“I vostri padri dove sono? E i profeti vivono forse per sempre?” Sul nuovo romanzo di Dave Eggers

In questi giorni è arrivato nelle librerie italiane un nuovo libro di Dave Eggers, “Il cerchio” (Mondadori). Nell’anno trascorso fra l’edizione americana (ottobre 2013) e quella italiana (ora), Eggers ha avuto tempo di pubblicare un altro romanzo: “Your fathers, where are they? And the prophets, do they live forever?”: questa congiuntura editoriale dà al lettore italiano (quello a cui ogni tanto prenda voglia di leggere opere in lingua originale) la possibilità di avvantaggiarsi, per così dire.

«Siamo qui, e siamo al sicuro.»
«Cristo. È la cosa più triste che io abbia mai sentito.»

Il caso di Eggers è uno di quelli in cui la frenesia di chiedersi “ma dov’è che sta andando a parare?” non manca di ragioni. A questa domanda, Il cerchio, che racconta la vicenda di una ragazza assunta da una compagnia in stile Google-Facebook-Apple, offre una prima risposta, ma una risposta che appare incompleta. Un parte di questa incompletezza sembra dovuta al fatto che, da un punto di vista letterario – accettando provvisoriamente che in un romanzo di oggi si possa ancora separare dimensione argomentativa e dimensione narrativa –, la prova appare a suo modo leggermente sottotono, come se l’opera non fosse riuscita fino in fondo a non soffrire di certi limiti dei cosiddetti romanzi a tesi. Ecco perché poter leggere l’opera successiva di Eggers ci permette d’inquadrare meglio tanto lo sviluppo del suo percorso quanto la posizione che in quello stesso percorso ha Il cerchio.

Per alcuni fra coloro che lo seguono fin dai tempi dell’Opera struggente di un formidabile genio (Mondadori, 2o00), quella per Dave Eggers è una passione che, benché venga spesso da dirsi che sarebbe ora di andare oltre, non vuol sopirsi. Più che una passione, sarebbe forse il caso di parlare di una sorta di puntuale attenzione che a volte si accompagna a un sospetto di, semplicemente, sopravvalutazione. Ma è la natura di quella puntuale attenzione a far riflettere. Non sono pochi a spiare curiosi quale sarà la prossima mossa di Eggers, e dev’essere per una qualche ragione che va al di là di un semplice legame affettivo lettore-autore che, nutrito nella nostra gioventù di lettori, trova di che riprodursi anche ora che potremmo addirittura ritenerci lettori cresciuti, se solo significasse qualcosa. Ora, con il suo ultimo libro, questa ragione pare emergere con un po’ più di chiarezza: seguire Dave Eggers significa cercare nel suo percorso qualche elemento in più per riflettere sull’idea di politica di noi a cui, con tutte le proporzioni e l’ingenua superficialità e i sensi di colpa del caso, capita di condividere la sensazione di avere avuto dalla vita qualcosa che in fondo non abbiamo meritato, e qualche elemento in più per chiedersi fin dove arriva la legittimità dei nostri sforzi di vivere una buona vita in una giusta relazione con quello strano oggetto che è il resto del mondo, quel mondo al di fuori di noi.

A rivedere il percorso di Eggers pare di trovarsi di fronte a un caso tanto ingenuo quanto limpido di migrazioni dalle preoccupazioni individuali a quelle collettive, per dirla (troppo) in breve. Ha esordito con un potente lavoro autobiografico (L’opera struggente di un formidabile genio) che raccontava il suo modo intimamente eroico e sfacciatamente pubblico di affrontare la morte dei suoi genitori. Già nel secondo libro, Conoscerete la nostra velocità (2002), si notava come tutta quella tensione esistenziale cominciasse a rivolgersi anche fuori di sé, agli altri. Dopo una raccolta di racconti (La fame che abbiamo, Mondadori, 2004), quel prendere coscienza dell’essere uno di tanti è sfociato in due notevoli lavori che prendevano di petto l’ingiustizia del mondo (Eravamo solo ragazzi in cammino, 2006, e Zeitoun, 2009). Poco dopo una versione romanzata di Nel paese delle creature selvagge di Maurice Sendak e tanti altri lavori più o meno collaterali, Eggers rispunta nel 2012 con Ologramma per il re, in cui la distillazione dei suoi interrogativi politici si fa sorprendentemente quasi beckettiana e riesce a filtrare temi di carattere geopolitico ed economico globali. Poi Il cerchio, ed eccoci infine a Your fathers, che speriamo di vedere tradotto in italiano fra non troppo tempo.

Your fathers, where are they? And the prophets, do they live forever? è una frase di Zaccaria, profeta del Vecchio Testamento. Il romanzo che porta questo titolo è fatto di solo dialogo. Racconta di una persona che esige risposte, e non in senso figurato: Thomas, trentaquattro anni, rapisce sei persone e le incatena ognuna in un edificio diverso di una base militare abbandonata e isolata, e a tutte loro dice che le libererà solo dopo che avranno risposto alle tante domande che ha da fargli.

Sebbene in realtà scritto prima de Il cerchio, quest’ultimo lavoro, dal vago retrogusto di poetica (“poetica” è sinonimo di “resa dei conti”?), pare finalmente rendere possibile un inquadramento del percorso di Eggers entro una serie di domande sulla nostra visione politica del mondo che, come al solito ma più che in altri casi, complicheranno la possibilità di pensare ai suoi libri solo sotto il profilo del loro interesse letterario, separatamente dal loro essere specchio di un percorso dubitativo che, volenti o nolenti, ci riguarda direttamente. E tutto questo senza neanche prendere in considerazione l’Eggers attivista (lasciamo la parola “filantropo” ad altri ambienti, è meglio), con le sue creature: la casa editrice e rivista McSweeney’s (che ha appena annunciato di diventare no-profit), The Believer, la rete 826, Scholar Match, Voice of Witness e così via.

Ragionare sull’Eggers scrittore senza farsi distrarre dalle sue altre attività è un esercizio che, se si sta ragionando su quel che la sua opera ci dice della nozione di politica di questi tempi, rischia di farci passare accanto a punti centrali senza accorgercene. È uno sforzo di separazione che vale la pena fare? Intanto, un ricordo personale: quando osservavo i volontari di 826 Valencia, la scuola di lettura e scrittura fondata appunto da Eggers, all’opera con i ragazzini di San Francisco, lo facevo dalla soglia di un negozio in cui, oltre a vari rifornimenti e pezzi di ricambio per pirati (sì, pirati), c’erano in vendita due pile di libri autografati di Eggers, il cui ricavato avrebbe finanziato quei pomeriggi d’insegnamento a quegli stessi e a tanti altri ragazzini, provenienti soprattutto da fasce svantaggiate della popolazione. Mica facile separare le varie sfere.

Thomas rapisce sei persone, dicevamo, una dopo l’altra, tutte persone che hanno a che fare con la sua biografia, che solo sua non è. Riempie queste sei persone di domande perché sente che le cose non vanno come dovrebbero, e che non sono andate come sarebbero dovute andare. Ma quello che traspare è che a lui queste domande servano più che altro per esplorare il suo diritto a farle e a farsele. Non solo una volontà di sapere, ma anche una scoperta del diritto a sapere. Inoltre, esprime più volte il bisogno di sentirsi parte di una causa più grande, “universale”, qualcosa che unisca tutti verso un unico obiettivo e che sia il fondamento dell’ethos di un’intera generazione, o un’intera nazione. È un bisogno di politica, in fondo, seppure di una politica a suo modo monolitica e piena d’insidie concettuali verso le quali l’entusiasmo pare renderlo relativamente cieco. «Sono davvero felice di averti portato qua, perché ho già parzialmente ripreso fiducia nell’umanità», dice Thomas a uno dei rapiti.

I dubbi di Thomas hanno pretese di universalità e di capacità di abbattimento di certe barriere fa pubblico e privato. Sono dubbi che vanno dalla sua storia personale alla Nasa che non vuole più fare missioni eroiche, all’ingiustizia di un amico ucciso al governo che spende tutti i soldi per mandare i suoi giovani a fare la guerra dall’altra parte del Paese. «Sono abbastanza sicuro che sarei venuto su meglio, e che tutti quelli che conosco sarebbero venuti su meglio, se solo fossimo stati parte di una qualche lotta universale, qualche causa più grande di noi.» Se quello che Thomas chiede è un obiettivo collettivo più grande del singolo e che dia alla sua generazione un senso – un obiettivo collettivo che sia superiore a quelli dei singoli – viene da domandarsi se la cifra dei nostri tempi non sia proprio quella di tenerci lontani dalla tentazione di cercare e darci simili obiettivi.

«Thomas, niente di quello che dici è qualcosa di nuovo. Ce ne sono altri come te. Milioni di uomini come te. Anche qualche donna. E penso che dipenda dal fatto del tuo essere preparato a una vita che non esiste. Sei stato fatto per un mondo diverso. Come un predatore senza preda», gli dice il senatore rapito. Il processo di depoliticizzazione di questa epoca pare passare anche per questo, ovvero per una separazione degli obiettivi collettivi da quelli individuali. In questo senso, leggendo, viene da chiedersi se tutto ciò non sia una forma di protezione o di un atto di depotenziamento. Protezione o depotenziamento che sia, che per favore ci venga dato permesso di guardare con antipatia a quel personaggio del romanzo che, a un certo punto, dice a Thomas: «La verità ti darà un po’ di pace. Questo credo di potertelo garantire.»

Si ha a volte l’impressione che il tutto sia una sorta di monologo di Thomas, a cui i rapiti fanno solo da spalla, se non da suggeritori. O da specchi. Ma non è un elemento da considerare come punto debole della narrazione, com’è stato fatto da alcuni critici statunitensi: al contrario, al di là della legittimità di una tale scelta, a emergere è un’altra dimensione centrale di questi dialoghi, ovvero che i personaggi rapiti siano lì a rappresentare e a dar voce al senso comune, se non a quella infida entità che chiamiamo “buon senso”. In questo Eggers raggiunge, pur con momenti di fatica narrativa, un obiettivo che è alla base di un certo modo di vedere la letteratura e il suo compito, se di compito si può parlare: mettere in discussione l’idea stessa di buon senso, sottolinearne la molteplicità e l’ambiguità, svelarne la strumentalità e la partecipazione a una certa logica di semplice riflesso acritico della visione maggioritaria (dominante?) delle cose del mondo. E, in questo senso, il fatto che Thomas venga spesso apostrofato come matto dai suoi prigionieri provoca l’effetto contrario in chi legge, che lo prenderà sempre sul serio.

«Non mi far del male.
«Non lo farò.»
«Promettimelo.»
«Lascia perdere. Ora vado.»
«E io sarò al sicuro?»
«A quale scopo?»
«Per continuare a vivere.»
«Ecco il punto. Non è abbastanza.»

Più che quello di follia, laddove il confine fra “confuso” e “folle” sarebbe forse da prendere sul serio, a fargli male è l’attribuzione di un vittimismo che vorrebbe passare per martirio o eroismo. Una storia già sentita, ma mai abbastanza. «Ti piaceva, soprattutto da adolescente. I giovani adorano il martirio. Finisci per diventare la vittima e l’eroe allo stesso tempo», gli ricorda la madre. A ben vedere, la reazione a questa confusione strumentale fra vittimismo ed eroismo è una delle basi della scelta di Thomas di rapire quelle persone. Dice a una di quelle: «Ti piacciono questi paragoni di virtù ed eroismo ma alla fine quello che vuoi è solo rimanere in vita. Non vuoi essere parte di niente di straordinario».

Tutto il romanzo, dicevamo, è fatto di solo dialogo, senza neanche una parola al di fuori del botta e risposta fra i due. Tornano in mente casi quali JR di William Gaddis, fra i tanti. La scelta stilistica regge, nonostante certe battute talvolta risentano del fatto di essere lì troppo visibilmente solo per fornire elementi di contesto necessari alla narrazione. Ci sono momenti più deboli (il ruolo della ragazza incontrata in spiaggia, per esempio), e l’urgenza enunciativa prende a volte troppo il sopravvento su quella narrativa, ma le dense inquietudini che stanno alla base di un tale progetto letterario rendono il più delle volte queste perplessità facilmente trascurabili.

Questo nuovo romanzo di Dave Eggers, pur con i colpi alle barriere contro cui sbatte la sua ambizione, finisce non solo per farci cogliere l’urgenza del bisogno di risposte di Thomas, ma anche per trasmetterci quello stesso bisogno di porre domande, ognuno le sue, ognuno a chi sente di doverle porre. Fra l’attribuirsi degli errori e il dare la colpa al mondo c’è tutta una prateria che offre pochi punti di orientamento a chi la percorre incerto. Cosa avrebbero dovuto darci? Cosa avremmo dovuto aspettarci? C’è davvero qualcosa di male se qualcuno finisce per pretendere qualche spiegazione? Perché nessuno ci ha spiegato prima le regole del gioco? «Nessuno mi ha detto i passi da fare» dice Thomas. Sono domande che rimarranno tali, lo sappiamo, però intanto, per favore: nessuno ci venga a dire che è stato tutto soltanto un malinteso.

Print Friendly, PDF & Email
Close