I consumati, la crisi e la fase suprema del finanzcapitalismo
Marco Ambra
Una suggestione, in questi giorni di temperature polari, mi viene da lontano, da un Seicento di razionalisti e scettici, di filosofi fanti-mercenari e molatori di lenti. Lavoro su immagini che non pensavo potessero saldarsi così bene, come la coltre di neve soffice caduta un paio di giorni fa, diventata in una notte la lastra di ghiaccio che ho appena spalato in cortile.
Sorprendo Cartesio, come me alla finestra, a scrutare la strada e porsi dubbi inquietanti. Alla fine della Seconda Meditazione metafisica pensa di aver costruito un argine contro la forza straripante del dubbio iperbolico: la conquista della certezza del cogito, l’indipendenza della sua natura da quella dei corpi, costringono ad un percorso definito lo sviluppo della scienza moderna, razionale e deduttivo. Ma se l’autoevidenza dell’io e la sua implicazione in ogni atto di pensiero (Freud può attendere) sono tratti dal repertorio tradizionale della scolastica, la radicale alterità della natura del pensiero rispetto a quella del corpo è una novità assoluta. Conscio delle polemiche che lo investiranno, Cartesio afferma la necessità di conoscere l’io indipendentemente dalla natura e dalla conoscenza del corpo. Ne consegue un attacco su larga scala all’empirismo della tradizione aristotelico-scolastica: la conoscenza di una sezione determinata di realtà, come una candela di cera, non si realizza previa esperienza sensibile di essa (io vedo, tocco, posso annusare e perfino masticare la candela e poi me ne faccio un’immagine mentale) ma attraverso la conoscenza intellettuale delle sue caratteristiche ponderabili e formalizzabili nel linguaggio matematico (la lunghezza, il peso, la densità, l’intensità della fiamma). Ed è qui che l’ovattata sicurezza teoretica del Gedankenexperiment col pezzo di cera lascia intravedere spettri in agitazione, dubbi riemersi; è qui che sorprendo il filosofo a scrutare guardingo i passanti dalla finestra. Sì, è vero -ammette infastidito- sono tentato di dire “vedo degli uomini passar fuori dalla finestra” perché li vedo, ma non è così. «Che vedo – si convince e vuol convincerci Cartesio – da questa finestra, se non dei cappelli e dei mantelli, che potrebbero coprir degli spettri o degli uomini finti, mossi solo per mezzo di molle? Ma io giudico che sono veri uomini, e così comprendo per mezzo della sola facoltà di giudicare, che risiede nella mia mente, ciò che credevo di vedere con i miei occhi» [1]. Un esercito di automi, illusioni di umanità concreta, carne morta e meccanismi freddi coperti da mantelli e cappelli, avanza per la strada col passo ineluttabile di chi è stato programmato per compiere un’azione determinata. Automi, pezzi assemblati per costruire uomini artificiali, come quello che il dottor Viktor Frankenstein assembla a partire da organi e parti anatomiche di cadaveri diversi nel romanzo omonimo di Mary Shelley, feroce assassino perché nostalgico di una dimensione umana mai pienamente vissuta. Ma anche zombie, figure animate da una volontà eteronoma, da un desiderio-desiderante. In questo senso l’automa/zombie cartesiano non conserva alcun residuo di “umanità”, è pura superficie, puro comportamento osservabile. Non ha quindi niente in comune (se non il nome) con il personaggio di Mary Shelley o con lo zombie dei film di Romero, con una forza “diversamente umana” nella quale coesistono in un’indissolubile contraddizione il potere di dissolvere i legami sociali borghesi e l’esigenza “umana” di socialità. Sull’automa/zombie cartesiano aleggia il sospetto di una totale assenza di interiorità, sia nella forma cosciente della volizione finalizzata alla realizzazione di uno scopo, sia nella sete inestinguibile del desiderio subcosciente.
Come dissolvere il dubbio che Cartesio vede gravare sulla reale umanità dei passanti? La risposta cartesiana è tutta teoretica: solo rovesciando l’ordine del discorso sulla conoscenza, solo affermando la facoltà intellettiva del giudizio sulla descrizione di quello che vedo hic et nunc.
Guardo anch’io fuori dalla finestra, la neve si è quasi sciolta; sotto pesanti cappotti, fosforescenti piumini, giacche di ogni tipo, i passanti seguono il corso della propria giornata, indifferenti. Mi assale il dubbio cartesiano: e se questi passanti, nell’inverno più freddo della crisi economica 2007-20XX, fossero zombie, cervelli da estrarre, da spremere, da donare per contribuire all’allontanamento del default? L’ha spiegato bene Luciano Gallino: il sistema economico-politico-sociale che alla fine degli anni ’80 -secolo XX- s’è imposto progressivamente in tutto il mondo (o quasi) è una mega-macchina costruita per estrarre valore [2]. Il denaro viene investito per produrre immediatamente una maggiore quantità di denaro. Tutto è lecito per raggiungere questo scopo, dall’aumento dei prezzi delle case attraverso la manipolazione dei tassi d’interesse o delle condizioni del mutuo, all’aumento dei ritmi di lavoro a parità di salario, dalla distruzione di boschi, pianure, montagne, colline per far spazio al cemento, all’immissione sul mercato di prodotti nuovi a prezzi artificiosamente alti. E mentre opera per estrarre valore da tutto ciò che lo permette, la mega-macchina fatta da uomini molto piccoli e poco lungimiranti sottrae a un numero crescente di persone ogni possibilità di lavoro, riforgiando tutti a propria immagine e somiglianza attraverso l’anatema al consumo. Sommersi da una quantità di merci che non riusciranno mai a consumare, i consumatori si rovesciano in consumati [3], in un esercito di zombie mossi dalla succulenta prospettiva di un nuovo cervello da divorare, di un nuovo valore da estrarre, per continuare a non vivere.
Cerco punti di appoggio, punti fermi, stazioni di posta da cui ripartire. Riprendo Wittgenstein dalla mensola polverosa sulla quale è finito. Anche il logico viennese, mi pare, abbia usato l’immagine cartesiana dell’automa, del non vivo, del corpo privo di coscienza: «Ma non posso immaginare che gli uomini intorno a me siano automi privi di coscienza, anche se il loro comportamento è lo stesso di sempre? – Se lo immagino ora – mentre sono nella mia stanza – vedo la gente attendere alle proprie faccende con lo sguardo fisso (come in trance) – forse l’idea è un po’ sinistra» [4]. Più che al sentimento sinistro che questa ipotesi risveglia, Wittgenstein è interessato ai processi psicologici e ai giochi linguistici che investiamo di senso quando crediamo al fatto che un uomo sia uno zombie privo di coscienza o un corpo “abitato” da una mente, e per questo conclude: «Il vedere un uomo vivo come un automa è analogo al vedere una figura come un caso-limite, o variante, di un’altra; per esempio, il telaio a crociera d’una finestra come una svastica» [5]. È la fine degli anni Trenta, le paure di Wittgenstein sono altre, le crociere delle finestre diventano le svastiche che presto entreranno al passo dell’oca nella città di Freud, in tutta Europa. L’uomo del comportamentismo psicologico, la riduzione degli stati interni all’espressione osservabile, è rappresentata dal filosofo austriaco nell’immagine sinistra dell’automa privo di coscienza calata nel quotidiano, della svastica sul braccio del soldato hitleriano in marcia. Ma l’annotazione lascia spazio anche alle mie di paure, allo sguardo sul quotidiano del consumatore/consumato, alla precarietà esistenziale che lavora d’impegno sull’identità del lavoratore non lavorante, allo zombie che ha introiettato le regole del consumo e fatica a seguire le regole della democrazia. E mi dico che forse una chiave di lettura può essere proprio questa: l’impoverimento di senso, la riduzione a valore da estrarre che la mega-macchina del finanzcapitalismo opera su tutto e su tutti. Lo zombie del sistema, il materiale umano fagocitato dalla macchina, è forse solo un caso-limite, un residuo di senso, una rappresentazione ipersemplificata dei bisogni e delle realtà individuali e comuni attraverso cui la macchina stessa, e l’ideologia neoliberista proiettata dalla macchina, impongono una lettura del contemporaneo e dell’umano alla politica. Se Cartesio c’invita ad allontanare l’angoscia dell’orda di non morti (o non vivi) con la forza schiacciante del discorso teoretico, tecnico, necessario, razionale, Wittgenstein propone di ri-collocare la stessa immagine sinistra su una scala di sfumature di senso, di effetti sonori, di variazioni cromatiche, di sovrapposizioni tra sfondi, per comprenderne il potere di riduzione, l’abnorme vacuità dell’atto semplificatore. Dissolvere l’angoscia della marcia degli zombie con una narrazione diversa, più ampia, più difficile e più coraggiosa della realtà, in una parola con la Politica. Adesso, forse mi è tutto un po’ più chiaro: il governo “tecnico” emerso dalle alcove neoliberiste è una risposta cartesiana, teoretica, all’avanzata degli zombie. È un mantra già sentito, che ci rassicura mentre il sistema raggiunge il collasso, si arresta di fronte ai propri limiti strutturali ed ecologici, convince gli zombie che la loro amata tomba (l’eterno posto fisso) non esiste più, è terra rivoltata.
Mi giro ancora verso la finestra, uno spiffero di vento gelido attraversa la stanza. Pare che nevicherà di nuovo nei prossimi giorni.
Note
[1] Cartesio, Opere filosofiche II. Meditazioni metafisiche, Obbiezioni e risposte, ed. it. a cura di Eugenio Garin, Laterza, Roma-Bari 1986, p. 30. Ho deliberatamente cambiato la traduzione di esprit in “spirito” con “mente”, onde facilitare la comprensione del passo a un lettore digiuno di lessico cartesiano.
[2] L. Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Einaudi, Torino 2011.
[3] Si veda B.R. Barber, Consumati. Da cittadini a clienti, tr. it. di D. Cavallini e B. Martera , Einaudi, Torino 2010.
[4] L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, tr. it. di Mario Trinchero, Einaudi, Torino 1967, I, § 420, p. 166.
[5] Ivi.