti ad un dominio, ad essi sono stati imposti una lingua e dei concetti. E le idee che in tal modo sono state loro imposte, sono le cicatrici dell’oppressione alla quale sono stati sottomessi. Cicatrici, tracce che hanno permeato il loro pensiero. Direi persino che hanno permeato le loro attitudini corporee. È mai esistita la lingua dei vinti?.
Un problema non di poco conto, che richiama quello dell’immaginario e della capacità di pensare (e “progettare”) un mondo altro dove non solo l’“altro” (i “vinti” nel senso foucaltiano) ritrovi spazio e dignità, ma dove proprio sia impossibile l’emersione di un concetto che separa e classifica tra ciò che viene prima e ciò che viene dopo, fra il “soggetto” dominatore e l’“altro” da esso, fra primo e secondo o terzo mondo, fra “normale” e “anormale” e via dicendo. Un compito non da poco, che presuppone una critica molto profonda all’intero assetto sociale e ai suoi paradigmi fondanti, sia in senso materiale che psicologico e culturale. Un compito però non più rimandabile, affinché sia possibile uscire dalla concezione di “altro” come estraneo, non però in favore di una piatta uniformità, ma verso la liberazione della ricchezza delle diversità. Il libro di Paolo Lago ci aiuta, in questo senso, a penetrarne alcuni aspetti decisivi e a tonificare il nostro esangue immaginario.