Politica dell’autocostruzione

Sei domande alla filosofa Isabella Tomassi sull’Aquila.

Il 6 aprile 2019 è stato il decimo anniversario del terremoto dell’Aquila, punto di partenza di una rete formale e informale di pratiche e riflessioni che ha portato alla nascita del nostro spazio Sismografie e ad un rinnovato interesse delle scienze sociali italiane ai Risk e Disaster Studies. Come curatori di questo spazio di dialogo all’interno del Lavoro Culturale, abbiamo scelto di intervistare chi, da vari punti di vista, ha analizzato il post-disastro all’Aquila (che continua). Non abbiamo chiesto di proporre soluzioni, ma riflessioni da angolature probabilmente poco battute nell’inevitabile flusso mediatico di queste settimane, persistenze della messa in scena di una Via Crucis emergenziale ormai assurta a caso studio internazionale. Ridare voce a ricercatori e ricercatrici e ad aquilane ed aquilani ci sembra possa continuare il lavoro di straforo che da otto anni e quasi 90 articoli intessiamo per proporre una visione differenziale sullo studio e la gestione del rischio e dei disastri nel nostro Paese. Dopo la prima intervista a Lina Maria Calandra e la seconda a David Alexander intervistiamo Isabella Tomassi, dottoranda in geografia, urbanistica e pianificazione all’Université de Lyon 2 (UMR Triangle, ENS/Lyon), a lungo occupatasi delle questione aquilana dapprima come attivista nel Comitato 3e32, poi come abitante dell’esperienza autonoma di EVA, l’EcoVillaggio Autocostruito di Pescomaggiore (di cui parleremo in questa intervista), e ora come studiosa.

Subito dopo il terremoto hai fatto parte di EVA, un’esperienza certamente unica in Italia, almeno in contesti post-disastro, e poco usuale anche nel panorama globale. Puoi raccontarci brevemente cos’è EVA?  E cosa lascia un’esperienza di autocostruzione a una persona e una comunità colpite da un disastro?

EVA è stato un esperimento di autocostruzione e autogestione di un villaggio formato da cinque case in paglia, un impianto di fitodepurazione, degli impianti di solare termico, un impianto elettrico co-gestito, orti e agricoltura con semenze locali, sorto dopo il sisma a Pescomaggiore, una piccola frazione dell’Aquila a 15 km dal centro.

L’autocostruzione, nel contesto di una catastrofe gestita come un “miracolo”, come un “favore” personale del capo dello Stato, ti dà dignità. E questa eredità è la conquista maggiore di quella grande sfida. Questa dignità diventa il livello non contrattabile col “comando e controllo”, diventa autodeterminazione e anche autonomia. Il potere emancipatorio dell’autocostruzione è la sua cifra più sovversiva. L’esperienza dell’essere gestiti dopo un disastro è un’esperienza di spossessamento. Quello che ti rendeva fino al giorno prima una persona autonoma, degna di ascolto, la cui azione e parola agivano con diritto all’interno di una comunità, vengono delegittimate. Questo rappresenta politicamente il valore più forte dell’autocostruzione: riprendere possesso del senso dell’azione e della parola come azione.

Lavoro collettivo nel cantiere di EVA, settembre/ottobre 2009. Foto di Isabella Tomassi.

Mi sento  però di estendere questa analisi sullo spossessamento anche ad altri luoghi e attività umane che, nella società dei servizi, della delega, dell’assicurazione (e del rischio) devono essere svolte da persone esperte. Questa storia dell’allontanamento dei saperi istituiti dalle conoscenze vernacolari e della loro delegittimazione è comune non solo quando si parla di costruire la propria casa ma anche quando si parla di salute, di protezione dell’ambiente, di educazione, di autoproduzione agricola e artigianale.

Imparando a fare la “mia” casa mi sono resa conto di quanto non sapessi realmente a quali bisogni una costruzione rispondesse, per quali usi potesse essere concepita e quali potessero essere i suoi difetti (perché ce ne sono sempre) e quanto il conoscerli ti protegga dai pericoli, quelli sì, naturali. Per la comunità il fare insieme è la sfida lanciata socialmente all’ambiente, che poi è la storia dell’umanità; una sfida fatta di senso, di ripresa del senso tramite la trasformazione del territorio. Noi con EVA abbiamo trasformato un mucchio di sassi in un piccolo villaggio bello, festoso, solidale, almeno per un po’.

Di fatto autocostruire è stato anche terapeutico. Ha occupato le nostre menti con la speranza, una visione del futuro. Le scienze sociali che si occupano di catastrofi cercano da anni di controbilanciare questo eccesso di delega all’expertise che rende il dibattito pubblico un dialogo esoterico tra iniziati, escludendo di fatto chi è personalmente interessato e coinvolto nonostante quest’ultimo richieda insistentemente di dire la sua. Spesso questo conduce l’abitante a dover diventare “esperto” di una disciplina per essere ascoltato, mentre “l’esperto” resta nella sua torre d’avorio data da un diploma e da una posizione sociale riconosciuta. Quando abbiamo lavorato con Paolo, Fabrizio e Kaleb (gli architetti progettisti di EVA) abbiamo imparato tanto, ma lo scambio è stato costante, alla pari. In questa fase in cui di fatto non sappiamo più fare la nostra casa, l’aiuto di persone volenterose, umili e anche capaci è stato certamente necessario.       

Quanto ci si deve mettere in gioco in una esperienza di autocostruzione? Quali sono i suoi pro e i contro?

Uno degli aspetti più limitati, come ho potuto dire più volte in varie interviste, è che lo sforzo fisico e mentale che necessita quello che abbiamo fatto – e non dico che sia l’unico modo di fare, soprattutto se ci fosse un maggiore sostegno finanziario istituzionale- non sono alla portata di  tutti. Le persone anziane, invalide o con altre problematiche contribuiscono sempre in una comunità ma nell’urgenza del lavoro concreto di cantiere penso che potrebbero venire escluse.

Come far sì che anche i meno abili possano sentirsi partecipi? Semplicemente pensando la cosa, come al solito, non solo dal punto di vista tecnico e efficentista. In un cantiere di autocostruzione, soprattutto informale come il nostro alla fine anche chi ci ha cantato una canzone mentre lavoravamo o preparato un pasto ci ha aiutato enormemente. Sembra naif quello che dico, ma se dobbiamo cambiare paradigma allora dobbiamo cambiare anche priorità e valori, e naturalmente non solo delle fasi di emergenza e ricostruzione. Comunque nella nostra esperienza costruimmo anche per delle persone anziane, come Rita e Gino (che ci hanno lasciati) con un principio di solidarietà che erano fondanti per noi proprio rispetto al cambio di approccio, mentre il loro figlio Piero e sua moglie Anna compivano il loro “dovere” di reciprocità o munus, che è all’origine della parola “co-munità”. 

Mantello di San Martino, creazione collettiva, primavera 2012. Foto: Isabella Tomassi.

Nel nostro caso – e parliamo di un caso che non è assolutamente un modello riproducibile ma un’esperienza unica – un freno, uno dei contro rispetto alla rapidità di risposta necessaria alla buona riuscita del progetto, per non esaurire tutte le forze nella fase di costruzione materiale, sono stati i tempi di trasmissione delle competenze ai volontari che affluivano continuamente anche per periodi brevissimi. Se una persona senza grandi conoscenze nel campo edile, generosamente, poteva offrire solo un fine settimana il tempo che acquisisse la minima dimestichezza con il taglio delle balle o la mistura dell’intonaco, doveva già andare via e uno di noi aveva passato tempo a trasmettere rallentando notevolmente l’andamento generale del cantiere; così come non avere mai la certezza delle presenze e la costanza numerica.

Insomma non un cantiere ottimizzato, programmato, fordista ma un darsi una mano. A un certo punto fu anche una scelta; scegliemmo di dare spazio agli incontri e alla socialità e ai saperi che, anche se non legati alla costruzione, ognuno portava con sé. Meno male che sono venute anche maestranze abilissime ad aiutare che invece hanno accelerato il lavoro: penso agli alpini di Caoria, maestri d’ascia, o all’associazione dei muratori in pensione della piana del Fucino. Un piacere vederli all’opera!

L’esperienza di EVA, almeno come concepita all’inizio, si è conclusa nel 2014 dopo una serie di lunghe vicissitudini. Cosa resta di quell’esperienza, non solo in termine fisico o pratico, ma anche e soprattutto in termini sociali e politici, nella piccola frazione di Pescomaggiore e all’Aquila?

Il lascito materiale è sotto gli occhi di tutti: quattro casette con struttura in legno e tamponature in paglia e una in balle autoportanti con un basamento in copertoni riciclati…vuote. La fitodepurazione, nata da un bisogno tecnico e diventata un’altra azione fiore all’occhiello del villaggio portata caparbiamente avanti da Filippo (uno degli abitanti di EVA), è stata smantellata, i campi non sono più coltivati, etc.; al di là di questo, tuttavia, EVA è stata anche per molto tempo dopo la sua fine una bella storia, quasi incredibile.

Credo che tutte le ore passate a discutere con le persone più disparate, curiosi di ogni genere sulla possibilità di autocostruire una casa sostenibile a basso costo non siano il lascito immateriale più ampio. È stata una piccola rivoluzione culturale, sperammo che anche in altri paesi del cratere si generasse emulazione con EVA, ma non accadde. Evidentemente non si trattò solo di costruire delle casette in paglia e imparare a farlo ma anche re-imparare come si vivesse lì, in un borgo dell’Appennino centrale a mille metri di altitudine. Dove piantare, come e quando? Quali le feste e le consuetudini radicate? Come dare senso, ancora una volta, al paesaggio? Facemmo insieme a Emanuela Cossetti un bel progetto sulla memoria del paese che ci portò, con il supporto economico della Caritas Lombardia, alla ristrutturazione del forno comune, alla bellissima restituzione del lavoro di raccolta nell’iniziativa “Ritessere”1, proprio per cercare di collezionare, sistematizzare e rendere trasmissibile un sapere tacito sui luoghi che, nel migliore dei casi se non fosse andato perduto prima avremmo impiegato anni ad acquisire.

Il forno comune ristrutturato di Pescomaggiore, estate 2011. Foto: Isabella Tomassi.

E poi ci prendemmo l’impegno di coltivare questo sapere nella messa a coltura dei campi abbandonati. Questo per un periodo diede nuovo impulso ad altri per aprire un piccolo b&b; si iniziavano a creare reti e rapporti localissimi per l’allevamento e l’abbattimento indipendenti, tutti temi molto dibattuti rispetto alla ripresa delle “aree interne”. Queste cose erano ancora in nuce, avemmo troppo poco tempo, considerando che la costruzione per sua intrinseca natura, e per come la volemmo noi, prese più tempo del previsto.

Era chiaro per noi che la portata di quello che avremmo potuto fare -e iniziammo anche con il Parco Nazionale del Gran Sasso Monti della Laga, o con l’Amministrazione separata dei beni di uso civico di Paganica, o ancora con le reti nazionali degli ecovillaggi o del CIR 2– era territoriale e poteva diventare anche un polo interessante per gli equilibri della città. Non credo resti molto di questo tentativo. Un punto importante di questo progetto fu messo nel progetto di partecipazione con altri borghi del cratere, “Borghi attivi”, guidato dal WWF di Teramo e che portò all’elaborazione delle linee guida per il riconoscimento e la salvaguardia dei valori invarianti del territorio di Pescomaggiore così come interpretati dagli abitanti.

Copertina delle “Linee guida per lo sviluppo locale e per l’estestica del paese di Pescomaggiore”.

Non c’è cultura poltica legata ai valori dell’autogestione e dell’autonomia, quanto meno espliciti. Vi sono certamente micro resistenze isolate, sabotaggi, boicottaggi di un sistema economico politico assurdo che in montagna si paga caro e passa dalle norme sull’agricoltura e sul paesaggio. Ma qui il discorso diventa troppo ampio. Il lascito di EVA è forse più comprensibile oggi che si è capito, grazie alle tante lotte ambientali a livello globale e anche tramite delle analisi giuste di tanti studiosi giovani che si interessano agli environmental studies, che la questione ambientale, anche quella delle catastrofi e la questione sociale sono inscindibili. Mi riferisco ai fondamentali lavori di A. Berque fino a Laura Centemeri, passando per Keucheyan.

Nella ricostruzione post-disastro l’autonomia (e l’autocostruzione di conseguenza) rappresenta un momento altamente politico. Lo abbiamo visto anche con i dispositivi emergenziali dopo il sisma in Emilia nel 2012 e nel lavoro quotidiano di supporto alle popolazioni colpite e di inchiesta che le Brigate di Solidarietà Attiva (BSA) portano avanti sul “fronte del sisma” da Amatrice in poi. Qual è il suo messaggio politico, secondo te?

Di questi tempi è un discorso molto delicato. L’autonomia alla Ivan Illich, per esempio, è  un’autonomia collettiva che presuppone la maturazione coscienziale, tramite l’educazione di un gruppo rispetto alle pratiche decisionali, per esempio. E quindi si oppone ad eteronomia. Oggi come oggi invece ci si riferisce ad autonomia come sinonimo di libertà dagli obblighi sociali. Questo comporta la liberazione dalle relazioni umane come fonte dei problemi tramite le tecnologie, ad esempio e quindi autonomia diventa isolamento…questo davvero in breve.

Dal primo punto di vista la questione dell’autonomia rimette direttamente in discussione lo Stato, la divisione amministrativa e le sue logiche e strutture pensate per dei territori isomorfi, piatti, uniformi, lisci, irreali. La relazione complessa con il territorio che ho cercato di descrivere precedentemente cercava anche di porre la questione geografica in relazione all’appropriatezza del modello economico/politico che lo sottintende.

Le esperienze delle BSA che conobbi quando gestirono il campo di Tempera, frazione dell’Aquila, e che da allora sono cresciute enormemente, sono per me una parte di questa riappropriazione. Sono la prova che reinvestire le relazioni di prossimità, non in un’ottica di chiusura ma di solidarietà è la vera resilienza che tanto sta a cuore agli studiosi e a coloro che elaborano strategie di politica sociale nel mondo. Insomma, lontano anni luce dalla somministrazione di censimenti, dal comando e controllo, dal management dei corpi e dalle tecniche di ingegneria sociale viste in tante situazioni di gestione ingegneristica di problemi che non si potevano risolvere con il semplice conteggio delle teste da sfamare, esiste il conoscersi, riconoscersi e aiutarsi.

Riunione pubblica nella piazza di Pescomaggiore, estate 2011. Foto: Isabella Tomassi.

Il gruppo di ricerca Emidio di Treviri ha lanciato qualche tempo fa una petizione per chiedere al commissario straordinario Farabollini di includere l’autocostruzione nei finanziamenti statali, sulla base del fatto che autocostruzione significhi anche ricostruzione di tessuti sociali, condivisione di saperi, risparmio economico e snellimenti burocratici. Perché secondo te, nonostante i ritardi e le frequenti difficoltà di gestione e governance dei terremoti, l’autocostruzione non viene presa in considerazione nel nostro Paese?

Ancora oggi continuo a pensare che bisogna difendere l’avvenire dei territori, che è un avvenire indissociabile dalla sua storia trasformata dalle forme degli abitati, dalle diverse maniere di vivere e di resistere, dalle pratiche collettive che si sono inventate. Queste pratiche vengono ad interrogare le norme e propongono delle nuove forme di abitare e costruire da sé stessi, di organizzarsi collettivamente e condividere le infrastrutture (vedi la fitodepurazione o l’impianto elettrico ad EVA), di fare attenzione all’impatto sul territorio, di esplorare ciò che fa comune, localmente di fronte alle sfide del cambiamento climatico. Insomma, interrogarsi sulla norma rende l’accettabilità di un cambio della norma stessa ben più tortuoso e culturalmente difficile in un paese che oscilla tra il malaffare e la moralizzazione della politica come antidoto ai mali strutturali storicamente determinati.

Ad ogni modo questo non è solo un cambio di tecnica costruttiva ma di paradigma, perché significa non più incasellare e separare delle realtà intrinsecamente legate come l’agricoltura, l’abitazione e le attività artigianali e culturali. Noi ad EVA oltre le varie sperientazioni “tecniche” e agricole abbiamo anche fatto una serie di interventi culturali unici come il Serpica Naro camp con il Collettivo SerpicaNaro di Milano, oppure la costruzione di una nuova narrativa locale che includesse le nuove famiglie attorno al tema di S. Martino patrono del paese nelle sue due versioni (sacra e profana) con Anusc Castiglioni, animazione di teatro d’ombra, danza e poesia nella parte abbandonata del paese sempre con Anusc, Marisa Grande e io stessa.

La logica amministrativa cerca di relegare delle esperienze uniche a modelli e questo impedisce un inquadramento come lo si intende per la filiera edile industriale; ovviamente le due cose sono di ordine e senso diversi e dovrebbe esserci un’elasticità che manca al sistema. Queste sono solo poche considerazioni, l’analisi sociale e politica prenderebbe troppo tempo. In Toscana per esempio ci si è arrivati tramite un piano paesaggistico appoggiato su presupposti completamente innovativi (o retroinnovativi) ricreando un patto tra popolazione e territorio in una regione a forte spinta turistica.

Manifestazione “Nell’oscurità delle grotte. Poesia d’ombra” a Pescomaggiore, autunno 2013. Foto: Isabella Tomassi

Cosa manca all’Aquila e a tutti quei territori che, magari dopo anni, sono ancora in piena ricostruzione, tra cantieri, ruderi e macerie?

Mi piacerebbe invece domandarmi cosa si è creato, al di là dei grandi numeri e delle statistiche grossolane, al di là della nostalgia? Dopo dieci anni so che nelle frazioni c’è parecchio fermento anche se in un paesaggio ancora caratterizzato dalle macerie. Sono nate tantissime Associazioni e Comitati anche agguerriti o con degli interessi specifici non trascurabili.

Quello che manca è una visione territoriale di chi amministra la città dell’Aquila, ancora troppo spesso legato a delle logiche centro/periferia obsolete e dannose. Questo progetto di territorio è la vera mancanza, ma d’altronde anche tecnicamente si è data la priorità a dei metodi di analisi e progettazione che partono dal danno e ragionano per Masterplan e non ad una pianificazione di lungo termine, che presuppone una visione di futuro condivisa, alla quale la popolazione aderisca e porti la sua vitalità. Mi pare che quello che manca oggi all’Aquila manchi ovunque e in maniera sempre più preoccupante. Il degrado della periferia romana o pescarese non ha nulla a che invidiare al nostro! Non scherzo, quello che fa la differenza è che noi conserviamo vivido il ricordo di quando non era così perché questo che altrove è un lungo processo di metropolizzazione (non senza contrasti) e sottotraccia da noi ha preso i nove mesi della costruzione del progetto C.A.S.E.

 

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Note

  1. “Ritessere” è stata un’iniziativa svolta in una settimana di lavoro per ricreare in situ i luoghi significativi del lavoro collettivo emersi dai racconti dei pescolani (gli abitanti di Pescomaggiore). Si lavorò insieme alle persone del paese e ad una scenografa per restituire i decori delle ambientazioni nelle stalle, nella vecchia scuola, alla fonte etc… Tutti ricongiunti, tessuti insieme da fili color zafferano che partivano dal centro del paese, realizzati, tinti e posati insieme a chi ci aveva raccontato quelle storie.
  2. Corrispondenze e Informazioni Rurali, una rete di mutuo aiuto della comunità neo rurale che esiste da una ventina d’anni e che produce anche una rivista d’informazione pratica e di appuntamento per il campo di lavoro successivo.
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