Lo scorso 31 ottobre, giornata nazionale del risparmio, i dipendenti delle banche italiane sono scesi in sciopero. I sindacati di categoria hanno scelto volutamente questa data che, per il mondo economico, è altamente simbolica.
Si è voluto in questo modo sottolineare la contrapposizione tra un’Italia che risparmia, legata ai valori propri di una corretta amministrazione, e un modello di impresa spregiudicato e arrogante come è stata la finanza degli ultimi trent’anni, un sistema che ha portato alla crisi che stiamo vivendo e che non riesce nemmeno a pensarne la soluzione. Come si è arrivati a questo sciopero? È una storia recente, anche se con radici profonde. Poche settimane fa l’ABI, l’associazione di categoria delle banche italiane, ha unilateralmente disdettato il contratto nazionale. Quello in essere era il frutto di una dolorosa mediazione sia economica sia normativa maturata nello scorso inverno, era in vigore all’incirca dall’inizio dell’anno e avrebbe dovuto durare sino al prossimo giugno. I banchieri ritengono che la crisi abbia snaturato le condizioni che avevano permesso quel contratto, e che quindi quegli accordi oggi per loro non siano più sostenibili. È paradossale: il sistema finanziario è il responsabile oggettivo di questa crisi, che ben poco ha a che fare con la reale capacità produttiva ma si annida nel rapporto tra lavoro e valore. Nessuno dei grandi banchieri italiani ha mai ammesso questo fatto nemmeno in misura minima e, oltre a ciò, essi continuano a sostenere una Weltanschauung secondo cui tutto ciò che è accaduto è simile a un terremoto, ovvero a una disgrazia, un evento naturale quasi non prevedibile, da cui però i loro stipendi sono rimasti miracolosamente illesi. La logica del mondo finanziario è quella del famoso scorpione: è la mia natura, non posso porvi rimedio. Vi è una profonda psicosi alla base del capitalismo finanziario contemporaneo: una tensione di morte che devia scientemente dalla felicità pur di esercitare il controllo, di aumentare il profitto.
Se mi si concede la metafora pop, anche in un mondo così estraneo quale quello delle relazioni sindacali, è come Galactus, angosciato divoratore di universi nel mondo dei fumetti Marvel, lacerato nell’animo ma incapace di liberarsi del suo destino, e che si sdoppia quindi nell’altro da sé Silver Surfer, sua nemesi e immagine riflessa. Così il sistema bancario è causa e vittima in ugual misura. Nonostante si cerchi sempre di essere logici e razionali nell’affrontare i problemi di natura economica, quando si è immersi in questi meccanismi si percepisce chiaramente la natura profondamente malata di chi non vede altro che l’incremento del tasso di profitto, di chi non ha alcun orizzonte che non sia la prossima trimestrale o il dividendo maturato. Questa situazione che oggi si delinea non lascia intravedere vie di uscita semplici, e che non siano solo dei palliativi: le banche difatti interpretano il ruolo, e il loro “muoia Sansone con tutti i filistei” risuona nei corridoi delle Risorse Umane, dove si approfitta di ogni spiraglio per allargare il baratro che si è aperto tra la dirigenza e i lavoratori. La totale assenza di fiducia che i dipendenti degli istituti di credito hanno nei loro manager e nei CdA è un segno palese dei tempi e dei gravi errori compiuti negli scorsi decenni.
Non so se sia mai esistita quella che si definisce “una corretta amministrazione” nel mondo bancario. Sin dai primi anni Novanta una politica incondizionatamente globalista, certa di un ineluttabile destino delocalizzato nel terzo mondo e in mano straniera, ha cercato di inserire dei meccanismi che potessero difendere il sistema creditizio italiano dal rischio di scalate straniere. Ovvero hanno de facto costretto le banche a fondersi tra di loro, in un gioco al massacro che ha lasciato molti cadaveri sul terreno, sulla base solo dell’idea che i piccoli sarebbero stati indifendibili. Purtroppo tutto ciò nella migliore delle ipotesi è stato un catastrofico errore. Oggi i paesi che allora sembravano solo oggetto di una nuova colonizzazione rivolgono le loro armi finanziarie verso l’Europa, e comprano con pochi vincoli società di ogni genere. Nonostante tutto ancora oggi c’è chi difende questa strategia: la verità è che non si è trattato solo di un errore, ma di uno scempio basato su una convinzione storicamente falsa.
In Italia vi era un sistema creditizio che contava principalmente su Banche Popolari, Casse di Risparmio, Casse Rurali, Credito Cooperativo e in genere su piccoli istituti di credito con una dimensione locale e di mutualità, sempre legata al territorio. Di certo vi erano stati casi di mala amministrazione, e sicuramente anche quel sistema aveva i suoi difetti e i suoi limiti, ma non era nulla rispetto a ciò che si è visto dopo. In pochi anni sono state costruite delle S.p.A. medio-grandi, le banche locali sono state completamente snaturate della loro mission e inserite inevitabilmente nella anonima lista delle corporation multinazionali, incapaci di qualsiasi operazione davvero concreta e terrena. Ciò che prima aveva un legame con un bisogno storicamente e socialmente determinato (l’apertura di una società, la gestione di un capitale familiare, l’acquisto di una casa per i figli) è ormai finalizzato solo all’incremento dei margini di redditività.
Sappiamo bene – non è un segreto per nessuno – che la quotazione di un titolo ha ben poco a vedere con il valore reale e materiale della società sottostante, e che essa potrebbe facilmente essere sottoposta a speculazioni tali da portare al fallimento la società anche in presenza di risultati ampiamente soddisfacenti sul piano del fatturato. Purtroppo questo avviene quotidianamente e ha prodotto un progressivo e continuo allontanamento del sistema bancario dalla vita reale e dai bisogni del mondo imprenditoriale. Oggi una banca – se questo è conveniente all’incremento del valore del titolo – modifica senza scrupoli la sua mission, trasformandosi in assicurazione o in qualsivoglia altra categoria di venditore, pur di realizzare dividendo.
Non sono un economista titolato, e la mia esperienza come dirigente sindacale, per quanto pluridecennale, si limita alla pratica della amministrazione spicciola, alla quotidiana difficile relazione tra il singolo iscritto e la burocrazia del sistema. Sono però in questo mondo da molto (troppo) tempo e ho assorbito l’aria e l’ambiente che si respira nelle banche, sia dal punto di vista dei dipendenti sia da quello dei clienti. Il mondo degli uffici, e quel senso di nichilistico nulla che li accompagna, hanno precedenti importanti nel mondo della riflessione letteraria e filosofica. Cito soprattutto, per il rispetto che si porta ai maestri, Kafka e Svevo, ma non va dimenticata l’opera del bancario Pontiggia, che – mi piace pensare – dopo aver letto certe riflessioni di Simmel o del primo esistenzialismo, scoprì di viverci quotidianamente immerso. Oggi più che mai la quotidianità del dipendente di banca è immersa nel senso della crisi che questo mondo vive. In cosa consiste questo rapporto oggi? Mobbing esasperato e attenzione alla forma si contrappongono in un crescendo esponenziale di virtualità, dove l’agire quotidiano (il lavoro) è sempre più lontano da una materialità del rapporto che appare come una chimera.
La continua necessità di tutele dovute alla giurisprudenza sui titoli tossici ha prodotto un prosperare di moduli da sottoporre al cliente. Questa modulistica è rivolta contestualmente all’operatore, nel tentativo, inficiato in partenza, di porre le parti in posizione di reciproca salvaguardia. Cosa si intende? La banca, quando ti vende un prodotto, dovrebbe informarti di tutto quello che lo riguarda. Come si realizza questo? Attraverso la consegna al cliente di illeggibili e mastodontici plichi (che finiscono in un cassetto, se non nell’immondizia), e di una firma per ricevuta che dovrebbe sollevare la banca da ogni responsabilità. A questo si affianca un’ulteriore serie di questionari sui desideri del cliente e sul suo profilo finanziario, di modulistica cosiddetta antiriciclaggio e della mitica privacy, che se il cliente non firmasse, non gli si potrebbe neppure rivolgere la parola. Questo è solo un brevissimo excursus a volo di uccello sui principali documenti che contraddistinguono la relazione (allucinata e perversa) tra investitore e banca. Tutto ciò non ha alcun senso, o almeno non lo ha nelle formule che si potrebbero immaginare. Non lo ha soprattutto da un punto di vista giurisprudenziale, poiché salvo rarissimi casi, è il cliente che ha ragione, in quanto parte debole, anche se ha firmato le carte, senza peraltro leggerle.
Ora, il consulente per evitare questioni e ritorsioni fa firmare al cliente qualsiasi cosa, sperando di potersi tutelare anch’esso da una purtroppo facile requisitoria dopo una perdita. Perché tutto ciò, anche se è insensato? Perché ci si è dimenticati lo scopo per cui esiste, che è la tutela del consumatore da possibili truffe, ed è invece diventato un modo per cui tutti cercano di scaricare responsabilità sugli altri. Sarebbe doveroso da parte delle autorità competenti il riconoscimento del fallimento di questo sistema di tutela e la sua revisione. Invece si continuano a mettere toppe e pezze, sperando in chissà quale santo. Questa formalizzazione dei rapporti, che ha allontanato concetti come “fiducia” e “responsabilità” dalla relazione venditore – banca – cliente per trasferirli dalla materia alla forma di un modello qualsiasi, ha aumentato esponenzialmente quella diffidenza di cui si parlava prima: nessuno si sente tutelato, proprio nel momento in cui le tutele sono più alte. Perché non sono reali: sono illusioni.
C’è quindi da sperare che la ragionevolezza illuminista e volteriana che i dipendenti del credito hanno ampiamente dimostrato finisca, e che siano in grado di colpire alla radice un Leviatano che non è di alcuna utilità per il sistema Italia e i suoi abitanti. C’è da restituire un valore storico e culturale all’istituzione bancaria in Italia, mettendola nelle condizioni di assumere il suo ruolo in modo chiaro e trasparente nella ricostruzione del Paese. Questo si fa in un modo solo: il lavoro bancario non deve avere nel dividendo il suo target primario. Le banche dovrebbero essere degli organismi amministrati in modo impersonale, non finalizzati all’utile individuale, ma coerenti con una politica nazionale del credito. Non ci devono essere dei proprietari ma degli organismi di controllo paritetici, che si preoccupino di verificare quanto dovuto da leggi chiare e precise.
Tutto qui, non c’è molto altro da dire. Almeno, si potrebbe iniziare a ricostruire un mondo con una economia degna del suo nome, ma questo fino ad oggi lo si può solo sognare. Spero che questo sciopero serva soprattutto ai giovani, per capire che il mostro che gli sta di fronte non è immutabile, in passato era diverso e altrettanto lo sarà in futuro. Sta a noi decidere come, e con quali metodi.