Il lavoro culturale ai tempi della malaria

Brividi improvvisi e tremori intensi, mentre sale la temperatura e cala il sostegno della ragione. La malaria, si sa, esaurisce il senso del domani mentre distoglie l’attenzione dall’oggi. Nessun proposito, nessuna memoria o spessore del tempo: ogni riflessione, ogni confronto d’opinioni, ogni energia critica è persa. Il lavoro culturale al tempo della malaria è come un atto di resistenza, prima di tutto a se stessi, nel tentativo di osteggiare l’inerzia, allontanare il senso della fine e il piacere che provoca. Dentro le università, qualcuno lo diceva da tempo: morte dell’arte, del teatro, del cinema e della letteratura, morte della cultura, dell’impegno e del mondo. Credendo di annunciarla come un presagio, della fine non erano altro che sintomi.

Al tempo della malaria, se la cultura è sensibile e per prima ne risente, la società tutta non sta affatto bene. Ma c’è chi teme un peggioramento, un contagio reciproco, e si tende a evitare ogni incontro: meglio lasciarle separate. Che chi ha l’ambizione di studiare non s’immischi con le cose del mondo; che i libri restino chiusi in se stessi. Questione di pubblica sicurezza. Al tempo della malaria, se la società tutta non sta affatto bene, dentro le università non è che si trovi un riparo. Chi vi cerca un riparo si crea una riserva. L’università è da sempre un luogo di incontro, ma anche e soprattutto un luogo di condivisione e manutenzione dei saperi, in un dialogo ininterrotto tra generazioni diverse, nel comune intento di salvaguardare l’efficacia degli strumenti e delle metodologie in relazione alle nuove sfide che provengono dal presente. L’università è più di un luogo fisico circoscritto: minacciata in quanto istituzione, si protrae e prosegue all’esterno, laddove il sapere si propaga nelle pratiche, nelle occasioni di condivisione della vita civile e politica, nel lavoro culturale.

All’idea, fortemente presente nel dibattito culturale contemporaneo, che soltanto una figura intellettuale carismatica socialmente investita di tale ruolo possa rigenerare l’impegno, sembra infatti possibile avvicendare un modello alternativo che valorizzi il lavoro quotidiano che coinvolge e accomuna realtà scientifiche e professionali variamente dislocate. In che modo lo storico contemporaneo può elaborare una verità sul passato prossimo – un passato carico di ripercussioni sul presente come quello italiano degli anni Settanta? E come si riarticola la riflessione sociologica sul concetto di sfera pubblica nell’esplosione dei social network? Che cosa accomuna lo sguardo di un documentarista a quello di un etnografo quando questi condividono il “campo”? Come tradurre una lingua straniera senza schiacciare irreparabilmente la cultura che vi si trova espressa e che vi si esprime? Dove inizia il lavoro dell’artista e dove finisce quello dello studioso?

Partendo da tali domande, si ha come l’impressione che al di là dei problemi epistemologici che differenziano le discipline umanistiche, tanto la storia, quanto la sociologia, l’antropologia, la filosofia e la semiotica non possano prescindere dal terreno comune che inevitabilmente le lega: il mondo e il mondo contemporaneo – di per sé inconoscibile – sul quale ogni sguardo scientifico opera una sezione, individua alcuni tratti pertinenti, costruisce il proprio mondo-modello di riferimento. Allo stesso modo, al di là delle specificità, sono figure intellettuali come quella del giornalista, del traduttore, del letterato, del cineasta… ad articolare di volta in volta i propri saperi ed esperienze nella messa in forma, nell’interpretazione e nella traduzione della realtà socialmente condivisa.

Docente, romanziere o traduttore, a Milano, a Siena o a Kansas City, poco importa. Come nelle pagine iniziali dell’opera di Luciano Bianciardi dalla quale il seminario prende il titolo in prestito, il lavoro culturale non prevede posizioni fisse di giudizio o privilegio. Affacciati al balcone, quando la febbre concede il respiro, scorgiamo qualcosa “là fuori”. Qualcosa, una realtà sociale, culturale e politica, che si modella in risposta alle domande e che si modifica in relazione alla profondità di sguardo che vi si esercita. La malaria si combatte in provincia, laddove l’incontro, la voglia di acuire la vista e affilare le opinioni, è più forte della fiacca e della paura.

da Carmilla online

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