Una recensione de “La buona educazione degli oppressi” di Wolf Bukowski (Alegre)
Dopo aver esplorato il rapporto tra retoriche del “food”, politiche neoliberiste e conflitti sociali, Wolf Bukowski affronta la questione – attuale, in Italia e non solo – delle iniziative comunali che mirano a contrastare il “degrado” e a sanzionare comportamenti “incivili” e “indecorosi”. In La buona educazione degli oppressi. Piccola storia del decoro (Alegre, 2019), al centro dell’attenzione, già dal titolo, si trova una parola diventata ormai un passe-partout per giustificare e legittimare azioni restrittive di numerose libertà personali.
Il libro inizia con il racconto di un episodio significativo: la reazione del sindaco del capoluogo toscano, Dario Nardella, alla manifestazione che ha fatto seguito all’uccisione di Idy Diene, un commerciante ambulante cittadino del Senegal, avvenuta a Firenze il 5 marzo del 2018 per mano di Roberto Pirrone, un pensionato italiano. Il giorno stesso dell’omicidio, la risposta della comunità senegalese si traduce in un corteo spontaneo per le vie del centro cittadino. La comprensibile rabbia dei partecipanti trova sfogo in un atto stigmatizzato come criminale dal primo cittadino fiorentino: il rovesciamento di alcune fioriere. Affidando la sua voce a un tweet, Nardella parla di una protesta «violenta» e «inaccettabile», e afferma che «i violenti, di qualsiasi provenienza, vanno affidati alla giustizia». I vasi di fiori rovesciati diventano così l’emblema dell’idea di ordine e civiltà che caratterizza una larga parte delle istituzioni: danneggiare oggetti che abbelliscono e rendono decorosa la città equivale ad attaccarne il presunto ethos costitutivo.
La buona educazione degli oppressi prosegue analizzando le “fondamenta” del decoro. Mostra cioè come l’ideologia del contrasto al degrado e al disordine urbano serva a nascondere le differenze di classe. Legittimandole peraltro attraverso una nozione che, negli ultimi anni, ha svolto un ruolo strategico nella gestione delle categorie sociali marginali: il merito. L’autore porta due esempi della sovrapposizione tra “decorocrazia” e meritocrazia: la “patente a punti” per le case popolari, introdotta da alcuni comuni del parmense – gli assegnatari o i loro familiari che risultano “indisciplinati”, andando contro il regolamento comunale, ricevono penalità che, progressivamente, fanno perdere loro il diritto all’assegnazione – e i daspo urbani, voluti da Minniti (pp. 19-20). Nel primo caso, è evidente la discriminazione “castale” tra proprietari di case e affittuari: a fronte degli stessi comportamenti (ad esempio, parcheggiare male negli spazi condominiali), chi possiede un immobile non rischia lo sfratto ma al massimo una multa. Nel secondo, è chiaro il trattamento differenziato riservato a persone che già si trovano in condizioni di marginalità: il solo essere ritenute “indecorose” e fastidiose, per la loro presenza e non perché hanno commesso reati, le espone al rischio – in cui non incorrono i cittadini “normali” – di essere allontanate da alcune zone della città, subendo un peggioramento ulteriore delle loro precarie condizioni di vita.
I capitoli successivi ripercorrono le tappe della nascita e della diffusione dell’ideologia del decoro, individuandone il punto di avvio nei lavori di Banfield degli anni 70’ sugli individui lower-class e nelle teorie criminologiche che, negli Stati Uniti degli anni 80’, ispirano le politiche dell’amministrazione Reagan. La teoria delle finestre rotte, la tolleranza zero e la retorica della quality of life sono considerate le origini, teoriche e politiche, delle iniziative antidegrado e inciviltà. Già in questa fase storica, le allusioni, vaghe e ambigue, alla necessità di conciliare istanze securitarie e sociali si traducono, in concreto, nella predominanza di interessi legati ai profitti e alla rendita, a discapito dell’eguaglianza e della giustizia.
Nella seconda parte del libro, l’attenzione si sposta sull’Italia degli anni Novanta, laboratorio strategico per la costruzione delle politiche del decoro. Proprio in quel decennio, prima con la legge Martelli del 1990 e poi con la Turco-Napolitano del 1998, l’immigrazione inizia a essere normata in maniera specifica. Considerata un fenomeno intrinsecamente portatore di insicurezza, è associata in maniera strettissima al degrado delle città, meta principale dell’insediamento dei migranti.
Bukowski si sofferma su alcuni casi emblematici – Milano e Bologna – e sull’esperienza del progetto Città sicure, che ha preso forma nel contesto dell’Emilia-Romagna, in sinergia tra le amministrazioni locali e regionali, guidate dal centro-sinistra, e alcuni settori del mondo accademico. Proprio in questi territori, la categoria di decoro inizia a ricevere una legittimazione istituzionale e a penetrare nel linguaggio mediatico e nel discorso pubblico.
Il decoro è un concetto ormai autoevidente: continuamente evocato ma raramente definito in maniera credibile, fa apparire come naturali e “di buon senso” scelte normative e misure amministrative dal chiaro intento disciplinante. Proprio come la nozione di “sicurezza”, è un’“idea senza parole”, utile «non a spiegare, ma a perimetrare la platea dei civilizzati rispetto ai presunti barbari» (p. 126).
Le politiche del decoro si insinuano nella vita quotidiana delle persone: di tutte, anche se in apparenza solo di alcune. Le iniziative volte a contrastare degrado e inciviltà vanno infatti a colpire esplicitamente categorie “marginali” o “devianti” della popolazione ma, più in generale, puntano a imporre una visione condivisa dei comportamenti corretti e appropriati da tenere nei contesti urbani. Sono le relazioni di prossimità, che interessano quindi l’intera cittadinanza, a essere attaccate da dispositivi come i tornelli o le panchine antibivacco.
Un’aggressione del genere punta a imporre un’equivalenza tra diritto e buona educazione: tramite il primo sono sanzionati comportamenti considerati lesivi della seconda. Questa, però, oltre a non essere oggetto di specifica regolazione giuridica, rimane un costrutto vago e indefinito (p. 109). Tramite le misure antidegrado viene così plasmato, lentamente, una sorta di senso comune che vede il decoro diventare sinonimo di civiltà e buona educazione.
Lo slittamento progressivo della parola “decoro” e l’estensione del suo spazio semantico emergono in maniera chiara osservando come cambiano le categorie oggetto di attenzione. A subire le misure antidegrado, oggi, non sono soltanto i poveri, ma anche i “meno ricchi”. Per effetto di queste misure, la polarizzazione noi/loro cambia allargando sempre più la dimensione e la composizione dei soggetti “esterni” al consesso “civile”: «tra i barbari, si trova infatti non più solo il marginale ma anche il turista low cost, un tempo chiamato con simpatia saccopelista e oggi etichettato dai campioni del neoliberismo urbano come “turista cafone”; chiarendo così infine che indecoroso non è solo l’espulso dal processo capitalistico. Ma persino chi, pur aderendo al rito collettivo del turismo, lo fa non consumando abbastanza» (p. 123). Al riguardo, l’autore riporta il caso di Firenze, dove Nardella si scaglia contro gli appartenenti a questa “categoria”: persone «che, avendo la pretesa di assaggiare anche loro una piccola dose di bellezza rinascimentale, risparmiano sul pranzo mangiando un panino seduti sui gradini» (p. 89).
Al contrario della pedagogia degli oppressi promossa da Paulo Freire e richiamata nel titolo del libro, le politiche del decoro non intendono favorire una presa di coscienza, da parte dei soggetti marginali, della loro condizione, né tantomeno vogliono incoraggiarli a tentare di uscirne. Obiettivo di queste politiche, in altre parole, non è rendere veramente “decorose”, nel senso di decenti e degne di essere vissute, le esistenze di persone che si trovano in uno stato di deprivazione socioeconomica, ma produrre gerarchie e stratificazioni nelle città e negli spazi urbani. L’ossessione “decoritaria” contribuisce dunque a legittimare un ordine sociale sempre più articolato e diseguale.
La buona educazione degli oppressi si inserisce nel dibattito, ormai piuttosto articolato, sull’uso del decoro nelle politiche e nelle pratiche dell’esclusione urbana1. Lo fa in maniera netta e radicale, chiamando in causa esplicitamente le responsabilità del mondo accademico2.
Il contributo che fornisce è rilevante: in primo luogo, aggiunge spunti analitici riguardo ai meccanismi che, attraverso il richiamo strumentale alla necessità di contrastare il degrado, sortiscono effetti sulle persone e sui loro modi di fruire degli spazi urbani. Il libro entra infatti in dettaglio nei percorsi con cui la categoria del decoro viene messa al lavoro dalle istituzioni, producendo retoriche e incarnandosi in strumenti amministrativi che realizzano forme di esclusione ed espulsione soltanto apparentemente soft ma, in realtà, estremamente violente. La violenza istituzionale che sta dietro all’ideologia decoritaria è particolarmente insidiosa in quanto è poco visibile, essendo mascherata da discorsi e categorie che sembrano mettere il bene comune e l’interesse generale al centro dell’attenzione.
In secondo luogo, il testo di Bukowski dice qualcosa di importante sulle categorie sociali oggetto delle politiche per il decoro. I passaggi dedicati alle misure contro i turisti “cafoni” ne rivelano la tendenza ben più ampia e generalizzata: a subire limitazioni delle libertà e restrizioni dei diritti non sono soltanto gli ultimi della gerarchia sociale (gli immigrati irregolari o gli italiani senza fissa dimora) o i “penultimi” (gli stranieri regolari che si trovano in condizioni di deprivazione economica), ma anche persone che fanno parte di gruppi sociali, se non privilegiati, quantomeno non del tutto svantaggiati. In altre parole, i dispositivi amministrativi “decoritari” stanno risalendo la scala della stratificazione, focalizzandosi su persone collocate in posizioni mediane. Come ludicamente percepito già attorno alla metà degli anni Novanta da alcuni gruppi di tifosi organizzati3 – attraverso l’esposizione di striscioni che recitavano “Leggi speciali: ieri per gli ultrà, oggi in tutta la città” – una volta entrati a far parte della “cassetta degli attrezzi” a disposizione di questori e sindaci, certi strumenti tendono a estendere sempre più il loro raggio d’azione.
Il decoro, dunque, mostra il suo vero volto: più che un dispositivo finalizzato a individuare in maniera selettiva chi “turba la tranquillità” della vita cittadina, è una metafora complessiva dell’ordine sociale. Insegnare agli oppressi la buona educazione è soltanto un passaggio di un percorso più ampio: reprimendo comportamenti e indicando condotte appropriate a chi fa parte di certi gruppi, è l’intera società che si vuole plasmare. Con l’intenzione di far sì che la “lezione” impartita ad alcuni serva da monito e da orientamento anche ad altri.
Nell’ambito di società stratificate e attraversate da disuguaglianze ampiamente considerate legittime, la posta in gioco delle politiche del decoro, come emerge da La buona educazione degli oppressi, è chiarire che le persone devono stare al loro posto, se possibile senza fare troppo rumore o dare nell’occhio, oppure accettare la possibilità di essere “rimosse” da alcune zone delle città. Anche chi pensa di essere abbastanza in alto nella scala sociale deve fare molta attenzione: il passo che lo separa del turista cafone è molto più breve di quanto non immagini.
Note
- La bibliografia sul tema è piuttosto ampia, ed è quindi difficile darne conto in maniera sintetica in questa sede. Rispetto invece al tema più specifico del decoro, i testi principali pubblicati in lingua italiana sono Contro il decoro: l’uso politico della pubblica decenza, di Tamar Pitch (Laterza, 2013) e In nome del decoro: dispositivi estetici e politiche securitarie, di Carmen Pisanello (Ombre Corte, 2017).
- Tanto che alla sua uscita hanno fatto seguito polemiche piuttosto accese. Tamar Pitch ha espresso le sue critiche al volume in una recensione uscita sul blog Studi sulla questione criminale. Alle sue osservazioni ha risposto Bukowski con un intervento nel blog della casa editrice Alegre.
- Nell’ambito di un progetto collettivo di difesa dalla repressione: https://www.repubblica.it/online/calcio/manuale/manuale/manuale.html. Su questo punto si veda anche Gli ultrà: origini, storia e sviluppi recenti di un mondo ribelle. Ringrazio Paolo Perri per la consulenza storico-calcistica sulla nascita di questo striscione e sulle strategie organizzate di contrasto alle misure di polizia.