Pubblichiamo il testo di Umberto Eco incluso nel volume “Il Neobarocco” di Omar Calabrese (La Casa Usher), che raccoglie le ricerche pubblicate in “L’età neobarocca” (1987), “Mille di questi anni” (1991) e gli inediti sulle evoluzioni dell’ultimo decennio.
Calabrese è stato studioso onnivoro ed è passato dalla storia semiotica all’iconologia, dalla massmediologia all’analisi politica del nostro tempo. Qui vorrei soffermarmi sul Calabrese semiologo e sociologo della cultura e parlare de L’età neobarocca (1987), tra le sue opere più note, ma come pretesto per arrivare a un libro meno noto (apparentemente superato perché dedicato ad alcune previsioni sull’inizio del terzo millennio): Mille di questi anni, del 1991.
Dell’Età neobarocca si sa, dove le analogie non riguardano soltanto le arti superiori o i mass media ma i comportamenti dei loro stessi fruitori, e il costume quotidiano.
Caratteri della sensibilità neobarocca erano per Calabrese l’eccentricità, l’eccesso, ovviamente l’asimmetria, l’instabilità, la tendenza continua alla metamorfosi, la celebrazione del disordine e del caso, e dunque del labirinto come impossibilità di un percorso unilineare e della tendenza a una meta. E pertanto il piacere dello smarrimento e dell’enigma.
E di lì la tendenza al pressapoco e al non so che. L’oscurità come valore. Il mistero dei giardini di Compton House di Greenaway funziona per l’impossibilità immediata di collegare le frasi e le immagini in un filo logico lineare.
Di lì al valore conferito alla degenerazione, non nel senso nazista ma come destabilizzazione: il Classico produce generi e il Barocco degenera. Però, colpo finale, il Neobarocco può convivere col Neoclassico. Si veda in Calabrese l’elogio stranito dei Bronzi di Riace o almeno della loro attonita ed estatica ricezione.
Ma per capire che cosa sia questa attrazione per il Neoclassico bisogna attendere il 1991 e il secondo libro. Dove Calabrese agisce da Nostradamus. È un libro che abbiamo forse dimenticato perché era un vaticinio sui successivi dieci anni e dunque sull’inizio del 2000, e che invece dovremmo leggere come analisi di quanto sarebbe accaduto venti anni dopo, e cioè oggi.
Il libro parlava degli anni Novanta quando definiva il decennio a venire come un decennio dell’attesa.
Il libro era disordinato e disorganico perché prendeva i suoi temi dove gli capitava, ma in fin dei conti disordinato e disorganico era il futuro alla cui attesa ci convocava.
Riprendeva ovviamente i temi del libro di quattro anni prima col rinvio al senso neobarocco dell’instabilità, della frammentazione, della complessità, della sospensione o perversione dei valori eccetera. Però avvertiva un clima diverso, come se il vero Neobarocco fosse ancora da realizzarsi pienamente e l’instabilità del decennio a venire sarebbe stata quella di una aspettativa inquieta.
In effetti dobbiamo pensare che tra il 1987 e quel 1992 in cui il libro (stampato nel settembre ’91) sarebbe stato letto, quasi tutto era cambiato:
- era crollato il Muro e si era disfatto l’impero sovietico;
- nel giro di un anno con Mani Pulite si sarebbe dissolta l’egemonia democristiana;
- nel ’94 con la discesa in campo berlusconiana sarebbe nata quella che è stata poi impropriamente chiamata seconda repubblica ma che sarebbe diventato il regime populistico appena, forse, tramontato[1], ma sempre pronto a risorgere col passaggio zoomorfo dalla Trota afasica al Grillo parlante;
- all’alba degli anni Novanta aveva preso il via la serie delle guerre mediorientali col capovolgimento totale del concetto di guerra, caratterizzato dalla presenza del nemico tra le fila avversarie, la non-morte dei propri soldati come valore primario, il tentativo di celare anziché celebrare il massacro degli avversari e il delinearsi di guerre che se avevano un inizio non avevano né potevano avere una fine;
- alle soglie del Duemila il senso della crisi aveva preso tutti alla gola nell’attesa del Millennium Bug, e se oggi la vicenda ci fa sorridere, alla fine del 1999 avrebbe creato delle sindromi nevrotiche non da poco.
Senza spingersi sino all’anticipazione dell’11 settembre, che certamente ha cambiato la politica mondiale (ma a cui neppure Calabrese poteva pensare), ci rendiamo conto che nel decennio anticipato da Calabrese quelle manifestazioni di Neobarocco che all’inizio potevano sembrare ancora intenzionali e criticamente controllate e controllabili stavano lentamente diventando una pratica quotidiana che i nuovi soggetti mettevano in atto inconsciamente.
Pensiamo all’eccesso televisivo che spinge i neobarocchi in corpore vili a sovraesporsi in risse e perdita della privacy nei vari programmi di cui sono i clown consapevoli. Quando la Minetti dice in pubblico che non ha nulla di cui rimproverarsi e continua ad andare a testa alta (anzi in bikini a ombelico al vento) siamo alla degenerazione fatta spettacolo, siamo alla normalizzazione dell’eccesso, alla scelta della regola di disconoscere ormai ogni regola. E neppure il Nostradamus Calabrese avrebbe potuto immaginare gli show televisivi dell’Impunito Massimo, quel Fiorito che non si cruccia del fatto che al solo suo apparire, o alla prime parole che dice, il telespettatore di un tempo sarebbe stato subito disposto a condannarlo a venti anni di carcere duro.
Internet si propone come il territorio in cui perdono ogni frontiera il falso e l’autentico, ma a ben vedere nell’uso quotidiano della bugia sentita il giorno dopo (e attraverso una nuova bugia) che ha dominato il ventennio grigio della cosiddetta seconda repubblica, questa frontiera era già stata cancellata. In ogni caso Calabrese dedicava un intero capitolo al falso e alla copia nell’arte alla contraffazione come divertimento e arte («la falsificazione, l’implicito, l’oblio, sono maniere per essere assolutamente e totalmente contemporanei»). E mi chiedo se non è per questo che, seguendo un tema che lo affascinava, nella sua ultima opera Calabrese ha sottratto il trompe-l’oeil alla storia della pittura antica per rivisitarlo come fenomeno contemporaneo.
Calabrese celebrava la crisi dell’utopia come tensione verso un dover essere desiderato. Stava per prevalere la distopia, «la pura accettazione del presente come unico orizzonte di sopravvivenza possibile».
E questa definizione della distopia sembra un ritratto della situazione attuale dei partiti politici – situazione che peraltro Calabrese avrebbe patito come crollo delle proprie speranze politiche a Gargonza nel 1997. Tanto che si capiscono alcune pagine sull’ecologismo, valore in marcia nel momento in cui Calabrese scriveva, ma di cui intravedeva il volto oscuro, non solo la passione per la salvezza dell’ambiente bensì la scelta reazionaria del non intervento – e quindi paradossalmente il contrario dell’utopia come desiderio del cambiamento radicale.
Instabilità è certamente la parola chiave dell’attesa del decennio Novanta a cui guardava Calabrese. E scriveva:
È ovvio che per tutte le ragioni prima analizzate, la transitività del presente sia traducibile in un senso di instabilità. Filosoficamente, ciò è un classico. Quando il presente non viene considerato come parte di una storia continua, non riesce ad assumere un senso di solidità. Se al presente si lega appunto l’idea di una discontinuità fra passato e futuro (quale è l’idea di tramonto e di alba della civiltà), allora è del tutto inevitabile pensarlo come inafferrabile, incerto, indefinibile. Molti atteggiamenti cosiddetti «mondani» dipendono da un simile carattere, che trova peraltro un riscontro nell’idea dell’inarrestabile scorrere del tempo. Il carpe diem oraziano e la sua ripresa quattrocentesca nei famosi, emblematici versi di Lorenzo il Magnifico «Quanto è bella giovinezza» (ma guarda: scritta verso il 1490, a fine secolo!) appartengono a questo clima. Così come gli appartengono evidentemente l’elogio edonistico della giovinezza, e il biasimo per la società che invecchia.
Quello che Calabrese non aveva previsto era che sarebbe entrato in crisi anche il valore Giovinezza; il giovane non è oggi il protagonista dell’avvenire, ma il relitto di un passato che lo opprime attraverso l’egoismo dei suoi padri e della loro gerontocrazia. Quindi instabilità anche per i giovani. Nel 1991 Calabrese non conosceva ancora la categoria del precariato permanente.
Mi piacerebbe seguire la verifica delle profezie di Calabrese attraverso l’analisi minuta di stili, forme e comportamenti e citerei per esempio (ma come esempio di finezza analitica esercitata su ciò che passa inosservato) la fenomenologia del nuovo trailer cinematografico. E peraltro la sua mancanza di sintassi (e di semantica) mi sembra associata a un altro tema che ovviamente Calabrese mutua da altri ricercatori, ed è quello della velocità – fenomeno su cui non c’era molto da profetizzare perché era già presente da decenni, ma in ogni caso si manifestava in crescita esponenziale – e basta oggi confrontare il ritmo di un serial americano recente con quello, che so, di un vecchio film di Maigret o addirittura delle storie di Montalbano (ultimo omaggio al ritmo lento della congettura e dell’inchiesta paziente).
Se pure mi dà atto di averne parlato anch’io, Calabrese vede con chiarezza il passaggio tra un universo delle emigrazioni a un universo delle migrazioni, con – in prospettiva – la creolizzazione dei continenti e il dissolversi del concetto di etnia omogenea legato a un determinato territorio – e in antistrofe il profilarsi del neorazzismo, l’irrompere dei fondamentalismi (compresi quelli dell’Occidente) e la reazione spasmodica all’instabilità e alla sparizione dei valori attraverso una rinascita del sacro, che può prendere anche le vie di un rinvigorimento dell’occulto, quasi eliminando la differenza (direi io) tra Dan Brown e Padre Pio.
Ma questo ci riconduce (ed ecco che gli ultimi capitoli di Mille di questi anni si rinsaldano agli ultimi del libro precedente, con le osservazioni sui Bronzi di Riace), al diverso atteggiamento verso il passato, come tentativo di ovviare all’instabilità del presente e del futuro. Ci si riappropria, con l’aiuto dei media, dell’arte di tutti i secoli, ma non tanto nel modo estetico quanto nel modo estatico. La nozione aristocratica dell’ineffabilità si traduce nel mito dell’affabilità, e nasce la mistica del capolavoro (ecco i Bronzi e le folle che si riversano ciecamente per ammirarli, divinità emerse dal profondo del mare, più degni d’estasi per la loro storia che per la loro forma).
Insomma, ho riletto, e con sorpresa, Mille di questi anni non come un libro usa e getta da consumare nel corso di un decennio, per accorgersi magari alla fine che le cose erano andate in un altro modo, ma come una analisi lucida dei decenni a venire – dico da oggi in avanti.
Senza che Calabrese vi sottintendesse mai giudizi di valore, sia chiaro. Ma ci sono certe pagine che non si possono leggere senza avvertire un brivido, se non moralistico, almeno morale. E penso alle pagine sull’oltraggio sul gusto dell’eccesso che diventa in politica l’abitudine all’insulto e al conflitto generalizzato ma senza scopo. Ci sono alcune pagine sullo scontro politico televisivo e sul fanatismo sportivo che sembrano farsi specchio l’una con l’altra, in entrambi i casi rappresentando una contesa priva di scopo, dove la contumelia praticata per se stessa stabilisce l’avvento di un centralismo estremista, dove all’acutezza degli scontri soggiace la moderazione dei contenuti.
E potremmo continuare con le pagine sul tifo sportivo come ultima degradazione dello sport dove la componente conflittuale rimane separata da ogni posta in gioco, ogni obiettivo di trasformazione, ogni ideale di vincita. Mi fermo qui. Ma era solo per dire come lo sguardo semiotico, anche in un libro atecnico, permetteva a Omar Calabrese di parlare del suo mondo presente, del mondo venturo (ai tempi suoi) e di quello dei tempi che per fortuna sua non vedrà.
[Qui alcuni estratti della postfazione a Il neobarocco di Stefano Jacoviello]
Note
[1] Quando scrivevo queste note non sapevo che avremmo ancora vissuto la notte dei morti viventi.