Il diritto, la letteratura e le migrazioni

Appunti su un avvocato di Melville e un giudice di Brecht

Foto di Ilaria Milano (Fonte: Ilaria Milano)

Uno studio critico del diritto, come delle altre scienze sociali, sollecita ad allargare l’orizzonte della ricerca oltre la purezza e la compiutezza dei rispettivi ambiti e sistemi, senza per questo smarrire il proprio ruolo e punto di vista. A storicizzare i temi; a prestare attenzione ai conflitti che accompagnano i mutamenti e agli interessi che originano quei conflitti; ad aprirsi agli altri saperi, come anche alla letteratura, che riporta lo studioso al contesto storico e culturale in cui si collocano i propri oggetti di studio e ai contenuti etici e umani di quegli oggetti[1].

A questo proposito, opere come Bartleby lo scrivano, di Melville, e una poesia di Brecht, nota come Il giudice democratico o L’esame per ottenere la cittadinanza, possono avere qualcosa da dire riguardo alle discipline migratorie in atto nel Mediterraneo per la capacità che questi testi hanno di sollecitare una riflessione sulle capacità del diritto di fare i conti con quelle formule, a un primo ascolto, ‘incomprensibili’: con quelle istanze che faticano ad essere ricondotte all’interno di ciò che è diffusamente ritenuto il ‘paradigma giuridico’ e delle soluzioni che questo appronta.

La voce narrante di Bartleby[2] è quella di un avvocato: un «uomo posato», la cui «virtù capitale era la prudenza e, subito dopo, il metodo» (5), il cui studio «si trovava al primo piano del N … di Wall Street» (7). Un aumento del carico di lavoro induce il legale ad assumere un quarto scrivano, Bartleby (di seguito, B.); i primi tempi «B. smaltì un’incredibile quantità di lavoro» (23) e, dunque, è comprensibile la «costernazione» dell’avvocato quando, un giorno, alla sua richiesta di esaminare un atto, B. risponde con quel I would prefer not to che inaugura la progressiva sottrazione di B., che da quel momento, senza una spiegazione, smette di lavorare, limitandosi a ripetere quella formula che l’ha reso famoso. Quel comportamento suscita nell’avvocato inquietudine e compassione, ma dinanzi al fallimento di ogni tentativo di richiamare B. al suo lavoro, o almeno a spiegare quella condotta, il legale licenzia lo scrivano, il quale, però, si rifiuta di lasciare l’ufficio; l’avvocato, incapace di allontanare l’ex copista, trasferisce lo studio e il proprietario dello stabile fa arrestare B. per vagabondaggio, che in prigione si lascerà rapidamente morire d’inedia.

 

Foto di Ilaria Milano (Fonte: Ilaria Milano)

Nella poesia di Brecht, un oste italiano si presenta «davanti al giudice che esamina coloro / che vogliono diventare cittadini degli Stati Uniti». Alla domanda del giudice: «che cosa dice l’ottavo emendamento?», l’oste «rispose esitando: / 1492». Il giudice, «poiché la legge prescrive al richiedente la conoscenza della lingua nazionale», respinge la richiesta dell’oste. La scena si ripete e ogni volta, alle domande del magistrato, l’oste risponde invariabilmente: «1492». Il giudice, a questo punto, «s’informò sul modo come viveva» l’oste, perché provava «simpatia per l’uomo» e ne comprendeva il «disagio per la sua ignoranza della nuova lingua», e «alla quarta seduta il giudice gli pose la domanda: / quando / fu scoperta l’America? E in base alla risposta esatta, / 1492, l’uomo ottenne la cittadinanza».

Foto di Ilaria Milano (Fonte: Ilaria Milano)

Tornando a Bartleby, il racconto è narrato tutto in interni; B. passa da uno spazio chiuso a un altro e i tanti muri che costellano il testo riflettono le cesure nel rapporto tra questi e l’avvocato. Lo studio, in “Wall” Street, non ha vista, affacciando da una parte su un muro bianco e dall’altra su uno nero, e non ha vita, è «deficient in what landscape painters call “life”» (6); nell’ufficio, gli spazi sono organizzati in modo che B. sia a portata di voce dell’avvocato, ma nascosto alla sua vista. Altrettanto importanti nel racconto sono i non detti: il silenzio sul nome dell’avvocato e sull’ubicazione dello studio – a suggerire una uniformità di visioni e di condizioni professionali, un’alienazione – e, soprattutto, il non detto della formula di B., che nel suo sporgersi su un indefinito infinito mostra tutta la potenza e la radicalità dell’exit che mette in atto.

Qui, però, interessa più quel che l’avvocato dice, come tenta di confrontarsi con lo scrivano. Ai “preferirei di no” di B. corrispondono, infatti, gli insuccessi comunicativi del legale, che nel corso della narrazione agisce secondo tre approcci che ne riflettono i valori e gli universi etico-culturali di riferimento: giuridico, economico-professionale e religioso. L’avvocato è sinceramente animato da buone intenzioni, e per convincere B. intensifica progressivamente i richiami ai suoi doveri professionali e giuridici, senza comunque uscire dagli schemi di una razionalità giuridica rigidamente formale e calcolante che barcolla davanti al mantra di B. e mostra i limiti di un paradigma giuridico che faccia rigidamente ed esclusivamente riferimento a quegli schemi[3]. Dinanzi al fallimento di quella razionalità, l’avvocato si affida alla sfera religiosa, per quanto glielo consenta la sua condizione professionale e borghese: per senso di carità non allontana B. dallo studio, ma per tutelare la reputazione e gli affari trasferisce lo studio altrove.

L’avvocato non riesce a entrare in relazione con B. In Bartleby, un diritto prigioniero della “purezza” e dell’autosufficienza dei suoi enunciati non ‘sente’ l’urlo muto di B. e finisce per offrire risposte insensate e violente, punendo per vagabondaggio chi non aveva alcuna intenzione di spostarsi. Questo, invece, non succede al giudice della poesia, che davanti a quel “1492” prova «simpatia per l’uomo» e cerca di capire, s’informa e muta di conseguenza il suo modo di rapportarsi con la formula, entrando in comunicazione con l’oste, rispondendo a un’istanza di riconoscimento secondo un agire mosso da una «idea di diritto come ricerca della verità probabile nel campo dell’opinabile»[4]. Le formule dello scrivano e dell’oste mettono in crisi i loro ‘interlocutori giuridici’; chiedono qualcosa che questi, almeno di primo acchito, non riescono ad ‘afferrare’, fuoriuscendo ed evidenziando i limiti di una concezione rigidamente formale e autoreferenziale del diritto.

Agli occhi di un giurista la figura dell’avvocato potrebbe incarnare un diritto concepito essenzialmente come un sistema gerarchico di regole – poste da organi ad hoc e secondo forme prestabilite – che rappresentano e impongono una volontà generale e astratta, mentre quella del giudice sembra rimandare a un diritto più controversiale e dialettico, quale strumento di una ponderazione di argomenti e interessi orientata alla soluzione di un caso concreto e che poggia su una idea ‘cooperativa’ del procedimento di valutazione giuridica. Questa dualità ius/interpretatio è antica quanto è antico il diritto, su di essa si dividono le grandi famiglie giuridiche occidentali e dibattono generazioni di giuristi, ma qui non si tratta di abbracciare l’una o l’altra posizione, quanto piuttosto di ricordare che, quando parliamo di diritto, parliamo di un fenomeno che si sviluppa entro queste due polarità. La prima, manifestazione degli antagonismi sociali; la seconda, riflesso della necessità di una composizione, inevitabilmente contingente e situata, di quei conflitti[5]. Qui interessa piuttosto la capacità che hanno i due testi di ricordare ai giuristi e agli altri studiosi della convivenza i rischi e i guasti dei sistemi chiusi e dei solipsismi metodologici, sfidando quegli approcci e ripresentandogli i conflitti che tendono talvolta a rimuovere e nei quali, invece, si radicano i principi e gli interessi che il diritto è chiamato a tutelare.

In questa prospettiva, le due opere potrebbero avere qualcosa da dire anche riguardo al vigente diritto dell’immigrazione.

Il tema migratorio è esplicito nella poesia di Brecht, che ci ricorda di quando noi eravamo i migranti, la fatica e il disagio di inserirsi in un’altra realtà, e ci invita a riflettere su quei test di lingua che costituiscono un significativo indicatore delle ambiguità e delle degenerazioni delle politiche cosiddette “di integrazione”. Anche il racconto di Melville, tra le righe, offre spunti di riflessione sulle attuali questioni migratorie. Ne parlano i muri disseminati nel racconto, la costante condizione di ‘internamento’ in cui vive B. e la prima descrizione che Melville ne offre, di una figura «sbiadita nella sua decenza, miserabile nella sua rispettabilità, così disperata nella sua solitudine» (23). Ne parlano, infine, i fallimenti comunicativi dell’avvocato, la sua sordità verso la formula di B. e l’assurdità e la violenza delle risposte che il diritto può offrire quando un fenomeno non si lascia ridurre alle sue consolidate categorie.

Storicamente, le migrazioni portano lotte per il riconoscimento e per i diritti, tanto più aspre quanto più irragionevoli sono le discipline che pretendono di irreggimentare quei movimenti di persone. A volte, queste derive normative generano controversie in cui si riconosce che non sempre obbedire è giusto, e che è lecito svincolarsi da regole irrispettose dei princìpi fondamentali. Che il capitano di una nave che trasporta persone bisognose di assistenza può disobbedire a un divieto di ingresso in porto, perché sta adempiendo a un dovere di soccorso previsto da una norma consuetudinaria di rango costituzionale che una legge o un decreto non possono limitare[6]. Che non commettono reato i migranti che organizzano una rivolta a bordo della nave che li sta riportando in un Paese in cui rischiano la vita, o di subire trattamenti inumani e degradanti[7]. Che, non per lucro ma per solidarietà, si può prestare aiuto all’ingresso, alla circolazione o al soggiorno di stranieri irregolari, perché quel comportamento sostanzia un “diritto ad aiutare gli altri” riconducibile al principio di Fraternité[8].

Le migrazioni pongono questioni incomprensibili a un diritto chiuso in logiche autoreferenziali; i due testi letterari, in questa chiave, sollecitano i giuristi ad allargare orizzonti e itinerari di analisi senza smarrire il loro specifico punto di vista, a ripensare la regolazione di dinamiche migratorie che faticano a essere contenute dai muri che ovunque gli si erigono contro e che sfuggono alle logiche – sempre più sicuritarie e utilitariste, bipolari e inadeguate – in cui le collocano le vigenti discipline.

Lo scrivano e l’oste continuano a dirci che, a volte, può essere il caso di ‘ripensare le domande’, integrare i punti di vista, e lo ricordano non solo ai giuristi e agli operatori del diritto, ma a ogni studioso che non intenda ridursi ad ausiliario del potere e del controllo sociale.

[1] V. ad es. A.A. Cervati, Per uno studio comparativo del diritto costituzionale, Giappichelli, 2009, 1 ss., 47 ss. e 127 ss. e F. Ost, Raconter la loi. Aux sources de l’imaginaire juridique, Odile Jacob, 2004.

[2] Per le citazioni si fa riferimento a H. Melville, Bartleby, the Scrivener. Bartleby lo scrivano, Einaudi, 1994.

[3] Si v. P. B. Harris, I limiti del paradigma giuridico nei racconti di Melville: “Bartleby lo scrivano” e “Billy Budd”, in Ritorno al diritto, 4/2006, 79 ss. e A. Vespaziani, Il silenzio di Bartleby: un lamento per la fine dell’equità, in Id., Costituzione, comparazione, narrazione. Saggi di diritto e letteratura, Giappichelli, 2012, 67 ss.

[4] Così S. Niccolai, Dissenso e diritto costituzionale. Appunti per una riflessione, in Questione giustizia, 2015, 68.

[5] Cfr. ad es. F. Cerrone, Appunti intorno a interpretazione e principi (con particolare riferimento alle fonti del diritto) nel pensiero di Alessandro Giuliani, in F. Cerrone, G. Repetto (cur.), Alessandro Giuliani: l’esperienza giuridica tra logica e etica, Giuffré, 2012, p. 617 ss.

[6] C. Cass., sez. III, penale, sent. 6626/2020.

[7] Trib. Trapani, 23 maggio 2019, Vos Thalassa.

[8] Cons. constitutionnel, dec. n. 2018/717-718, M. Cédric H. et autre.

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