Sul finire degli anni Ottanta capitava di accompagnare mia madre abbascio i prefabbricati, dove si trovavano le casette emergenziali – i prefabbricati, appunto – che ospitavano delle famiglie assistite dopo il terremoto del 23 novembre 1980 che aveva colpito l’Irpinia, compreso Monteforte Irpino, dove sono cresciuto.
In uno di questi prefabbricati gialli o marrone, attaccati l’uno all’altro, pressoché uguali nella metratura limitata e nell’organizzazione spartana degli spazi, abitava una signora dalla vita molto sfortunata, costretta a letto in maniera permanente. Ogni tanto le si portava la spesa o si chiacchierava con lei. Non credo andassi sempre con piacere: d’estate il caldo era opprimente, d’inverno faceva molto freddo.

Nati per avere una funzione temporanea in attesa di una sistemazione permanente per le persone assistite, nel corso degli anni i prefabbricati si sono invece cristallizzati in maniera definitiva mentre il paesaggio intorno affrontava il passaggio radicale da rurale a peri-urbano. La campagna diventava mattone; le carte del Comune progettavano i cambi di destinazione d’uso del suolo. Si occupavano aree vincolate; nascevano palazzine e villette, presto divenute rendite svalutate ed ereditate da chi era emigrato in cerca di fortuna in Altitalia o all’estero. Solo dopo circa quindici anni i prefabbricati iniziavano a essere smantellati: qualcuno ha avuto una nuova abitazione, qualcuno si é trasferito o morto.
Racconti post-sismici
Tantissime sono le storie come queste nelle aree post-sismiche. Ben raccontata la loro quotidianità ne I terremotati (Manifestolibri, 2009) di Giovanni Iozzoli e i loro significati dal giornalista Giulio D’Andrea, i prefabbricati del post-terremoto 1980 si ritrovano ancora in vari comuni d’Irpinia, talvolta abitati in condizione di disagio e marginalità. I prefabbricati sono diventati il filo conduttore del paradosso (e dei problemi) delle ricostruzioni post-disastro italiane degli ultimi anni: il temporaneo che diventa permanente.
All’Aquila e negli altri centri abruzzesi colpiti dal terremoto del 2009, la strategia dell’accoglienza temporanea della popolazione sfollata era rappresentata dai 19 edifici del Progetto CASE (Complessi Abitativi Sostenibili Eco-Compatibili) e da migliaia di MAP (Moduli Abitativi Provvisori). Il Progetto CASE nacque come una serie di 19 edifici con piattaforme antisismiche in cemento armato, atti a ospitare temporaneamente circa 15.000 persone ma comunque integrati nelle varie frazioni aquilane in maniera permanente. Realizzato con grande fretta – tanto da venire approvato appena 22 giorni dopo la scossa del 6 aprile – il Progetto CASE «ha sparpagliato il tessuto sociale senza criterio, facendo perdere agli sfollati ogni senso di riferimento, già messo a dura prova dal trauma del terremoto», come affermato dalla counselor Giulia Scandolara.
Migliaia di MAP sono stati invece installati sul territorio in deroga alle normative di pianificazione, in virtú del regime emergenziale nelle aree colpite dal sisma. Secondo Alessandro Chiappanuvoli, giornalista e autore di Sopra e sotto la polvere. Tutte le tracce del terremoto (effequ, 2018), sia gli edifici del Progetto CASE che i MAP hanno rilevato una serie di problemi strutturali e ambientali, inclusi «umidità, infiltrazione d’acqua piovana, rottura delle condutture per il gelo, difetti della mobilia, cedimenti di solai, vizi strutturali che hanno condotto le autorità competenti, in certi casi, a sequestrare gli immobili».

Nell’Appennino centrale colpito dai terremoti del 2016 e 2017, l’assistenza temporanea prevedeva la fornitura di casette emergenziali, definite SAE (Soluzioni Abitative Emergenziali). Il collettivo Emidio di Treviri, nel suo libro-inchiesta Sul fronte del sisma. Un’inchiesta militante sul post-terremoto dell’Appennino centrale (2016-2017) (DeriveApprodi, 2018), dimostra come la fornitura delle SAE sia stata gestita attraverso un processo farraginoso e parziale che ha causato lunghi ritardi nella consegna delle abitazioni e non ha tenuto conto delle necessità sociali (individuali e collettive) e territoriali.
Lo scorso anno abbiamo inoltre dimostrato sulla rivista Italian Journal of Planning Practice come le SAE presentassero problematiche in relazione alla scelta del sito di installazione, all’uso dei materiali, alle dimensioni degli ambienti che talvolta non si confacevano alle esigenze delle persone assistite. Sono passati oltre quattro anni dalla prima scossa di Amatrice del 24 agosto 2016, e ci si chiede per quanto tempo le SAE permarranno nelle aree colpite.
Insomma, l’utilizzo di soluzioni permanentemente temporanee nel post-disastro si é rivelato problematico per le aree colpite, tanto da rientrare a pieno titolo nello squarcio sociale, politico, economico e culturale generato dalle ricostruzioni italiane. Allo stesso modo la desertificazione demografica, il cambiamento di uso del suolo, l’acquisizione di potere della piccola borghesia imprenditoriale e la rilocalizzazione di interi paesi sono alcune tra le caratteristiche peculiari della ricostruzione in Irpinia che si ritrovano rimodulate anche nel lungo periodo di altri contesti post-disastro.

Per esempio, il sociologo Pietro Saitta in Quota Zero. Messina dopo il terremoto: la ricostruzione infinita (Donzelli, 2013) esplora le profonde trasformazioni nella struttura urbana e sociale di Messina occorse con la ricostruzione dopo il tremendo terremoto (e tsunami) del 1908, e le considera come causa primigenia per la creazione di una parte di popolazione oggi subalterna rispetto al resto della città e marginale nella comunità messinese. Queste trasformazioni, e le conseguenti subalternità, sono visibili ancora oggi dopo oltre un secolo in un’organizzazione sociale pressoché immutata che riproduce le disuguaglianze tra dominanti e dominati.
La ricostruzione dopo la tragedia del Vajont del 1963 ha mutato in maniera radicale quell’area di confine tra Friuli e Veneto. Ha ricostruito –spersonificandoli- i luoghi originari secondo nuove logiche di pianificazione, infrastrutturazione e industrializzazione, ha accelerato lo spopolamento dei piccoli comuni friulani di Erto e Casso – i primi a essere colpiti delle acque del bacino artificiale dopo la frana del monte Toc – e ha creato nuovi insediamenti in seguito alla delocalizzazione di parte della popolazione (come la creazione del nuovo comune di Vajont in Friuli). Sopra Longarone, a monte della forra, resta a memoria dell’evento la grande diga ormai inutilizzata. Per dirla con lo storico Maurizio Reberschak, autore de Il Grande Vajont (Cierre edizioni, 2008) «l’impronta della cicatrice rimane per sempre».
La ricostruzione dopo il terremoto del Belice (1968) – come raccontato dallo storico dell’ambiente Giacomo Parrinello in Fault lines. Earthquakes and Urbanism in Modern Italy (Berghahn, 2015) – si prefissava obiettivi di modernizzazione per un’area ritenuta “arretrata”, optando per l’abbandono delle aree colpite e la loro delocalizzazione con l’idea di costruire moderne new town autonome sia dal punto di vista economico che delle funzioni urbane. Non si ottennero tuttavia i risultati attesi: i preesistenti flussi di emigrazione non diminuirono, la qualità della vita di molte persone non migliorò sostanzialmente, e crebbe il distacco tra le politiche di sviluppo calate dall’alto e le istanze locali.

Riflettere sul “collasso del quotidiano”
Insomma, le tracce della ricostruzione restano sul territorio, mentre noi continuiamo a dare per scontato che un disastro debba accadere e tendiamo a normalizzare il fatto che dopo di esso ci sia la ricostruzione e in qualche modo si debba ripartire. Tuttavia é oggi piú che mai necessario riflettere sulle ragioni per le quali un evento naturale come un terremoto (o un’alluvione, o qualsiasi altro evento) abbia conseguenze tanto gravi e lungamente protratte nel tempo. Spesso infatti dimentichiamo che, mentre le nostre capacità e possibilità di controllo e previsione degli eventi naturali siano allo stato attuale della conoscenza molto basse, le loro conseguenze dirette -i disastri- non accadono invece per caso.
I disastri risultano infatti da quello che l’antropologo Giovanni Gugg definisce collasso del quotidiano, quell’insieme di storture del sistema sociale, politico ed economico che si innervano nelle strutture fondanti del nostro quotidiano nel punto di connessione fra società, tecnologia e ambiente. Macro-categorie di ampio respiro e lungo termine quali la cattiva pianificazione, lo sfruttamento dell’ambiente, la corruzione, lo sviluppo e il mantenimento delle disuguaglianze convergono dal privato della singola abitazione fino ai grandi sistemi nazionali e globali nell’abuso del territorio e delle risorse naturali, nelle diverse forme di inquinamento, nella creazione di vulnerabilità e marginalizzazione di gruppi di persone (migranti, disabili, minoranze etniche e religione) a cui non vengono fornite risorse e opportunità.
Quando queste macro-categorie interagiscono con un evento naturale provocano un disastro, le vittime, la distruzione, la ricostruzione e i suoi problemi. Il disastro dunque non é un evento eccezionale o inatteso, ma il punto di collasso delle nostre vite che chiama in causa la nostra azione o inazione, l’organizzazione dei nostri insediamenti, le prassi quotidiane delle nostre relazioni sociali, della politica e dell’economia.
Evitare questo collasso è possibile, in primis raccontandolo. Seppur distratti, stanchi e frustrati dalla pandemia e dalle sue ultime recrudescenze, il quarantennale del terremoto tra pochi giorni puó essere l’occasione per contestualizzare i quarant’anni alle nostre spalle nel presente d’Irpinia e tracciare linee utili per il futuro. Occorre restituire un’immagine non semplificata e piú complessa dell’Irpinia e dei suoi tanti territori, che dai confini con la Daunia agli ultimi lembi vesuviani non hanno sofferto soltanto le conseguenze dei terremoti, ma anche quelle di frane e colate di fango, alluvioni, nevicate, prolungate onde di calore e degradamento dei suoli, inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo, cambiamento climatico e pandemie.

Le ferite aperte, per nuove narrative
La colate di fango di Quindici (e di Sarno e Bracigliano) del 1998 sono ancora dopo tanti anni ferite aperte e inferte alla nostra memoria; insieme alle alluvioni di poche settimane fa (che hanno colpito in maniera abbastanza severa proprio Monteforte) ci ricordano l’importanza e l’urgenza di interventi di mitigazione strutturali e non strutturali per la riduzione del rischio idraulico. Le nevicate del 2012 che costrinsero all’isolamento intere frazioni in Alta Irpinia (come Bisaccia, Zungoli, Frigento) e misero in difficoltà le amministrazioni comunali e il sistema dei soccorsi sottolineano la necessità di preparazione e coordinamento tra enti differenti e istituzioni di governo.
L’omogeneizzazione del paesaggio negli ultimi 30 anni con l’eolico selvaggio compromette le caratteristiche naturali e territoriali dei luoghi e le loro relazioni con le comunità locali, favorendo gli interessi della malavita e della corruzione. Tutto questo ci ricorda quanto sia necessario che la politica locale resti impermeabile agli interessi privati e clientelari, e coinvolga la popolazione locale nelle decisioni sulla gestione del territorio. Il cambiamento climatico, con l’aumento di eventi estremi nel prossimo futuro, ci invita a riflettere sul contributo delle scelte politiche e dei comportamenti e consumi umani nella produzione di emissioni. Infine, questo terribile 2020 ci sta confermando che l’Irpinia non é immune da una pandemia, e sta rivelando le tante debolezze di un sistema sanitario piegato da anni di tagli e depotenziamento.

Abbiamo dunque la possibilità di riflettere criticamente sull’abitare in Irpinia. Sulla salvaguardia delle risorse naturali e del paesaggio per garantire gli equilibri ambientali e proteggere le aree maggiormente esposte da mire speculative. Sulla protezione delle fasce di popolazione più vulnerabili in una terra che si svuota, come le persone anziane, quelle senza lavoro, o con disabilità.
Sul rispetto e mantenimento del diritto all’istruzione, alla salute e al lavoro, e sulla dotazione e il funzionamento di servizi quotidiani essenziali (trasporti locali, negozi di beni primari, presidi sanitari di base) per tutte e tutti. Sull’inclusione attiva e la partecipazione critica della cittadinanza nella vita pubblica, sia sui temi legati al rischio che su quelli più generali delle relazioni tra la società e l’ambiente. Sulle opportunità da creare e sviluppare per consentire un futuro migliore ai territori.
Sono queste, ormai, riflessioni imprescindibili per ogni dibattito credibile sulla riduzione del rischio in una terra a rischio come l’Irpinia. Ogni anniversario, altrimenti, sarà puro esercizio retorico.
Questo contributo (e le foto a corredo ove esplicitamente indicato) rappresenta una versione modificata e aggiornata di un pezzo dell’autore apparso il 15 luglio 2020 sul periodico Terre di Frontiera, condivisibile con attribuzione Creative Commons– Non commerciale – Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale.