Sei domande a David Alexander, uno dei massimi esperti nella gestione dei disastri in Italia
Il 6 aprile 2019 è stato il decimo anniversario del terremoto dell’Aquila, punto di partenza di una rete formale e informale di pratiche e riflessioni che ha portato alla nascita del nostro spazio Sismografie e ad un rinnovato interesse delle scienze sociali italiane ai Risk e Disaster Studies. Come curatori di questo spazio di dialogo all’interno del Lavoro Culturale, abbiamo scelto di intervistare chi, da vari punti di vista, ha analizzato il post-disastro all’Aquila (che continua). Non abbiamo chiesto di proporre soluzioni, ma riflessioni da angolature probabilmente poco battute nell’inevitabile flusso mediatico di queste settimane, persistenze della messa in scena di una Via Crucis emergenziale ormai assurta a caso studio internazionale. Ridare voce a ricercatori e ricercatrici e ad aquilane ed aquilani ci sembra possa continuare il lavoro di straforo che da otto anni e quasi 90 articoli intessiamo per proporre una visione differenziale sullo studio e la gestione del rischio e dei disastri nel nostro Paese. Dopo la prima intervista a Lina Maria Calandra ospitiamo David Alexander, professore di Risk and Disaster Reduction, Institute for Risk & Disaster Reduction, University College London. Uno dei massimi esperti a livello internazionale nel campo degli studi sui disastri, sin dalla fine degli anni ’70 si è occupato di disastri in Italia e dei loro problemi politici, sociali e gestionali. In questi anni ha anche analizzato i problemi della ricostruzione all’Aquila e il controverso “processo dell’Aquila”.
Il sisma aquilano ha rappresentato, nella sua tragedia, un punto di svolta nella ricerca scientifica sociale e umana sui disastri in Italia. Crede che, oltre a questo, il terremoto dell’Aquila sia stato anche un momento significativo -politico, sociale, ecc- nella storia dei disastri in Italia? Perché?
Il terremoto dell’Aquila mi ha colpito di più per la tendenza a non risolvere i problemi. In termini di economia e lavoro continua una fase di stagnazione. Gli interventi infrastrutturali sono stati modesti e tardivi. Le politiche abitative hanno visto un eccessivo prolungamento della fase transitoria. La pianificazione urbanistica e territoriale ha proposto soluzioni inefficienti. Anche le reti solidali sono state -per alcuni aspetti- lacunose. Si è lavorato, in modo leggermente migliore, sulla conservazione e sul restauro del patrimonio storico, artistico e architettonico.
Se dovesse indicare tre caratteri peculiari, significativi – nel bene e nel male – della ricostruzione all’Aquila, quali indicherebbe? Perché?
- Il grande esperimento dei Complessi Antisismici Sostenibili e Ecocompatibili (il Progetto C.A.S.E.). Edifici costosissimi realizzati con pratiche di urbanizzazione e pianificazione assai discutibili, con una visione opaca a lungo termine. La sicurezza degli edifici, inoltre, è stata compromessa dallo scandalo degli isolatori sismici vecchi e malfunzionanti. Insomma, una decisione difficile da comprendere e interpretare, un laboratorio oneroso con un esperimento mal pensato e rischioso fin dall’inizio.
- La mancanza di un piano chiaro e coerente per risollevare l’occupazione e l’economia locale. Lavoratori (qualificati e non) che emigrano in massa a causa della mancanza di abitazioni ed edifici che non consente loro di lavorare, con una conseguente stagnazione dell’economia locale.
- La difficoltà di formare, gestire e mantenere vive tutte quelle esperienze di gruppi emergenti cari alla letteratura sociologica sui disastri. Nonostante avessero ragione, questi gruppi generalmente non sono riusciti ad avere peso e impeto.
Quali sono gli elementi di continuità e di rottura che la ricostruzione all’Aquila ha avuto – o non ha avuto – con le dinamiche attuali di gestione dei disastri a livello globale?
L’esaltazione della fase transitoria ha raggiunto livelli mai visti con le C.A.S.E. e i M.A.P. (Moduli Abitativi Provvisori), delle vere e proprie città finte. In Abruzzo e dintorni si è inoltre sviluppato quello che definisco un ‘fronte del legno’. Questi sono paesi dove da un millennio si costruisce in pietra e recentemente in calcestruzzo. Adesso sono arrivati edifici in legno come se fossimo nelle Alpi. Eppure le strutture anti-incendio di cui e’ dotato il Trentino non esistono in Abruzzo.
Per quanto riguarda il potere politico e la moralità nella vita pubblica, sono convinto che le dinamiche originatesi nei secoli precedenti e descritte da Ignazio Silone in Fontamara e Vino e Pane siano ancora valide, in chiave moderna. Insomma, il peso del passato è un fardello pesante.
Discutere del futuro in un regime di incertezza può sembrare fuorviante, ma in base a quello che abbiamo visto in questi 10 anni, cosa possiamo aspettarci per L’Aquila negli anni futuri?
La ripresa dal terremoto del 2009 è lenta e inefficiente, pertanto prosegue con sofferenza. Non mi sembra si sia configurata in modo tale da esaltare le doti e le buone qualità degli abruzzesi e del loro territorio. D’altronde, quale altro capitale andrebbe speso nella ricostruzione, se non le persone e il loro territorio?
Quanto ha imparato l’Italia dal terremoto aquilano? Se guarda alla gestione dei terremoti successivi, quello dell’Emilia e quello che ha colpito ben quattro regioni del Centro Italia nel 2016-2017, trova continuità e progressi oppure solo discontinuità?
L’Italia ha imparato alcune piccole lezioni, ad esempio riguardo la costruzione di edifici strategici antisismici nei Comuni. C’è comunque una grande differenza tra “L’Aquila 2009” e “Emilia 2012”, regione, quest’ultima, dotata invece di un’attività economica florida. Allo stesso modo, l’Italia ha imparato a dotarsi di alcune procedure amministrative, come le misure antimafia adoperate per tutelare la ricostruzione.
Nonostante questo, molte delle lezioni sono state posticipate. Come organizzare per esempio un sistema assicurativo contro terremoti e altre calamità naturali? Come spostare l’attenzione dalla fase di risposta ai disastri a quella di prevenzione? Come evitare la creazione di ulteriori casi e forme di vulnerabilità? Come dare a queste calamità un peso nella sfera pubblica nazionale, invece di doversi poi lamentare quando i disastri avvengono, accusare quando poi arriva lo scandalo politico, piangere per i morti invece di fornire un’assistenza equa, tempestiva e diretta per risolvere la situazione il prima possibile?
Con il terremoto dell’Aquila è nato lo spazio Sismografie in questo blog, il primo e quasi unico spazio di riflessione e dibattito in Italia che utilizzi le scienze sociali per parlare ad un pubblico più ampio di rischio e disastri. Quanto possono servire le riflessioni sui disastri sviluppate dalle scienze sociali nella gestione dei disastri, e perché, invece, sembrano non essere considerate dai decisori politici e dalla Protezione Civile Nazionale?
A Londra abbiamo formato il Gruppo Radix, un gruppo di discussione per promuovere un’interpretazione “radicale” dei disastri. Potere, finanziamenti e influenza politica sono un insieme di fattori che strangola il dibattito. Bisogna resistere, se necessario seguendo una linea non sostenuta e supportata dai poteri attuali. Oggi abbiamo 101 anni di studi sociali sui disastri, sin dai primi lavori di Samuel Henry Prince in Canada (1917-1920) e degli ecologi umani negli Stati Uniti, come Harlan Barrows (1923). Abbiamo mezzo secolo di ricerca intensa. Con alcune eccezioni, la tendenza in Italia è di copiare ciò che è stato fatto altrove invece di offrire innovazioni ricavate dal ricco patrimonio sociale e dalla sofferenza subita attraverso i disastri. Nonostante i lavori degli storici, pochi altri sono i lavori provenienti dagli altri rami delle scienze sociali. Anche la pianificazione d’emergenza ha bisogno di una forte base filosofica e delle scienze sociali. Questa mancanza dovrebbe essere considerata come una sfida per il futuro.