Intervista a Tim Ingold.
Se chiedessimo a Tim Ingold chi scolpisca cosa, tra uno scalpellino e la sua pietra, la risposta non sarebbe scontata: con molta probabilità direbbe che l’artista solitario trainato dal proprio genio creativo non esiste, e che la pietra, dal canto suo, contribuirebbe per buona parte alla riuscita dell’impresa. Nella concezione di Ingold, infatti, non esiste opera che non abbia partecipato attivamente al proprio processo di modellazione. La ricerca antropologica di Ingold, spostando l’attenzione dal soggetto all’oggetto e ragionando sul ruolo che il materiale stesso ricopre nel processo di creazione di un manufatto o di un’opera d’arte, tenta un definitivo abbattimento dei confini tra il pensare (fase progettuale) e il fare (fase di realizzazione).
In Making (Raffaello Cortina, 2019), saggio creato a partire dalle lezioni universitarie, espone il fulcro del suo pensiero mettendo insieme discipline tradizionalmente tenute separate, sebbene affini, con l’intento di formulare un’antropologia che non si limiti allo studio di specifici contesti sociali, ma che sia aperta alla comprensione e alla compartecipazione delle più diverse manifestazioni umane. Riprendendo il concetto di ecologia introdotto da Gregory Bateson, Ingold elabora un pensiero che si poggia sulla nozione di ecologia della cultura, attraverso la quale un sistema culturale è concepito come una rete di elementi che convivono e dialogano tra loro: obiettivo realizzabile a patto che si sciolgano le contrapposizioni tra saperi umanistici e saperi tecnico-scientifici, rendendo finalmente possibile la fusione tra arte e scienza e la prospettiva di un patrimonio di conoscenze condiviso.
Quale esigenza spinge a mettere insieme discipline quali antropologia, archeologia, arte e architettura in un unico campo di indagine e a imbastire un discorso che li vede strettamente collegati?
Ci sono tre motivi, in realtà. Prima di tutto ero diventato incredibilmente insofferente al modo in cui la disciplina di cui mi occupo, l’antropologia, approccia l’arte e l’architettura in quanto oggetti di studio: è come se l’arte dovesse consistere unicamente nelle opere d’arte, e l’architettura solamente nelle costruzioni. Una concezione secondo la quale, a posteriori, entra in gioco l’antropologo che le analizza e ne interpreta i significati, collocando ogni fenomeno nei rispettivi contesti sociali e culturali di uso e appartenenza. Ma tutto ciò finisce per neutralizzare la forza insita nel lavoro stesso e la vita che è confluita in esso – la vita che grida di essere ascoltata. Ero alla ricerca di una antropologia che si rendesse compartecipe del lavoro di arte e architettura, che le affiancasse, piuttosto che fare di queste materia di studio. E l’archeologia? Ho sempre pensato che archeologia e antropologia fossero discipline affini, compagne di viaggio, accomunate dallo stesso interesse per il tempo e il territorio. Ma ribadisco: cercavo un’antropologia con, e non dell‘arte e architettura.
In secondo luogo, ho reputato importante distinguere l’antropologia dall’etnografia. L’obiettivo di quest’ultima è di descrivere la vita delle persone, ovunque esse si trovino e in qualsiasi momento storico, con profondità e sensibilità. L’antropologia, invece, per come la concepisco io, ha una finalità diversa: investigare, più che descrivere, le condizioni e le possibilità della vita umana in questo nostro mondo. Come tale, l’antropologia è allo stesso tempo sperimentale e speculativa. Sperimentale perché è interessata ai modi di vivere, e ogni modo è – per natura – un esperimento collettivo del vivere. Ed è speculativa perché interessata alle possibilità del futuro così come alle condizioni del passato. Lo stesso vale per quel tipo di archeologia aperta allo studio delle condizioni di vita umana, che non punti cioè a una mera ricostruzione di specifiche culture e fasi storiche. Arte e architettura, quindi, come pare evidente, sono speculative e sperimentali per loro stessa natura. Questi, per farla breve, sono i motivi che mi hanno spinto a tenere insieme ben quattro discipline.
Tentavo, in definitiva, di dare una risposta a una serie di domande strettamente collegate – riguardanti il design, il costruire, i materiali, la forma e la funzione, i gesti e i movimenti, i sensi nella percezione, i mestieri e le abilità manuali, le linee, il disegno, la numerazione – nelle quali antropologia, archeologia, arte e architettura sembravano ugualmente coinvolte.
Mi sembra di capire che nei laboratori manuali che offre ai suoi studenti, nei quali vengono insegnate nozioni base di artigianato e manifattura, il suo obiettivo sia quello di focalizzare l’attenzione sul rapporto tra uomini e cose, nel tentativo di colmare il gap concettuale ancora esistente tra natura e cultura e di mettere in risalto l’importanza che le abilità creative assumono in quanto strumenti di ricognizione della propria identità. È così?
Il mio scopo, in verità, era quello di esplorare la relazione tra persone e materiali, ancora una volta enfatizzando il processo di adesione tra le parti, di una convivenza tra i due. A ben vedere è tutta una questione di mani e materiali che lavorano insieme influenzandosi l’un l’altro, in un rapporto di scambio reciproco. Questo è ciò che chiamo “corrispondenza”. Le forme che noi creiamo sono generate dentro e attraverso questa corrispondenza. Ho chiesto agli studenti di riflettere sulle differenze che questa comporta, cioè se pensiamo alle cose come oggetti o come materiali. Un oggetto è quello che è, ovvero quello che appare. Ma appena lo pensiamo in quanto materiale, esso acquisisce la capacità di poter diventare qualcos’altro. È una trasformazione dall’essere al divenire. Questo è il punto nodale, quello che ho cercato di far capire agli studenti. Inoltre ho tentato di mettere in luce la creatività intrinseca al divenire delle cose, invitando gli studenti a partecipare di essa o meglio a immergersi in essa, mettendola però in contrapposizione a quel tipo di creatività – spesso confusa con “innovazione” – che viene da una lettura all’indietro, che partendo cioè dallo studio delle forme finite vuol risalire alle idee prime nella mente del creatore, il quale, presumibilmente in forma autonoma, cioè avulso da fattori esterni, le avrebbe generate. Se poi estendiamo questo approccio pensando all’ambiente in generale, allora anche questo deve essere visto come un insieme di materiali in divenire, piuttosto che come una mera aggregazione di oggetti. In questo senso è sempre un work in progress, un processo mai completo.
Che cosa intende per cultura come pratica ecologica?
Come molti antropologi dei nostri giorni, sono molto diffidente nei confronti del concetto di cultura. Personalmente concepisco la vita più come una conversazione tra voci diverse, ognuna delle quali improvvisa una risposta a tutte le altre. Cultura, se qualcosa è, dovrebbe consistere nei temi ricorrenti della conversazione – temi sui quali ruota o continua a tornare. Dovremmo pensare alle pratiche umane – ossia a ciò che le persone fanno o dicono – allo stesso modo, come voci. Potrebbe definirsi questa una ecologia delle pratiche, poiché ognuno sta entrando in un campo di relazioni che include tutte le altre. La creatività, quindi, è inerente al potenziale demiurgico dell’intero gruppo o campo d’azione, non è una facoltà intrinseca al singolo partecipante.
Nelle prime pagine del libro, quasi a voler mettere in chiaro fin da subito la questione, afferma che compito dell’antropologia è di «aprire spazi per un’indagine generosa, aperta, comparativa eppure critica sulle condizioni e sulle possibilità della vita umana». In questo senso, a che punto è l’antropologia oggi? Quanto è importante, nel processo di comprensione del mondo, ciò che lei chiama arte di investigare?
Lo stato attuale dell’antropologia, oggi, è molto incerto. Come disciplina, è ancora abitata dallo spettro delle sue origini coloniali e cerca di venire a patti con ciò che significa trattare le altre persone come individui aventi conoscenza e saggezza dalle quali possiamo imparare, piuttosto che trattarle come materiale di studio e analisi. La sfida dello studioso è quella di prendere gli altri seriamente – così come seriamente prende i suoi insegnanti o colleghi universitari. Questo, per me, è ciò che contraddistingue l’antropologia. Non è l’unica disciplina a portare avanti un’analisi approfondita sulle popolazioni, ma è l’unica a trattare queste persone equamente, ovvero come partecipanti a un dialogo che coinvolge tutti. Questo è il motivo per il quale credo che l’antropologia sia così necessaria, ai giorni nostri. Col mondo sul filo del rasoio e con così tanta incertezza nelle nostre vite, non possiamo permetterci di ignorare coloro che hanno conoscenze da condividere, o di trattare una cultura diversa dalla nostra come fosse di minor valore. È stupidità pura, peraltro, supporre di conoscerla a priori, e quindi trattarla con sufficienza.
Questo aspetto, per me, è ciò che rende l’indagine antropologica qualcosa di simile all’arte; e questo perché prendo l’arte, allo stesso modo dell’antropologia, come un sistema aperto, senza confini. L’arte dell’indagine consiste nel porsi in ascolto delle persone e delle cose che ci circondano. Facendo questo, l’oggettività scivola in secondo piano all’interno della pratica dell’osservazione, e la scienza diventa arte.
Nei suoi scritti si guarda all’architettura, prima ancora che nei suoi aspetti progettuali, come a una pratica sociale e culturale, ovvero come a un fenomeno innanzitutto antropologico. In che modo questa disciplina si relaziona con l’arte e la società? Considerando l’attuale emergenza sanitaria, come va ripensato l’abitare, oggi? Crede che sia necessario riformulare i nostri stili di vita?
L’architettura, per come la concepisco io, è ciò che gli architetti fanno. È una disciplina. E l’arte è ciò che gli artisti fanno. Però non vedo un punto preciso in cui l’architettura finisce e l’arte inizia, o viceversa. L’obiettivo di entrambi è quello di aprire continuamente lo spazio delle possibilità, e nel farlo, sfidare i poteri – economici e politici – che sembrano intenzionati a sopprimerle. Credo che arte e architettura non possano essere considerate delle entità monolitiche, né può la “società” essere considerata tale, per lo stesso motivo. Quindi piuttosto che parlare della relazione di arte e architettura con la società, preferisco pensare che l’artistico e l’architettonico vivono come nutrimento all’interno di una conversazione in corso che è la vita sociale nel complesso.
Chi può sapere, poi, in che modo questa vita sociale emergerà dalla scia dell’attuale crisi sanitaria? Anche prima della crisi il mondo stava accelerando verso il baratro, senza che ci fosse una vera comunione d’intenti, una coalizione planetaria capace di arginarla. Siamo molto distanti dalla cosiddetta “vita normale”. Ma questo microscopico virus, con la forza di uccidere con numeri così alti, ha improvvisamente portato questa accelerazione a una brusca battuta d’arresto. E questo potrebbe addirittura salvarci, anche se ad un costo terribile per la vita umana. Almeno adesso abbiamo la possibilità di cambiare direzione. Nei paesi ricchi, molte persone stanno realizzando che molto di ciò che possiedono potrebbe tranquillamente essere eliminato. Possiamo comprare meno, consumare meno beni di lusso, volare meno, guidare meno, godere di aria più pulita, fare attenzione ai nostri più immediati dintorni, prenderci maggiormente cura degli altri, trascorrere più tempo a casa.
Tutto questo sarebbe davvero necessario, ma non è ancora abbastanza. Il problema è che le scelte di questo stile di vita non sono davvero delle opzioni per chi possiede meno, per chi ha bisogno di un lavoro, di un alloggio e di misure di sicurezza per cavarsela. Il problema di fondo, evidenziato in maniera palese dalla pandemia, è nella disuguaglianza, sia dentro che tra le nazioni. Anche prima dell’emergenza sanitaria sapevamo quanto la situazione fosse insostenibile. Risolverla richiede molto più di una semplice trasformazione nelle abitudini dei consumatori. Quello a cui stiamo assistendo è il collasso del neoliberismo globale e con esso la mancanza di qualcosa che prenda il suo posto. Temo che vedremo molti sconvolgimenti ancora, che potrebbero rivelarsi davvero terribili. Tuttavia c’è la speranza che a questi possano seguire cambiamenti radicali, quel genere di trasformazioni che abbiamo visto, ad esempio, dopo la seconda guerra mondiale, con l’istituzione del welfare state e dell’assistenza sanitaria universale. Possiamo sperare, nei prossimi anni, in un consenso generale post-pandemico in questo senso. Ovviamente non sarà lo stesso del dopoguerra, dal momento che viviamo in tempi molto diversi. Questa situazione potrebbe però portare a costituire governi vincolati al rispetto del diritto alla salute dei propri cittadini e a instaurare politiche che antepongano la responsabilità collettiva e il bene comune alle speculazioni e agli interessi privati.