Una riflessione attorno a Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi (Ediesse, 2014), l’ultimo libro di Ida Dominijanni.
Ora che il vecchio Berlusconi sembra ridiscendere in campo, giova ricordare che furono gli scandali sessuali, lo ricorderanno tutte e tutti, a far precipitare rovinosamente, nel giro di pochi mesi, il suo ventennale «regime del godimento», una sera di novembre del 2011. Si ricorderanno anche – benché non tutti o tutte abbiano piacere di rammentarlo – i giudizi, fondamentalmente di due tipi, che affioravano e poi esplodevano come bubboni in ogni discorso pubblico, privato, social-mediatico.
Per i liberali, di destra e di sinistra, per la stampa di proprietà di Berlusconi o sotto il suo controllo, così come per tutto un insieme variegato di altri soggetti (alcuni di loro anche interni ad alcune correnti più liberal del femminismo o del movimento LGBT), i resoconti che provenivano dalle ville del capo – e che facevano capolino in una sfera pubblica già piegata dalla crisi, ripugnata, ma che percepiva finalmente come un lusso, come un godimento, quello di poter parlare di sesso en plein air (di toys, di travestimenti, di modalità di accordo, di posizioni e pratiche sessuali) – dovevano essere considerati nient’altro che gusti privati, da difendere con le armi e con i denti. Per queste persone – o, almeno, per quelle più in buona fede – si trattava in fondo di comprendere se dai resoconti emergessero reati penalmente perseguibili, specialmente là dove i confini tra pubblico e privato si facevano più rarefatti: ma se di reati significativi non ve ne fossero stati, se la legalità ne fosse uscita intonsa, allora avremmo dovuto semplicemente salutare il fatto di trovarci dinanzi al significato e alla manifestazione più propria della libertà, e in particolare della libertà sessuale, ossia della libertà di usare, sfruttare ed erotizzare il proprio corpo e quello di altre persone (in questo caso, donne), anche dietro esborsi di denaro o altre forme di fidelizzazione, secondo gusti e modelli di condotta ritenuti insindacabili, in quella sfera privata in cui l’individuo è sovrano e in cui, dalla Rivoluzione francese in poi, non è consentito, al potere, di farvi irruzione. La sfera privata è sacra, e sacro è tutto ciò che al suo interno si fa e si dice; sacra è la proprietà, d’altronde.
Per contro, per molta parte di quella sinistra (comprendente, anche in questo caso, ampie frange di femminismo e di movimento LGBT) e di quella stampa che nel corso del ventennio avevano legittimato la propria ragion d’essere in una finzione connivente di opposizione al capo, le cronache dalle ville di Berlusconi – e i dettagli morbosamente scovati, ipernarrati e poi gettati in pasto a una sfera pubblica ripugnata innanzitutto perché in estasi – non potevano che costituire fonte di indignazione morale, dalla quale attingere a piene mani, e da usare come pretesto per affossare per vie legali il leader indiscusso della scena politica italiana degli ultimi vent’anni. Certo, non tutti e non tutte sfruttarono strumentalmente il «perturbante della sessualità», nella convinzione che avrebbe avuto – come ha avuto – la dirompenza di una slavina. Alcuni e alcune lo fecero con estrema convinzione, ossia con estrema, e autentica, indignazione morale. Il movimento di Se non ora, quando?, che costituì forse l’esempio più significativo, mobilitò «le donne reali» – ossia quelle «che lavorano fuori e dentro casa, creano ricchezza, cercano un lavoro, studiano, si sacrificano per affermarsi nella professione, si prendono cura delle relazioni affettive e familiari, hanno costruito la nazione democratica» – non solo, o non tanto, contro la categoria della «donna-oggetto», e dunque contro tutta una cultura della relazione tra i generi che struttura il modo in cui concepiamo ogni ambito e ogni relazione, pubblici o privati che siano, quanto piuttosto contro le singole donne-oggetto, contro Ruby o le ragazze degli appartamenti di via Olgettina, a Milano, contro «quelle che portano borse firmate grandi come valigie e passano la notte travestite da infermiere»: «donne perbene» contro «donne permale», «donne sacrificali» contro «ragazze a ore (quelle che vanno a letto col capo)», «moralità» contro «apatia dei sentimenti», «anime» contro «corpi» (pp. 220-221).
Giudizio morale (e moralista) contro giudizio amorale (e apolitico), dunque. In mezzo il niente, in mezzo il vuoto paradigmatico di conflitto e di giudizio politico di una società che negli ultimi trent’anni era stata messa, nella maggior parte dei casi, nelle condizioni di sorprendersi incapace di esprimerne alcuno, o di perdere qualcosa qualora l’avesse fatto, e, nella minor parte, quella più influente e trasversale agli orientamenti politici, nella condizione di trarre enormi benefici dal non esprimerne affatto. In mezzo, dunque, lo spazio vuoto della totale svalutazione, tanto da parte dei/delle liberal quanto da parte dei/delle moralisti/e sia della condizione sia della soggettività delle donne coinvolte nel «sultanato»: da un lato, di «ciò che esse domandano di pensare in termini materialisti e non moralisti» e cioè «la precarizzazione femminilizzata del mercato del lavoro», il «contesto prostituzionale allargato di cui si alimenta e che alimenta» (che si estende ben oltre il letto del capo, occorre aggiungere, in pressoché tutti i luoghi di lavoro, in regime di precarietà e ricatto strutturale), «la trascrizione neoliberale della libertà femminile in libertà di vendersi e lasciarsi consumare». Dall’altro, «il ruolo giocato da alcune delle donne “permale” in questione nello svelamento dei fatti, confinando così le condizioni di emergenza della soggettività femminile “degna” nel solo perimetro dell’opposizione precostituita, senza riconoscerle quando provengono invece dall’interno del rapporto di assoggettamento e non da un esterno a denominazione etica controllata» (p. 221). D’altronde, la spoliticizzazione della capacità di giudizio, e della società tutta, che negli Stati Uniti e in Gran Bretagna era stata portata avanti dalle misure neoliberiste e neoconservatrici di Reagan e della Thatcher, in Italia era stata portata avanti facendole accomodare dentro agli studi televisivi del capo e poi messa nelle condizioni di soggettivarsi e di esprimere giudizi (e di godere, finanche di desiderare) a partire da quei criteri estetici, politici, morali, piuttosto elementari, che lui stesso aveva prodotto – ossia quelli che possono bastare a esprimersi di fronte a un reality televisivo o al nuovo acquisto di una squadra di pallone o a un servizio di piatti della Standa: mi piace, non mi piace.
Eppure, in fondo, si trattava solo di una ricombinazione degli elementi. Ida Dominijanni – ne Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi, il suo recente, densissimo, libro – sostiene in questo senso qualcosa di profondamente vero quando respinge l’argomento dell’eccezionalità del ventennio berlusconiano, e quando ritiene invece che si sia trattato di null’altro se non di una via italiana alla governance neoliberale, che dispiega tuttora i suoi effetti, decisamente meno appariscenti, ma non per questo meno perversi o tossici – prima all’insegna dell’austerità presuntamente autorevole del governo Monti (ossia la governance neoliberale ormai resa esplicita, contro il regime del godimento), poi all’insegna del pinkwashing autoritario del governo Renzi. Un intruglio di neoliberismo economico – che ridefinisce e produce le libertà pubbliche e private, e lo stesso confine tra pubblico e privato – e di neoconservatorismo – ravvisabile nei continui tentativi di affossare la legge 194 o i disegni di legge sulla procreazione assistita, nella continua mancata apertura ai matrimoni tra persone dello stesso sesso, o nell’affermazione costante di un potere fallocentrico, ancorché, secondo Dominijanni, «truccato». Un intruglio, quello del neoliberismo berlusconiano, che tenta di spoliticizzare e di neutralizzare primariamente, ma non solo, il progetto politico proprio di quei soggetti – le donne, gli omosessuali – che, storicamente, sul piano conflittuale della sessualità, si erano incaricati di contrastarlo, il fallocentrismo. E al quale, in cambio, il capo offre una formidabile e rassicurante (agli occhi della società di spettatori) riontologizzazione delle differenze e degli orientamenti sessuali, e non poche possibilità di soggettivazione entro i propri criteri di giudizio: non è un caso che i festini pullulino di donne e di omosessuali – per motivi diversi, ça va sans dire, e benché Dominijanni, mi pare, intenda soffermarsi principalmente sulle prime.
È dunque la sessualità, lo si sarà compreso, la lente con cui Dominijanni mette a fuoco questo lungo periodo storico, anche prima e anche dopo la sua presunta «fine», tentando di tenere insieme tanto una prospettiva foucaultiana, quanto quella del pensiero della differenza sessuale, da cui lei – filosoficamente e politicamente – proviene. Ed è soprattutto la risignificazione, e la sussunzione sotto l’universale neoliberale, della libertà sessuale a costituire il nodo centrale della sua opera, in grado di parlare in termini molto più ampi di quanto il titolo del libro potrebbe far pensare. «Quarant’anni dopo l’inizio della rivoluzione femminista» scrive infatti Ida Dominijanni nell’ottavo – cruciale – capitolo, dedicato al post-patriarcato,
la variegata galassia che vi fa riferimento si trova di fronte a uno scenario che ne riconvoca e ne mette alla prova le premesse e le promesse. La sessualità torna a fare irruzione nel discorso pubblico, ma non come bandiera sovversiva, bensì come protesi del potere costituito. E il rapporto uomo-donna torna a imporsi come problema politico, ma in una configurazione assai diversa da quella del dominio patriarcale contro cui nacque il femminismo delle origini. Nella parte, e dalla parte, dell’uomo c’è una nuova forma di potere, né autorevole né autoritaria ma libertina e seduttiva, che non dispone più per diritto naturale né del corpo né del silenzio-assenso femminili ma ha bisogno di comprarseli, non tiene più le donne segregate nella sfera privata, ma le coopta in ruoli pubblici, non le sfrutta in regime di schiavitù, ma le usa in regime di libertà […]. Dall’altra parte, ci sono giovani donne compiacenti ma diffidenti verso quell’uomo, che la segregazione patriarcale non l’hanno mai conosciuta, sono e vogliono essere visibili nella sfera pubblica, non si sentono vittime della situazione, dispongono di un’emancipazione sufficiente per usare il proprio corpo come un capitale da investire per la scalata sociale (p. 205).
In pieno regime post-patriarcale, dunque, per Dominijanni la sfida è duplice: da un lato, si tratta di rendere giustizia al Sessantotto e ai movimenti libertari, senza cedere nemmeno per un istante alle lusinghe reazionarie dei nostalgici della Legge del Padre che confondono – più o meno in buona fede – l’istanza libertaria del femminismo e degli altri movimenti di liberazione con il culto della «libera scelta» celebrato dal neoliberismo, quasi che la libertà di scegliere preesistesse ontologicamente alle condizioni, e alle alternative, in seno alle quali si esercita. «Fra la congiuntura Sessantotto-femminismo e la soluzione neoliberale c’è piuttosto un piano di tangenza», osserva in questo senso Dominijanni, «che si forma all’incrocio fra crisi e critica del compromesso socialdemocratico, delle forme della rappresentazione, dell’ordine socio-simbolico patriarcale, e dove soggetti, posizioni e strategie contrapposti (i corpi e il potere, il “desiderio dissidente” e la sua saturazione consumistica, il rifiuto della disciplina del lavoro e l’uso postfordista della flessibilità, le pratiche di autogoverno e la governance neoliberale) si combattono in una sorta di guerra di posizione permanente: nella quale è il codice economico a imporsi come “significante padrone” e vincente, ma della quale sono le soggettività politiche – eterogenee, talvolta divise, comunque non riconducibili né a un fronte compatto né ad un’identità unitaria – a decidere di volta in volta le poste in gioco e i risultati parziali, peraltro non misurabili con i metri tradizionali della conquista del potere o della registrazione nel diritto» (p. 51).
Dall’altro, tuttavia, si tratta di fare i conti con un Padre che, ancorché arrancante, riesce a riciclarsi in «papi» in maniera «tecnologicamente assistita», e privo di qualunque autorevolezza, ma assai desideroso di averla, se la compra. E che, per agevolare i propri acquisti, e per avere consensi, offre – in modo egualmente paternalistico e autoritario – possibilità di affermazione sociale, in modo subdolo, anche attraverso lo scambio sessuale, quando le condizioni – riontologizzate – lo consentono. In questo quadro, anche nella prospettiva di una exit strategy, l’analitica foucaultiana non può che accorrere in nostro soccorso. Ma a certe condizioni, secondo Dominijanni – e a certe altre, secondo me.
Per Foucault, notoriamente, la sessualità costituisce il campo privilegiato per un’analitica del potere sganciata dall’ossessione della sovranità, così come per un’analitica della resistenza sganciata dall’ossessione della liberazione. La sessualità è secondo lui il campo in cui vedere all’opera quel governo delle vite esercitato più in nome di norme non scritte che codificate, più di tecniche e di saperi che non di regolamenti, più di incitazioni e titillamenti che non di divieti, più di seduzioni discorsive che non di prescrizioni etiche o giuridiche. Ma proprio per questi motivi la sessualità è – soprattutto – il campo in cui vedere all’opera resistenze «possibili, necessarie, improbabili, spontanee, selvagge, solitarie, concentrate, striscianti, violente, irriducibili, pronte al compromesso, interessate o sacrificali» (p. 49). E dunque la sessualità è, per eccellenza, il campo dell’assoggettamento e della soggettivazione; il campo della sottomissione alle norme e quello della sperimentazione delle stilistiche di esistenza. Il campo della lotta irriducibile tra potere e libertà. Ed è la concezione della sessualità, secondo Dominijanni, «a fare luce sullo statuto complessivo della libertà berlusconiana» (p. 50), ossia di quella che egli invoca per sé e di quella che produce per i suoi sudditi/consumatori – per la continuità evidente fra mercificazione del corpo e culto del mercato, per la commercializzazione del desiderio e l’imperativo del consumo, per l’uso autistico del piacere e l’uso autoreferenziale del potere, e perché è precisamente la sessualità il sito della soggettività su cui più potentemente si esercita, attraverso la miscela di saperi pedagogici e tecniche di marketing che dilaga nei media e nella cultura popolare, «il discorso manageriale che fa della prestazione un dovere e il discorso pubblicitario che fa del godimento un imperativo», uniti nell’allineare plusvalore e plusgodere, criterio dell’utile e principio del piacere, soggetto economico e soggetto sensoriale e psichico. «È nella sfera della sessualità dunque che emerge con particolare evidenza il paradosso neoliberale di una libertà che non contesta ma persegue gli imperativi del potere» (p. 51).
Ciò che del rapporto tra potere e libertà Foucault non ci aiuta a comprendere, secondo Dominijanni, è però che i corpi non sono neutri, così come non è neutro il potere che li assoggetta e che offre loro possibilità di soggettivazione. Il potere, al contrario, è un piano stratificato in cui agiscono «la differenza sessuale, l’immaginario sul maschile e sul femminile, la matrice fallica del potere, il rapporto fra ordine politico e ordine simbolico» (p. 53). E su cui, dal taglio femminista in poi, vi ha agito – in modo sotterraneo, e talvolta dirompente – «un’eccedenza femminile irriducibile», che ha portato avanti un’altra idea del soggetto e della relazione, contestando di volta in volta l’individuo sovrano e proprietario (liberale), il soggetto del mero godimento (neoliberale), senza nulla risparmiare a quello prometeico (rivoluzionario). Sono le stesse soggettività femminili, si ricorderà, a far crollare il regime del godimento, a svelarne, dall’interno, il trucco. Ma il potere – Dominijanni a volte lo ricorda bene, e però sembra non attribuirle il ruolo centrale che ha – è anche e soprattutto il piano in cui agisce la norma eterosessuale, da cui discendono tanto la differenza sessuale, quanto l’immaginario maschile sul femminile, quanto la matrice fallica del potere: sono state le stesse femministe, d’altronde, quelle lesbiche, a disvelare questo trucco. O meglio: a disvelare questo regime politico che non ci consente nemmeno di parlare e di pensare, se non nei suoi termini (restituisco il senso, e non la lettera, di un celebre passo di Monique Wittig). E, in fondo, non occorre guardare al ventennio berlusconiano per ravvisare tracce e segni di questo regime, ovunque. Anche per smontare la norma eterosessuale abbiamo bisogno di quei dreamers che Ida Dominijanni invoca nelle ultime battute del suo libro (p. 251): dreamers che sappiano costruire un nuovo immaginario e nuovi piaceri, piaceri diversi da tutto ciò, a partire dai quali desiderare. Non necessariamente «dalla generatività della differenza femminile», né da quella «maschile», ma da quella di chi si sottrarrà a entrambe, o che sceglierà di aderire all’una o all’altra, o a entrambe insieme, o ad altre forme di generatività che tant* non riescono ancora a immaginare.