Mio padre, Renato, era saldatore tubista. Uno che aveva iniziato a lavorare a quattordici anni e che già a quaranta aveva subito l’invasione degli ultracorpi (metalli pesanti) e non ci sentiva per i tonfi del cantiere. Un lavoro per lui doveva essere qualcosa per cui ti facevi il culo. Quelli che stavano a un tavolino e non sudavano, non lavoravano. Qualsiasi cosa fossero, ragionieri avvocati o professori, facevano parte di un’unica categoria: i preti. Gente che non aveva voglia di lavorare. Un giorno gli lessi queste parole di Bianciardi da Il lavoro culturale – attribuite a un tal Corinto, muratore invalido e poi bidello stalinista, ma figlio d’anarchici. Fu una rivelazione: gli apparve Mao e rimase a bocca aperta:
Viene uno e dice che vuol fare il ragioniere. “Tu”, dico io allora, “vuoi fare il ragioniere, vero?”. “Sì”, risponde quello. “Proprio il ragioniere?” “Sì”, dice lui, “il ragioniere”. “Allora”, dico io, “guarda. La ragioneria è al secondo piano. Lo vedi quel sacco lì, nel cortile?”. “Sì”, fa il ragioniere. “È pieno di polvere di marmo”, faccio io. “La ragioneria è al secondo piano. Ora tu, caro ragioniere, al secondo piano, dove c’è la ragioneria, ci porti il sacco pieno di polvere di marmo. È chiaro?” Sai, la polvere di marmo è pesante e compatta, un sacco pieno sarà un quintale, forse un quintale e mezzo. Chi ce la fa diventa ragioniere, se no niente. Cosa sono questi ragionieri borghesi mezzeseghe, con certi toracini che sembrano quelli di un piccione?
Anche i preti mio padre li voleva mandare in cooperativa, seguendo le istruzioni di Corinto-Lucianone:
“Anche i preti alla cooperativa” (…) “La mattina alle sei adunata di tutti i preti. Entro io: ‘Quanti preti ci sono, allora? Duecentoventi? Ah sì? Bene, per il culto ne bastano tre, gli altri alla cooperativa, alla trebbiatura’. Inquadrati, colla tonaca nera, il vescovo in testa con la mitra in capo e il pastorale in mano. Alla cooperativa a trebbiare. Forza preti, levate la pula da sotto la trebbiatrice, forza con il rastrello. Otto ore regolari. Poi una bella legnatura a tutti, e dopo si vede: chi ha lavorato mangia, gli altri legnate e basta. Mica per tutta la vita, sai? Tre mesi, tre mesi bastano. Chi ce la fa bene: legnate, pane e minestra; gli altri legnate e basta.
E poi Corinto concludeva: “Ci sono troppe mezzeseghe in giro, troppi preti, troppi intellettuali.”
La pensava così anche Renato e lo diceva. “Brodi”, aggiungeva lapidario, riferendosi agli sfruttatori della classe medio-alta, gente senza consistenza. Ma era questo anche un modo per raccontare una verità che non è quella del cristiano Paolo a quei creduloni dei Tessalonicesi (che oggi infatti si ritrovano incasinati fino al collo) per cui “chi non lavora neppure mangi”: questa è la storia borghese, una menzogna che nasconde la verità, che chi lavora muore di lavoro. Come Renato, esposto per anni all’amianto. Per questo, paradossalmente, dopo essersela presa con le “leggere”, con i vagabondi, quasi avrebbe preferito che io non lavorassi. Non mi voleva portare in cantiere a ripulire le cisterne di idrocarburi delle raffinerie, neanche d’estate quando già avevo diciott’anni. Studia, mi diceva (“almeno non ti ammali”).
Mio padre era un operaio che sull’onda del boom economico neocapitalista aveva potuto mandare i figli all’università. Mi aveva insegnato un po’ di cose da fare con le mani, tipo tagliare due tubi o mandare un trattore o mettere un tassello dentro a un muro o smontare, oliare e rimontare una motosega o attaccare una lamiera con qualche rivetto a uno scheletro metallico o piegare un tondino in una morsa o sistemare una maniglia ciondolante infilandoci dentro uno stuzzicadenti. Ma poi si è fermato. La saldatrice no, mi ha detto. Con quella ti ammali. Non lavorare. Studia, mi diceva.
Ho studiato. Poi (dopo una serie di lavoracci) ho iniziato a lavorare nell’editoria. Faccio il redattore esterno e il traduttore. Precariamente. A volte non faccio nulla. Altre volte batto diecimila battute al giorno minimo. Se i tempi sono stretti, anche di più. Il mio record personale è di 43mila battute al giorno. Sono un’enormità. L’ho fatto una volta sola per finire un lavoro in consegna, aiutandomi con un dettatore vocale. Roba da impazzire. Meglio il cantiere, mi sono detto.
Faccio un lavoro culturale e ho quasi trentanove anni. Alla mia età mio padre operaio metalmeccanico sindacalizzato dalla Fiom si era già comprato la casa. Io, lavoratore cognitivo precario, arranco per pagare l’affitto. Altro che flessibilità: a forza di stare seduto a tradurre saggistica dall’inglese e dallo spagnolo per otto-dieci ore in una postura innaturale mi sono ritrovato una protrusione discale con assottigliamento dei dischi vertebrali nella zona lombare. Le ginocchia scricchiolano per la troppa immobilità. E ho una tendinite quasi cronica che dalle mani mi risale fino ai gomiti, facendomi urlare di dolore anche mentre scrivo questo articolo.
Queste sono le ultime cose che vorrei dirgli: babbo, il sacco di polvere di marmo al secondo piano io ce l’ho portato. Ma la ragioneria l’hanno già saccheggiata i padroni e per noi, figlioli degli operai che hanno provato a salire le scale, non c’è rimasto niente. Ci hanno solo preso per il culo, maremma schifosa.