Pubblichiamo alcuni estratti da “Capitale terreno“, il catalogo della mostra fotografica di Moira Ricci che sarà presente con il suo lavoro “Dove il cielo è più vicino” all’edizione 2017 di Fotografia Europea a Reggio Emilia.
Roberta Valtorta, Un’unica traiettoria, pp. 8-10
L’artista, nata nella meravigliosa e dura campagna maremmana, è rimasta fedele alla sua terra, introiettandone le narrazioni più antiche e profonde e nutrendosi delle piccole vecchie storie di famiglia e di paese, dense di significati simbolici. Con esse ha fittamente intrecciato la trama complessa della sua identità individuale, facendo del legame originario con il suo territorio e la comunità che lo abita la genuina genesi stessa della sua arte. Si può dire che nella sua opera, così come l’abbiamo vista svilupparsi fino a oggi, la biografia personale, la tenace idea di casa, dunque di appartenenza, la storia famigliare, con potenti omaggi alla bellezza e alla fierezza della madre, alla disarmante, tenera fantasia del padre, e poi i miti e l’intensità storica e naturalistica di un territorio rustico e magico si collocano, uno dopo l’altro, su un’unica traiettoria. A rafforzare questo interviene un’intima saldatura tra un linguaggio vernacolare direttamente derivato da una dimensione rurale dell’esistenza e un linguaggio tecnologico allineato sulla più stringente contemporaneità.
La vivace attitudine a narrare in modo poetico e forte proviene anch’essa da quel territorio. Così, i racconti di Moira Ricci si fanno strada tra fotografie di vecchi album di famiglia, filmati amatoriali, testimonianza visive e sonore, immagini found footage costantemente ridestinate a significati più aperti, riprese dirette di vive scene quotidiane da innestare in sceneggiature altre, elaborazioni digitali che entrano nel cuore delle immagini, strappandone il senso più nascosto e ancestrale. Non è affatto priva di toni drammatici la sua opera, né di accenti dolorosi. Giocosa nell’immediata apparenza, essa affronta con coraggio e rielabora tenacemente paure, desideri, sogni provenienti dall’infanzia, interrogazioni profonde sulla propria identità ma anche sul mondo esterno, fino a toccare il futuro. È importante sottolineare infatti che il suo lavoro, specialmente nelle coloriture più recenti, non guarda affatto all’indietro al passato, ma riflette sul destino di noi uomini e donne che viviamo in un presente difficile, dimentichi del mondo dal quale, tutti, proveniamo, e del quale abbiamo e avremo sempre bisogno.
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Emanuela de Cecco, Variazioni sul tema dell’umano, p. 14
[In Dove il cielo è più vicino ] è presente la terra, la terra in crisi sempre meno coltivata, sempre più abbandonata dai contadini che non riscono a sostenersi con il loro lavoro […]. Il padre, lo zio e un cugino sono rimasti gli unici della sua famiglia, vivono le difficoltà di questa condizione e non lasciano il podere per non mancare di rispetto alle fatiche delle generazioni precedenti. Che fare? «Dove il cielo è più vicino» dice Moira, «è una preghiera al cielo, ma anche una minaccia a chi ci controlla dall’alto, è un ritratto di poderi che hanno perso la loro identità e il loro significato, è un tentativo di fuga e allo stesso tempo l’incapacità di metterla in atto».
Il lavoro si articola in tre parti che interagiscono con questa realtà. Poderi è una serie fotografica che dice di una morte già avvenuta: le case, dislocate in poderi assegnati all’Ente Maremma durante la bonifica a cui l’artista ha cancellato le porte e le finestre, sono trasformate in testimoni inerti. Nei due video, la situazione di anima, grandi lavori in corso, desideri: la vita si riaccende. Il Diavolo mietitore documenta l’esecuzione di due grandi cerchi infuocati che si rifanno a una leggenda inglese del Settecento nella quale il diavolo punisce un mezzadro che non ha pagato a sufficienza il contadino. La ripresa aerea accentua il carattere ritiuale dei segni tracciati, tra la terra e il cielo c’è un dialogo diretto. Infine Trebbia-astronave è un filmato time-laps dove seguiamo tutte le fasi di costruzione dell’astronave: la preparazione, i momenti di pausa, le fasi di lavorazione per costruire con in padre e con chi c’è un’astronave e andare via. Il tentativo di fuga non riesce ma nel filmato scorrono veloci le immagini di un tempo condiviso, il tempo del lavoro, il tempo delle pause. Progressivamente l’attenzione si concentra sul processo: ci sono sempre tante persone che fanno qualcosa, vediamo i gesti, gli sguardi, gli sforzi, i momenti di pausa, cogliamo l’energia di un’azione collettiva, dove ciò che è straordinario è semplicemente il pieno manifestarsi dell’umano.
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Michele Manfellotto, La terra per antonomasia. La Maremma di Moira Ricci dall’età della pietra all’era spaziale, p. 70
La generazione dei nati alla fine degli anni settanta, alla quale appartiene Moira Ricci, cresce perciò divisa tra due universi comunicanti ma idealmente opposti , quello del quotidiano, autenticamente vissuto, e quello virtuale, altrettanto partecipato ma condiviso non più con la famiglia, bensì con i coetanei di tutto il mondo.
Pasolini aveva forse previsto questa frattura, ovvero la logica tensione tra una generazione, come abbiamo detto, in sostanza pre-moderna, e la successiva, completamente post-moderna.
Ma nemmeno PPP aveva immaginato che nel cuore della Maremma potesse oggi aver luogo un’operazione linguistica come quella compiuta da Moira Ricci, che dà finalmente la parola all’“immenso” mondo contadino: anche lei con una dichiarazione di afasia, e con l’affermazione di un nuovo linguaggio possibile, individuato con un’intuizione che sarebbe piaciuta a Suart Hall e a Gramsci, ma probabilmente anche al Belli, il poeta della plebe di Roma.
Le vie della terra, mezzo secolo dopo La Rabbia, appaiono ostruite dai detriti di uno sviluppo ottuso, che legittima di continuo se stesso per mezzo di un perpetuo racconto fuorviante. Ma se la quintessenza di un luogo è tradita dalla menzogna della sua immagine pubblica, come è il caso della Maremma inventata a uso del turismo, allora anche rendere di nuovo attuale un’antica leggenda popolare può avere il valore di una rettifica storica, che ribalta il racconto e dà all’epilogo un’altra morale: “la magia esiste” direbbe Stephen King, che in Maremma si sentirebbe a casa come Maine.
Proprio in questa terra, la cui vicenda ha le proporzioni epiche di un film di Sergio Leone, sembra davvero possibile riscrivere il finale e cominciare a tramandare una narrazione diversa: al termine della quale il poeta non viene ucciso, i ribelli non perdono, e il cielo spalanca le braccia a tutti noi della galassia.