La violenta riconfigurazione dell’Aquila

Sei domande a Gian Maria Valent, geografo e militante anarchico.

Militari L'Aquila Valent
Nostalgia dei militari nel centro storico nel 2015. Foto di Gian Maria Valent.

Il 6 aprile 2019 è stato il decimo anniversario del terremoto dell’Aquila, punto di partenza di una rete formale e informale di pratiche e riflessioni che ha portato alla nascita del nostro spazio Sismografie e ad un rinnovato interesse delle scienze sociali italiane ai Risk e Disaster Studies. Come curatori di questo spazio di dialogo all’interno del Lavoro Culturale, abbiamo scelto di intervistare chi, da vari punti di vista, ha analizzato il post-disastro all’Aquila (che continua). Non abbiamo chiesto di proporre soluzioni, ma riflessioni da angolature probabilmente poco battute nell’inevitabile flusso mediatico di queste settimane, persistenze della messa in scena di una Via Crucis emergenziale ormai assurta a caso studio internazionale. Ridare voce a ricercatori e ricercatrici e ad aquilane ed aquilani ci sembra possa continuare il lavoro di straforo che da otto anni e quasi 90 articoli intessiamo per proporre una visione differenziale sullo studio e la gestione del rischio e dei disastri nel nostro Paese. Dopo la prima intervista a Lina Maria Calandra, la seconda a David Alexander e la terza a Isabella Tomassi, intervistiamo Gian Maria Valent, geografo e militante anarchico, che si è occupato degli aspetti di controllo sociale insiti nelle operazioni di rinnovo urbano, delle soluzioni abitative autonome di gruppi marginalizzati e degli aspetti sociali e politici nel post terremoto all’Aquila. Attualmente continua la sua ricerca indipendente come geografo simultaneamente alla professione di tecnico agrario.

In questi anni, le tue ricerche si sono concentrate sulla riconfigurazione territoriale all’Aquila. Cosa intendi per riconfigurazione territoriale e quali sono le sue caratteristiche spaziali e sociali?

Per riconfigurazione territoriale intendo un cambiamento nei rapporti fra gli elementi del territorio e delle persone che lo abitano, che non si limita a ridefinire aspetti secondari della città e del territorio circostante, ma ne coinvolge la struttura fondamentale.

Come credo sia ben noto a chi si è interessato anche di sfuggita dell’Aquila, prima del sisma il fulcro del territorio aquilano era il centro storico, sia in termini economici -secondo le indagini ISTAT 2007, il 70% del PIL era lì generato- sia in senso culturale e simbolico, come simbolo d’identità e luogo di socialità e aggregazione. Nei mesi dopo il 6 aprile 2009 il centro è stato completamente chiuso tramite la creazione della “Zona Rossa” e per lungo tempo non è stato toccato da lavori di nessun genere. Questo, naturalmente, lo ha destituito delle sue funzioni, che sono migrate in periferia.

Oltre a questo, la cittadinanza è stata spostata e reinsediata in vari modi e in siti diversi, come ben sappiamo: dagli alberghi e le tendopoli dei primi tempi ai progetti CASE a tutta una serie di sistemazioni autonome. Il territorio ha subito dunque una gran varietà di interventi come nuove urbanizzazioni, nuove strade, la costruzione di centri commerciali e anche di casette in aperta campagna. Il tutto ha aumentato considerevolmente la dispersione urbana, già piuttosto elevata anche prima del terremoto.

Questo ha portato a una ridefinizione complessiva dei rapporti fra le varie parti del territorio e le persone che lo abitano. Intendiamoci: ridefinire questi rapporti può anche essere positivo, ma dovrebbe essere un processo di lunga durata, che segue l’evoluzione di ambiente fisico e componente umana, un processo negoziato e condiviso. Il decentramento e la frammentazione urbana all’Aquila sono invece avvenuti all’improvviso, a causa del terremoto certo, ma anche e soprattutto a causa delle scelte compiute dall’amministrazione commissariale, che ha privilegiato un approccio “edilizio”, tra l’altro volto più a fabbricare i progetti CASE in aree rurali che a ricostruire gli edifici danneggiati, trascurando la ricomposizione del tessuto sociale.

Il tipo di frammentazione urbana in atto all’Aquila è sia fisico che sociale. È visibile fisicamente nelle isole dei progetti CASE.  È visibile socialmente, con l’allontanamento delle persone dai propri luoghi di vita e le une dalle altre, e allo stesso tempo la loro concentrazione in gruppi di edifici progettati e costruiti come puri agglomerati di alloggi, mancanti come sono di spazi pubblici e servizi di vicinato.

Quella occorsa all’Aquila non è una frammentazione determinata da forze socioeconomiche, da processi di lungo periodo, nel corso dei quali i cittadini possono mettere in atto strategie di contrasto o, nel caso peggiore, adattarsi. Né, tantomeno, i progetti CASE sono veri quartieri. All’Aquila la frammentazione è stata rapida e guidata dai parametri di assegnazione della Protezione Civile. Verosimilmente sarà di lunga durata, perché i progetti CASE rimarranno e dovranno essere utilizzati per l’unica funzione che possono assolvere, quella di quartieri dormitorio. Da ultimo, non è escluso il rischio che alcuni di essi possano diventare semi di urbanizzazione e generare ulteriore frammentazione sociale e fisica, marchiando la futura evoluzione territoriale dell’aquilano col segno dell’amministrazione commissariale.

Inoltre, i diciannove siti di nuova urbanizzazione dei progetti CASE sono stati ordinati, finanziati e costruiti in modo talmente repentino da far pensare che fossero già nel cassetto, una soluzione preconfezionata in attesa di un evento che la rendesse operativa, e che L’Aquila sia stata un teatro sperimentale per questo tipo d’intervento.

Infine, e questo è il dato per me più rilevante, la riconfigurazione territoriale in tutti i suoi aspetti è stata ed è tuttora frutto di decisioni arbitrarie prese da soggetti esterni al territorio: Presidenza del Consiglio, commissario, DiComaC. Nessuna decisione sul futuro dell’aquilano è stata lasciata a cittadini e autorità locali.

Collegandoci a questo, in un tuo recente articolo hai affermato come la riconfigurazione territoriale sia frutto della violenza di Stato. Puoi spiegarci cosa intendi, e cosa comporta e rappresenta da un punto di vista politico?

In questo caso la violenza è da intendere in un senso diverso da quello assegnatole di solito. Non uso il termine violenza per definire un atto ben delimitato nel tempo, come per esempio una carica della polizia durante una manifestazione -che pure c’è stata, a Roma- o uno sgombero forzoso da parte dell’esercito. La violenza si può esercitare togliendo a qualcuno la capacità, ma soprattutto la titolarità, di decidere e di agire.

La sottrazione deliberata di diritti politici è violenza; una violenza che vediamo sempre più di frequente, con un sistema di democrazia nel quale il ruolo dei cittadini è limitato alla delega in bianco ogni cinque anni a una classe di politici professionisti –professionisti per la retribuzione, non certo per la competenza- ed è impedita ogni ulteriore partecipazione alla vita pubblica. Una violenza che all’Aquila si è dispiegata senza incontrare ostacoli, almeno nei primi tempi, nei dieci mesi dell’amministrazione del commissario.

Via Sallustio nel 2015. Foto di Gian Maria Valent.

Il modello di intervento messo in campo all’Aquila è stato paternalistico e autoritario. I cittadini sono stati “minorennizzati”, trattati come persone da gestire e non come soggetti attivi. Lo si è visto nelle tendopoli, nelle quali erano perfino vietate le assemblee e le persone dovevano rispettare regolamenti diversi da campo a campo e che dipendevano dall’arbitrio di chi dirigeva. Lo si è visto nell’allontanamento di migliaia di cittadini verso gli alberghi sulla costa; lo si è visto con la chiusura delle forniture idriche ed elettriche al campo di Piazza d’Armi in autunno 2009, per costringere gli sfollati ad andarsene dopo che quelli avevano deciso di restare per non essere allontanati dalla loro città. Per citare solo alcuni esempi diretti di coercizione verso le persone.

Ma c’è ancora un altro genere di violenza, meno riconoscibile perché diretto verso soggetti che nel senso comune non si ritengono in grado di subire violenza. Parlo delle istituzioni locali e del territorio, ma anche dello stesso ordinamento democratico. Ora, questa potrebbe essere vista come un’esagerazione, ma consideriamo un momento l’enorme quantità di deroghe a leggi e regolamenti adottate all’Aquila, oltre alla discrezionalità assoluta di cui godeva il commissario Bertolaso e che si riversava a cascata in tutta la struttura commissariale attraverso DiComaC e COM.

Il numero e la qualità delle deroghe all’Aquila sono stati impressionanti: oltre 100 articoli di legge, riguardanti disciplina dei contratti pubblici, procedure d’esproprio, disciplina delle procedure amministrative e accesso agli atti, regole di servizio per i pubblici dipendenti, e addirittura le regole per la protezione dei cittadini da lavori nocivi. Questo solo in base all’ordinanza 3753 del Presidente del Consiglio del 6 aprile, che contiene anche una novità rispetto ai decreti di emergenza precedenti: una frase alla fine dell’elenco puntuale degli articoli di legge derogati estende la deroga a tutte le leggi e i regolamenti connessi agli interventi normati dall’ordinanza. Praticamente tutto.

Capiamo bene pertanto che se la certezza del diritto è un fondamento della democrazia, qui il gioco salta e lo stato rivela in pieno il suo volto autoritario. Non a caso in un precedente lavoro ho parlato di “prassi metalegale”, perché le leggi sono aggirate e messe da parte in forza di atti emanati da autorità dello stato. Le leggi che sono di ostacolo semplicemente possono essere ignorate. Questa a mio modo di vedere è violenza. Non solo figurata, non solo verso le autonomie locali e l’ordinamento democratico: le azioni intraprese sotto l’ombrello della deroga e della discrezionalità hanno poi effetti sulla vita e sui corpi fisici delle persone, quindi è una violenza che ricade di nuovo sui cittadini.

Parlavo prima delle deroghe indeterminate: dopo L’Aquila sono state introdotte anche nei decreti per il sisma dell’Emilia del 2012 e dell’Italia centrale del 2016. Sono diventate moneta corrente: quando succede un disastro si cancellano le leggi, le regole non valgono più. L’Aquila avrebbe potuto essere un esempio dal quale imparare che se non si predispongono regole e procedure certe, al momento di intervenire regna l’arbitrio dei singoli plenipotenziari. Si sarebbero potute trarre lezioni dalla tragedia per creare una serie di procedure d’emergenza da attivare in caso di bisogno. Invece, si è preferito restare sulla deroga totale e indeterminata, sull’incertezza e sulla discrezionalità.

In questo senso L’Aquila è stata un laboratorio, un luogo di sperimentazione di pratiche autoritarie, da replicare con l’ombrello dello stato d’emergenza nella gestione delle situazioni più disparate come grandi opere, impianti nocivi, installazioni militari. La deroga risolve tutto, ed è una violenza fatta ai cittadini. Ancora più subdola in quanto non viene percepita come tale per la sua natura procedurale e non fisica.

Nello stesso articolo consideri il ruolo dei COM (Centri Operativi Misti) come strategico nella riconfigurazione territoriale all’Aquila. Perché? Cosa sono i COM e che ruolo -anche politico- hanno avuto?

I COM sono strutture destinate a gestire l’emergenza in supporto alle autorità locali, previste dal D.P.R. 6 febbraio 1981 n° 61. Nel testo sono contenute indicazioni (anche se non propriamente prescrittive) riguardo la composizione territoriale dei COM, che coincide coi limiti comunali nel caso di comuni di grande estensione oppure prevede l’unione di più comuni piccoli. Il glossario della Protezione Civile definisce i COM come “strutture operative comunali (per comuni di una certa dimensione) o intercomunali per l’emergenza”. I piani di protezione civile adottati in diverse regioni e province italiane prevedono che i COM siano costituiti preventivamente al fine di avere, in caso di emergenza, strutture di pronta risposta già operative.

Svendita di puntelli nel 2015. Foto di Gian Maria Valent.

All’Aquila gli otto COM sono stati perimetrati all’improvviso solo in seguito all’evento sismico e in modo anomalo: il territorio comunale dell’Aquila è stato suddiviso fra tre diversi COM, mentre un altro COM (il n° 4) ha avuto la sede in un luogo fortemente eccentrico rispetto alla zona di competenza, generando comprensibili difficoltà gestionali e logistiche che risultano anche da una lettera del responsabile della struttura. Ho cercato invano, nei decreti costitutivi dei COM firmati dal commissario Bertolaso, i criteri seguiti per la perimetrazione. Ora non starò a elencare tutte le funzioni devolute ai COM, ma erano tutte rilevanti e comprendevano sanità, assistenza alla popolazione e logistica evacuati. Funzioni importantissime per le persone, che si sono trovate a dipendere da uffici diversi, pur abitando nello stesso comune.

Ma a parte la confusione e l’incertezza generate da questa suddivisione, la criticità fondamentale dell’utilizzo dei COM all’Aquila riguarda le competenze, che si sono sovrapposte e quindi, in forza dei decreti commissariali, hanno scalzato quelle delle amministrazioni locali. Secondo la legge 225/1992 il sindaco è sempre la prima autorità di protezione civile. All’Aquila tutte le decisioni di una certa rilevanza venivano prese dalla catena di comando che faceva capo al Commissario e gerarchizzata in COM e DiComaC.

Tra l’altro la DiComaC ha fatto la sua prima apparizione proprio all’Aquila, perché a differenza dei COM non era prevista da nessuna fonte normativa. Dopo l’Aquila è diventata strumento operativo abituale, tanto da ritrovarla nella gestione dei terremoti sismici successivi come in Emilia e Centro Italia. Questa struttura, cui facevano capo i diversi COM, è servita a verticalizzare il processo decisionale e operativo; non a caso è l’acronimo di Direzione Comando e Controllo.

Nella gestione dell’emergenza aquilana c’è stato dunque un ribaltamento del principio di sussidiarietà, che prevede l’intervento prioritario dei livelli amministrativi più vicini al cittadino e solo nel caso in cui questi si trovino di fronte un compito che non riescono ad assolvere, si può -e si deve- attivare livello istituzionale più alto.

Oltre ad essere un principio generale cui l’azione istituzionale dovrebbe attenersi correntemente, la sussidiarietà è anche prevista dalla legge 225/92 sulla Protezione Civile, che nelle emergenze prevede un ruolo centrale per i sindaci. Certo, la nomina di un Commissario e la delega di funzioni, così come la deroga ad alcune leggi non costituiscono una novità nel panorama della gestione emergenziale, ma all’Aquila la struttura commissariale ha travalicato i limiti abituali, come abbiamo visto ampiamente prima. Quindi all’Aquila i COM, da strumenti di supporto e coordinamento dell’attività dei Comuni, sono stati trasformati in strumento per esautorare i comuni stessi.

Uno dei documenti strategici chiave della ricostruzione è stato un documento OCSE che ha definito le retoriche territoriali e di sviluppo della “nuova” L’Aquila. Quali sono queste retoriche e come hanno influenzato la città post-terremoto?

Il documento redatto dall’OCSE e dall’Università di Groeningen nel 2012 su mandato del governo italiano, dal titolo “Rendere le regioni più forti in seguito a un disastro naturale / Abruzzo verso il 2030: sulle ali dell’Aquila” presenta aspetti di grande rilevanza, e non capisco perché sia stato esaminato da così pochi studiosi che si sono occupati dell’Aquila. Per quanto ho potuto appurare, solo il blog Eddyburg dell’urbanista Edoardo Salzano se ne è occupato. Essendo stato presentato nel 2012 può essere visto come una sistematizzazione ex-post delle linee guida che hanno informato la gestione dell’emergenza e hanno gettato le basi per la ricostruzione.

Una via del centro all’Aquila, ancora sotto ricostruzione nel 2018. Foto di Gian Maria Valent.

Il documento è totalmente in linea con le logiche del capitalismo neoliberale: è fortemente “business oriented”, non si occupa minimamente di quando e come i cittadini sfollati potranno tornare alle proprie case, mentre insiste sulla necessità di sviluppare un “marchio territoriale” e fa altre considerazioni su come incrementare il valore di scambio di città e territorio in futuro. Deplora l’idea di una ricostruzione “com’era e dov’era”, non tanto per ricercare soluzioni che possano migliorare quello che prima non funzionava incrementando il valore d’uso per i cittadini, ma solo per creare nuovi spazi di consumo e turismo. Turismo che ovviamente non è una cosa negativa in assoluto, ma lo diventa quando una città subisce una gentrificazione turistica con il proliferare di affitti a breve termine che rendono gli alloggi irraggiungibili per le normali famiglie di lavoratori, studenti, pensionati. Non credo che L’Aquila possa subire il fenomeno in forme estreme come Venezia, troppo diverse sono le condizioni di partenza e i flussi turistici, ma la logica sottostante è la medesima.

Analizzando il documento ho voluto anche fare un piccolo conteggio dei termini utilizzati: la parola “cittadini” è menzionata 14 volte, contro le 41 della parola “aziende”; il termine “marchio” 11 volte, tante quante la parola “sociale”. Al di là di questi dati puramente numerici, il carattere neoliberale del documento è chiaramente definito dall’esortazione a una reinvenzione “creativa” della città e soprattutto dall’affermazione che il terremoto è stata sì una tragedia, ma anche un’opportunità. Appena ho letto quella frase ho realizzato di averla già trovata in precedenza in circostanze analoghe: l’aveva scritta praticamente identica il guru della “scuola di Chicago” Milton Friedman, parlando dell’uragano Katrina che devastò New Orleans nel 2005. Un’opportunità per fare nuovi affari e riconfigurare un territorio secondo un modello economico orientato al profitto e al valore di scambio.

È certamente difficile dare soluzioni, tuttavia quali sarebbero dovute essere le principali peculiarità territoriali aquilane da tenere in considerazione nella gestione dell’emergenza e della ricostruzione?

Mio malgrado, non sono un esperto dell’aquilano com’era prima del 2009. Mi sono occupato della questione solo in seguito viste le ricadute politiche estremamente gravi che secondo me andavano affrontate dal giusto punto di vista. Il mio lavoro si concentra soprattutto sul “lato oscuro”, sulle azioni autoritarie del potere. Per queste ragioni non posso rispondere alla domanda con la necessaria competenza. Posso però dire che una soluzione diversa dalle imposizioni autoritarie c’è sempre, ed è la partecipazione. Una partecipazione che non è -o non è necessariamente solo- quella mediata dalle istituzioni con i bilanci partecipativi e altre forme di consultazione. La partecipazione per essere effettiva deve venire dal basso, dall’autorganizzazione dei cittadini, e non solo in occasione di eventi drammatici ma come prassi ordinaria di gestione dei propri luoghi di vita.

Essendo un convinto libertario, mi sento di spezzare una lancia in favore del municipalismo libertario, delle organizzazioni di base di cittadini che si uniscono per farsi parte attiva nel governo dei territori. Le pratiche autoritarie fanno molta più fatica a dispiegarsi dove già esistono organizzazioni di base stabili e attente.

All’Aquila alcune organizzazioni sono nate dopo il sisma, presumibilmente in reazione alla gestione autoritaria del commissario. Ecco, intanto andrebbero rese permanenti e rafforzate, mettendole in grado di intervenire non solo sulla ricostruzione, ma sul governo complessivo del territorio. Tanto per mettere i bastoni fra le ruote alle linee guida del documento OCSE di cui parlavamo prima. E la nascita di organizzazioni di base permanenti è praticamente l’unica soluzione che mi viene in mente per evitare che simili modelli di gestione autoritaria vengano applicati in futuro.

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