Alcune riflessioni sulle forme di capitalismo dei disastri nel post-terremoto aquilano
Angelo Jonas Imperiale, dottore di ricerca in Sociologia Rurale e Riduzione del Rischio di Disastri presso l’Università di Groningen (Paesi Bassi), ha un Master in Filosofia Teoretica, Politica e Morale con progetto di tesi di laurea sulla ricostruzione post-disastro in Teoria dei Sistemi Complessi e Valutazione di Impatto Sociale presso l’Università dell’Aquila e il Centre de Recherche en Épistémologie Appliquée (CREA, École Polythecnique / CNRS, Parigi). Esperto di valutazione di impatto sociale (SIA), riduzione del rischio di disastri, resilienza, ricostruzione e sviluppo sostenibile in aree vulnerabili e/o post-disastro. Nel 2015 ha ricevuto il premio Rita Hamm Impact Assessment Excellence Scholarship dell’Associazione Internazionale di Valutazione di Impatto (IAIA). Gli abbiamo fatto alcune domande sulle forme di “capitalismo dei disastri” applicate all’Aquila.
1) L’Aquila rappresenta una delle varie esperienze post-disastro in cui è stata applicata la “Shock Doctrine” di Naomi Klein (2007) che occupa interstizi per lievitare costi e distribuire prebende. Ti sei occupato a lungo di questi meccanismi all’Aquila. Vorrei dunque chiederti di raccontarceli e identificare le aree sociali, economiche, politiche che hanno subito i maggiori impatti.
Il ‘capitalismo dei disastri’ è un ampio concetto multi-dimensionale che si riferisce sia alle azioni perverse delle élites tese a trarre vantaggi privati dalle catastrofi, sia al meccanismo di stato che facilita queste azioni e protegge le élites.
Questo meccanismo è costituito da specifiche strategie istituzionali, finanziarie, di gestione del rischio, di partecipazione e di pianificazione volte ad accentrare conoscenze, tecnologie, risorse e responsabilità per la riduzione del rischio e la mitigazione degli impatti nelle sole mani delle autorità di protezione civile e dei leader politici locali e nazionali.
Queste strategie considerano, prima e dopo i disastri, la riduzione del rischio di esclusiva responsabilità dei leader politici e delle autorità di protezione civile, mentre escludono ampie fasce di popolazioni locali, inasprendo i rischi e le pre-condizioni sociali del disastro a livello locale. Queste strategie portano i leader politici a concepire, decidere, disegnare e realizzare interventi di gestione del disastro che creano ulteriori impatti sull’ambiente e sul benessere di comunità, generando una drammatica spirale di produzione continua di debito pubblico nei territori.
In lavori precedenti abbiamo analizzato come questo meccanismo sia stato usato dallo Stato Italiano all’Aquila per gestire i rischi e mitigare gli impatti del disastro prima e dopo il terremoto del 6 Aprile 2009. Questo meccanismo ha portato i leader politici e le autorità di protezione civile nazionali e locali – sia prima che dopo il terremoto – a non rispettare i principi e le linee guida delle Nazioni Unite di gestione dei disastri.
Prima del terremoto, questo meccanismo ha portato i leader politici a ignorare le dimensioni sociali del rischio, le vulnerabilità e le pre-condizioni sociali del disastro, e a non coinvolgere o rafforzare le capacità,la preparazione e la resilienza delle popolazioni locali. Dopo il terremoto, le strategie di questo meccanismo hanno portato i leader politici nazionali e locali a realizzare interventi che hanno: (i) violato i diritti umani; (ii) inasprito i rischi sociali di rent-seeking, cattura di interessi, infiltrazione di organizzazioni criminalie corruzione; (iii) creato ulteriori impatti ambientali, sociali, sulla salute il benesseree la resilienza delle popolazioni colpite; (iv) smantellato la governance democratica del territorio; (v) esacerbato iniquità e esclusione sociale; (vi) impoverito i beni e i servizi pubblici di supporto al benessere e alla resilienza di comunità, specie nei territori più remoti.
2) L’esperienza del Progetto C.A.S.E. ha rappresentato uno di questi meccanismi di sfruttamento “istituzionale”. Possiamo definirlo come l’esaltazione di questi meccanismi, o rappresenta invece solo una delle tappe della ricostruzione che non possiamo dire sia terminata? E perché?
Dopo il terremoto, mentre la popolazione locale veniva esclusa da qualsiasi intervento attraverso varie misure pesantemente restrittive, la storia più nota alle cronache è che le autorità di protezione civile nazionali realizzavano e gestivano le tendopoli, coordinavano attraverso la Direzione di Comando e Controllo (DICOMAC) e i Centri Operativi Misti (COM) le operazioni di emergenza, e realizzavano gli edifici del progetto CASE. Poco tuttavia si è detto del fatto che, fin dal 6 Aprile 2009, e proprio per volere dello Stato Italiano rappresentato dall’allora Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, i poteri emergenziali furono trasferiti ai leader politici locali per realizzare attività di vitale importanza nella gestione del disastro aquilano.
Mentre l’attenzione delle indagini investigative, del mondo accademico e dei media si concentrava sull’operato della protezione civile nazionale e sul progetto CASE, i leader politici locali non solo gestivano oltre 3 milioni di tonnellate di macerie, ma realizzavano anche puntellamenti e demolizioni che, per il solo centro storico dell’Aquila e nei soli primi 6 mesi dal terremoto, hanno comportato la messa in opera di 40.000 metri cubi di legno, 400.000 cinghie da ancoraggio con nastro in poliestere, 10.000 tonnellate di acciaio e 2 milioni di segmenti di ponteggi tubolari. Inoltre, pianificavano e realizzavano moduli provvisori, politiche attuative e interventi di ricostruzione di edifici pubblici e privati, e interventi di ‘miglioramento’ delle infrastrutture viarie e ferroviarie locali (compresi quegli interventi infrastrutturali che erano già pianificati e previsti in accordi quadro precedenti il terremoto).
Sia per il progetto CASE che per gli interventi realizzati e gestiti dai leader politici locali con il supporto del Provveditorato ai Lavori Pubblici, ANAS e RFI, è stato utilizzato lo stesso meccanismo. Per la realizzazione sia del progetto CASE che dei puntellamenti, le demolizioni e la gestione delle macerie, ad esempio, venivano ritenuti necessari: (1) poteri e procedure emergenziali; (2) segreto di stato; (3) accesso diretto ai fondi emergenziali; (4) affidamenti diretti e deroghe a leggi e procedure ordinarie che regolavano appalti, sub-appalti, incarichi, lavori pubblici e ribassi d’asta; (5) deroghe ai controlli ordinari su rifiuti, macerie, siti di stoccaggio e gestione rifiuti pericolosi e liquami; (6) deroghe a procedure di salvaguardia della salute e dell’ambiente, controlli anti-mafia e valutazione di impatto ambientale, sociale e sui diritti umani.
Questi strumenti istituzionali e finanziari venivano considerati necessari per porre rapidamente fine all’emergenza e ricostruire il territorio e il tessuto sociale ed economico aquilano. Tuttavia, anziché porre fine all’emergenza e ricostruire il territorio, questi strumenti hanno prolungato l’emergenza e prodotto un debito pubblico permanente a livello locale (si pensi, ad esempio ai costi esorbitanti di manutenzione del progetto C.A.S.E., o alle difficoltà e ai costi esorbitanti di smontaggio e smaltimento dei puntellamenti – oltre a tutti i difetti tecnici e costruttivi –).
Gli interventi realizzati da protezione civile nazionale e leader politici locali attraverso questi strumenti non hanno coinvolto le popolazioni locali, violando i diritti umani, sociali e civili dei proprietari di decidere circa le loro abitazioni e il futuro della città e dei borghi del territorio aquilano. Questi interventi sono stati deviati dagli interessi economici delle élites locali e nazionali, hanno favorito rent-seeking, infiltrazione organizzazioni criminali, capitalismo dei disastri e corruzione, e inasprito iniquità ed esclusione sociale. Gli interventi post-terremoto non hanno seguito alcuna strategia adeguata di gestione del rischio, partecipazione e pianificazione, generando ulteriori rischi e impatti su ambiente, salute, benessere e resilienza di comunità, e producendo ulteriori disastri.
Si può dunque affermare che sia il progetto C.A.S.E. che gli interventi realizzati e gestiti dai leader politici locali, non differiscono molto, poiché entrambi hanno portato a risultati catastrofici. L’unica differenza è stata che tutte le attività condotte dai leader politici locali sono passate in sordina, coperte dalla spettacolarizzazione mediatica degli interventi della protezione civile nazionale. Si può dunque affermare che il progetto C.A.S.E. non sia stato altro che un esempio spettacolarizzato di quanto stava già accadendo nel centro storico dell’Aquila e negli altri centri storici del cratere. Un esempio di quanto accade ovunque ancora oggi con la realizzazione di interventi che non prevedono il coinvolgimento della popolazione locale o una valutazione attenta delle vulnerabilità dei bisogni e delle capacità delle comunità locali, dei rischi e degli impatti ambientali e sociali e della sostenibilità ambientale, economica e sociale di questi interventi.
3) I terremoti in Italia hanno spesso colpito aree rurali che presentano proprie peculiarità sociali ed economiche. Quanto hanno influito questi meccanismi di sfruttamento sulle comunità rurali, sulla loro autodeterminazione e sui loro modelli di sviluppo?
Il meccanismo usato per la gestione del terremoto ha portato i leader politici locali e nazionali a realizzare interventi in gran parte solo temporanei che hanno però causato impatti ambientali e sociali permanenti, ‘lasciando indietro’ i territori e le fasce della popolazione più vulnerabili. Investire, ad esempio, oltre 630 milioni di euro (in gran parte spesi per il solo centro storico dell’Aquila e frazioni) per la realizzazione di puntellamenti e messe in sicurezza temporanei, ha sottratto risorse economiche importantissime sia per la ricostruzione fisica delle case del centro storico dell’Aquila, delle frazioni e dei borghi montani del cratere; e sia per lo sviluppo sostenibile e il rafforzamento della resilienza e della governance del rischio a livello locale.
Basti pensare che con la cifra spesa per i puntellamenti e le demolizioni si sarebbero potuti ricostruire in modo definitivo i centri storici distrutti di almeno 10 borghi. Si sarebbe potuto realizzare, inoltre, un ecomuseo attraverso cui coinvolgere le popolazioni locali e costruire una visione comune circa la messa in rete e la rivalorizzazione del patrimonio culturale e paesaggistico;il rafforzamento della resilienza di comunità; e il rilancio dell’economia locale, a partire dalle produzioni agricole e artigianali, e dai servizi di accoglienza e promozione locali per lo sviluppo di un turismo sostenibile di respiro internazionale.
Nel centro storico dell’Aquila, una ricostruzione a due velocità ha portato al rifacimento immediato di palazzi che erano (o sono diventati dopo il terremoto) beni culturali vincolati, mentre ha ‘lasciato indietro’ larghe parti del centro storico della città e, insieme a queste, la stragrande maggioranza dei centri storici delle frazioni aquilane e dei borghi montani del cratere. A oltre undici anni dal terremoto, oltre 10,000 persone ancora vivono in alloggi provvisori, e le zone rosse sono ancora ufficialmente in vigore. Appena una minima parte del centro storico aquilano è stata effettivamente ricostruita, mentre i borghi distrutti dal terremoto ancora vertono nell’abbandono più totale.
4) Si parla molto di recuperare e affermare la centralità delle comunità locali nella riduzione del rischio e nelle politiche pubbliche associate. Cosa insegna l’esperienza aquilana (e abruzzese) in questo senso? E questa centralità serve a contrastare e diminuire lo spazio di manovra dei profittatori?
La ‘resilienza di comunità’ è l’insieme di processi cognitivi e interazionali (individuali e collettivi) che permettono a membri di una comunità di apprendere dal contesto di crisi e trasformare attitudini e comportamenti per ridurre rischi e impatti e migliorare il benessere di comunità. Come abbiamo visto nel caso del terremoto del 6 Aprile 2009, prima del disastro, la popolazione locale si era dimostrata capace di apprendere che l’aumento delle vulnerabilità fisiche degli edifici stesse peggiorando l’esposizione al rischio, specie delle persone più vulnerabili.
Questo processo di apprendimento individuale e collettivo portava la popolazione locale ad assumere una serie di comportamenti individuali e collettivi adeguati al contesto di crisi e a prendere precauzioni quali, ad esempio, la chiusura delle scuole, la richiesta di sopralluoghi e ispezioni tecniche, o la richiesta di piani di emergenza e di protezione civile.
Dopo il terremoto, numerose comunità rurali hanno dimostrato una straordinaria capacità di resilienza, ovvero di apprendimento sociale dal contesto di crisi e trasformazione verso la sostenibilità. Nell’immediato post-terremoto, intere comunità rurali sono state capaci di orientare azioni individuali e collettive verso la mitigazione degli impatti del disastro e la tutela, il coinvolgimento e il rafforzamento delle fasce ritenute più vulnerabili come donne, anziani e bambini. Il pensiero comune di dare cibo e rifugio alle persone più anziane o ai bambini, ad esempio, induceva intere comunità a mettere in comune risorse e a cooperare per l’aumento del benessere collettivo.
Insomma, dopo il terremoto queste comunità hanno dimostrato di avere resilienza in quanto sono state capaci di apprendere dal contesto e trasformarsi verso comportamenti individuali e collettivi volti a considerare gli impatti del terremoto problemi comuni per i quali sviluppare soluzioni condivise volte alla riduzione delle conseguenze negative del disastro e all’aumento del benessere di comunità, specie delle persone più vulnerabili.
Nel complesso, l’esperienza aquilana ha tanto da insegnare rispetto alla centralità delle comunità locali nella riduzione del rischio e nelle politiche pubbliche associate. All’interno delle comunità locali vi sono processi sociali positivi e negativi che influiscono positivamente o negativamente sulla riduzione locale del rischio. Prima e dopo ogni disastro vi possono essere rischi sociali quali rent-seeking, cattura di interessi, infiltrazione di organizzazioni criminali, capitalismo dei disastri e corruzione; ma vi possono essere anche processi sociali positivi come la resilienza di comunità. In sintesi, le comunità e le istituzioni locali con i loro rischi, vulnerabilità, capacità, e resilienza hanno un ruolo imprescindibile nel determinare il livello di rischio di disastro a livello locale.
A seconda di come lo Stato organizza gli interventi di gestione del disastro e di sviluppo strategico, nel territorio esposto o colpito, questi può rafforzare la resilienza di comunità e prevenire l’esacerbazione delle pre-condizioni sociali del disastro, o a inasprire le vulnerabilità i rischi, gli impatti e le pre-condizioni sociali del disastro a livello locale, creando ulteriori disastri e debito pubblico. Recuperare e affermare la centralità delle comunità locali nella riduzione del rischio significa riconoscere il ruolo che le comunità locali hanno in un paesaggio globale a rischio, e capire e riconoscere meglio vulnerabilità rischi, capacità e resilienza che influenzano negativamente e positivamente il livello di rischio di disastro a livello locale e che vanno rispettivamente ridotti e rafforzati. È intorno a questa rinnovata attenzione rispetto al ruolo delle comunità locali che si dovrebbero radicalmente ridisegnare le politiche pubbliche di riduzione del rischio.
5) Come le politiche pubbliche possono recuperare tale centralità?
La gestione del terremoto ha mostrato che il passaggio di competenze dal Ministero della Difesa al Ministero dell’Interno e da sistemi centralizzati di ‘difesa civile’ a sistemi centralizzati di ‘protezione civile’ è ancora inadeguato a riconoscere il ruolo centrale delle comunità locali in un paesaggio globale a rischio. Questo passaggio ha trasferito modelli di gestione di derivazione militare nell’ambito di decisioni politiche che riguardano lo sviluppo strategico e la gestione dei disastri, portando i leader politici a utilizzare poteri emergenziali e ad accentrare conoscenze, tecnologie e risorse per la riduzione del rischio. All’interno di sistemi centralizzati di protezione civile ancora si considera la riduzione del rischio quale responsabilità esclusiva dei leader politici e delle autorità di protezione civile, anziché responsabilità comune intorno cui coinvolgere, responsabilizzare e rafforzare ampie fasce della popolazione locale.
L’attuale crisi causata dalla pandemia del COVID-19 impone l’urgenza di politiche pubbliche efficaci per la realizzazione degli impegni presi con la sottoscrizione del Sendai Framework for Disaster-Risk-Reduction 2015-2030, e dell’Agenda 2030.
L’esperienza aquilana ci insegna che occorre ripensare radicalmente il ruolo delle prefetture perché queste diventino i luoghi in cui costruire una governance del rischio inclusiva e socialmente sostenibile attraverso cui ridisegnare strategie istituzionali, finanziarie, di gestione del rischio, pianificazione e partecipazione che sappiano orientare in modo efficiente investimenti e interventi verso: (1) la riduzione delle vulnerabilità, (2) la prevenzione dei rischi sociali, (3) il miglioramento del benessere, e (4) il rafforzamento delle capacità e dei servizi di supporto alla salute, al benessere e alla resilienza di comunità e territori.
Perché si riduca in modo efficace il rischio di disastri futuri, e si rafforzi la resilienza, le comunità locali esposte o colpite da disastri, anziché ‘protette’ andrebbero ‘rafforzate’. Occorre si operi al più presto un passaggio fondamentale da sistemi centralizzati di protezione civile a sistemi decentralizzati e socialmente sostenibili di rafforzamento di comunità.
Questo passaggio è più che mai necessario affinché si arrivi alla definizione di politiche pubbliche che recuperino la centralità delle comunità locali e si impegnino in modo efficace nelle 4 aree di intervento suggerite dalle Nazioni Unite, ovvero: (1) capire il rischio nelle sue multiple dimensioni (Priority Area 1, UNISDR, 2015); (2) rafforzare la governance verso l’aumento di riduzione del rischio di disastri (Priority Area 2, UNISDR, 2015); (3) orientare efficacemente gli investimenti per il rafforzamento della resilienza (Priority Area 3, UNISDR, 2015); e (4) ricostruire territori e comunità più preparate, sostenibili e resilienti a disastri futuri (Priority Area 4, UNISDR, 2015).
Il passaggio da sistemi centralizzati di protezione civile a sistemi decentralizzati di rafforzamento di comunità, dovrà verificarsi assieme a un cambio radicale sia nella cultura che nella governance che supportano e organizzano ogni intervento pianificato prima e dopo i disastri. Occorre operare un passaggio cruciale da una cultura paternalista di protezione sociale a una cultura glocale della salute, del benessere e della resilienza di comunità. Questa nuova cultura glocale dovrà essere volta a ‘pensare globale e agire locale’, a migliorare l’applicazione nei territori di protocolli e linee guida internazionali e a coinvolgere le popolazioni locali, utilizzando la loro empatia, il loro senso di responsabilità sociale e la loro capacità a cooperare.
Infine, occorre abbandonare al più presto l’approccio alla riduzione del rischio paramilitare e centralizzato di comando-e-controllo. Anziché accentrare conoscenze, tecnologie, risorse e responsabilità per la riduzione del rischio, occorre una governance del rischio socialmente sostenibile a tutti i livelli di organizzazione socio-ecologica. Prima e dopo i disastri e a tutti i livelli di governo, questa nuova governance dovrà creare strategie istituzionali, finanziarie, di partecipazione, gestione del rischio e pianificazione fisica e territoriale più sostenibili volte: (1) alla condivisione con le comunità locali e i territori di conoscenze, tecnologie, risorse e responsabilità per la riduzione del rischio e l’aumento del benessere di comunità, e (2) al rafforzamento dei servizi locali alla salute, al benessere e alla resilienza di comunità e territori.
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