Riflessione sulla condizione di universitario.
Mi sono laureato lo scorso 16 marzo, da casa. Il presidente di commissione ci ha dato appuntamento per il graduation day che, ci aveva assicurato, «si terrà certamente agli inizi di giugno». L’ottimismo dei primi tempi. Da quel momento ho ricevuto richieste di autorizzazione a pubblicare le immagini della mia laurea su testate giornalistiche online per lo più a diffusione locale, poi sul sito della CRUI. Lo scopo dell’Ateneo, nemmeno troppo velato, era di farsi pubblicità, di vendersi come istituzione moderna e all’avanguardia: le Università sono costrette a farlo per ottenere fondi e far crescere il numero di iscritti.
Dopo la laurea ho iniziato a seguire corsi presso un altro Ateneo. Frequento lettorati di tedesco, durante i quali l’interazione è fondamentale per l’apprendimento. Durante le lezioni provo un fortissimo disagio: disagio a comunicare, a interagire, a prendere la parola, ad ascoltare gli altri. È un disagio provocato dalla netta percezione di violazione di uno spazio privato, di intrusione degli altri nella mia quotidianità.
Sono a disagio quando seguo i corsi in cucina, perché in camera da letto non ho connessione sufficiente. Sono in imbarazzo quando qualcuno entra a bere dell’acqua o a mangiare qualcosa, perché viene violato non solo lo spazio della casa, ma anche quello della lezione. Sono a disagio anche quando intravedo qualcuno nelle inquadrature degli altri, come mi è capitato questa mattina: una sorella maggiore, forse credendo di essere l’unica nella stanza virtuale, ha chiesto urlando al fratellino di andare via. Poi, accortasi della mia presenza, non ha fatto altro che spegnere il microfono e, dopo qualche istante, la videocamera. Siamo rimasti in un imbarazzante silenzio fino all’inizio della lezione. In una classe di dodici persone ci sono una ragazza di nome Mei e un ragazzo di nome Matteo. Non li ho mai sentiti parlare né so che faccia abbiano. A volte facciamo lavori di gruppo e il disagio aumenta perché l’interazione è obbligatoria.
Per seguire le lezioni online usiamo Meet, Drive, Moodle, Zoom, Teams, Slack, a volte una combinazione di due o tre piattaforme, nessuna pensata per le nostre esigenze. «Scusi, non ho ricevuto il file. Mi rimanda il link cortesemente? Mi sente? Posso parlare? Mi sono disconnesso, la batteria era scarica. Scusi sono malata. Ma tanto sei a casa, cosa ti costa connetterti comunque». Viviamo nell’ossessione di dover essere produttivi.
Sono a disagio quando svolgo con una certa regolarità i compiti, ma non ricevo correzioni: «Ho tanto materiale da preparare, mi sono dimenticata, ve le mando poi alla fine, voi però ricordatemelo…». Il tempo normale del corso si fossilizza, si comprime in qualche slide e una manciata di esercizi, se siamo fortunati audio e video esplicativi. Alcuni insegnanti si rifiutano di fare lezione, ci assegnano un paio di tesine – tema libero, per carità – e ci rimandano a una valutazione spersonalizzata e avvilente. Altri ci provano, si impegnano ma proprio non sono capaci di usarlo, il computer.
Sono terrorizzato perché tra qualche giorno avrò un esame scritto. Dovrò svolgere la prova senza avvicinarmi al computer per non destare il sospetto di copiare da internet, scrivere la prova su un foglio, fotografarlo e mandarlo alla professoressa, che poi in qualche modo lo correggerà. Se salta la connessione e non riesco a sistemarla entro qualche secondo, la mia prova sarà automaticamente annullata. Essere bocciati perché si vive in campagna o perché salta la corrente.
Il mio spazio di studio non è diverso da quello della lettura, del gioco, della pausa sigaretta, della chiacchierata con gli amici, della birra di sera o a orario aperitivo. Ho un balcone piccolino su cui ogni tanto esco a prendere aria, ma poi mi sento ancora più in gabbia di prima, osservato dalla vicina o dall’uomo del palazzo di fronte, quindi rientro di fretta.
Mia madre lavora a cinque metri da me davanti a un doppio schermo. Quando lei è in riunione e io contemporaneamente a lezione abbiamo paura entrambi di parlare troppo forte, allora vorremmo chiudere presto, speriamo che l’intervento dell’una non coincida con la correzione dell’esercizio dell’altro. Poi a un certo punto ci alziamo, decidiamo che basta così, passiamo allo schermo della televisione o a quello del tablet, ogni tanto giochiamo a carte ma la scalaquaranta non può durare per sempre.
Oggi un mio compagno di corso non si è collegato perché nel suo palazzo c’erano i lavori e gli hanno staccato la corrente. Ieri una collega di mia madre non ha potuto lavorare in smartworking perché «mia figlia deve seguire qualche lezione ogni tanto, fa la seconda media». È un suo diritto.
Sulla didattica a distanza, uno dei temi più dibattuti in questo periodo in relazione al destino dell’istruzione pubblica durante e dopo questa fase emergenziale, è stato già scritto molto. Il punto di vista privilegiato è stato quello degli insegnanti e dei professori universitari: le loro attenzioni si sono rivolte alle difficoltà organizzative e ad analisi sugli aspetti politici e sociali della questione, alle forti disparità che il ricorso massiccio e generalizzato ai mezzi di comunicazione digitale ha messo in evidenza. Il digital divide è già una realtà e lo sarà sempre di più.
Io, personalmente, non mi sento rappresentativo di nessuna classe, di alcuna categoria, non riesco a immaginare alcuna rete e alcun confronto. Sono isolato e spersonalizzato. Non ho più un’identità sociale e collettiva. Lotto solo per me stesso.