I raccoglitori di memorie. Intervista ad Andrea Segre: il documentario, la testimonianza, l’impegno civile e politico

di Massimiliano Coviello e Tommaso Sbriccoli [*]

(pubblicato su “alfabeta2”, n. 10 – giugno 2011)

Egitto, Tunisia, Libia: la caduta dei regimi dittatoriali nordafricani sta producendo stravolgimenti politici ed economici di portata internazionale. Intanto, il mondo politico italiano si dichiara spaventato dall’esodo biblico di migliaia di persone verso le coste. I media ci informano costantemente sugli sbarchi a Lampedusa, sull’intervento delle forze dell’ordine e dell’esercito per contenere l’“orda di clandestini” e garantire la sicurezza, ma troppo spesso dimenticano di raccontare le difficoltà di integrazione sociale e lavorativa che i migranti giunti in Italia devono affrontare. Per provare a dare voce a queste emergenze e, soprattutto, per cercare di trovare alcune chiavi di lettura, abbiamo intervistato Andrea Segre, regista di numerosi documentari e dottore di ricerca in Sociologia della Comunicazione.

Massimiliano Coviello: Il tuo ultimo documentario, Il Sangue Verde (2010), inizia con una sequenza girata all’interno della Fabbrica dell’Opera Sila dove più di 1500 africani hanno vissuto in condizioni di degrado prima di essere costretti ad andarsene. Ad accompagnare lo spettatore tra gli oggetti abbandonati dai braccianti all’interno della fabbrica c’è il ghanese Salis, un “raccoglitore di memorie altrui”. Nel tuo racconto la memoria si affianca alla testimonianza diretta dei raccoglitori di arance nella Piana di Rosarno. Si tratta di strumenti utili per smascherare gli stereotipi con cui il nostro paese si auto-rappresenta e descrive l’altro, il migrante?

Andrea Segre: Credo che restituire la memoria individuale di chi ha partecipato a tragici eventi collettivi sia il modo con cui il cinema può cercare di ricostruire un bilancio di giustizia. Per farlo ci sono molti strumenti, materiali e culturali. Il cinema può essere uno di questi quando, a differenza della televisione, diventa un linguaggio che riesce a non appiattirsi sul tempo dell’emergenza. La televisione deve situarsi dentro questo tempo, altrimenti diventa inattuale e non agisce come dovrebbe. Il cinema invece può svincolarsi da tutto ciò e agire su un altro livello, quello della memoria.
Il film inizia lì dove finisce il racconto televisivo, con lo sgombero da parte della polizia e la fuga dei migranti. Dopo l’11 gennaio Rosarno è scomparsa dalle cronache: i migranti erano stati portati via e il problema era risolto. In quel vuoto di conoscenza e di narrazione, sui titoli di coda di quel racconto televisivo, entra Salis, che solo in parte è stato un incontro casuale. Intendo dire che prima di recarmi a Rosarno ho aspettato il tempo necessario affinché terminasse la sovraesposizione mediatica ma la memoria degli eventi fosse ancora “calda”. Anche Salis poteva fare ciò che ha fatto solo in quel tempo lì: dopo sarebbe stato troppo tardi e prima troppo presto. Quindi è stato un incontro casuale, ma avrei potuto incontrarlo solo in quel momento, non in altri.

Tommaso Sbriccoli: Stai dicendo che avete scelto lo stesso tempo perché facevate lo stesso lavoro?

A. S.: Sì. Io credo che il racconto del cinema del “reale”, ma in generale del cinema politico se oggi fosse ancora possibile farlo, consista un po’ in quello che faceva Salis, e che abbiamo fatto io e Salis insieme, ovvero prendersi del tempo per andare a riflettere con i protagonisti nei luoghi dove è successo qualcosa. Soprattutto, trasformare quelle persone in protagonisti e non in oggetto della narrazione. Perché l’altra caratteristica della narrazione televisiva è che ha bisogno di stereotipi, ha bisogno dell’immigrato, del mafioso. Invece nel mio racconto cinematografico, io lavoro con Salis, Jamadu, John, dei quali mi interressa solo fino ad un certo punto che siano immigrati. Il cinema ha bisogno di storie e di individui, non dello stereotipo.

M. C.: Nei tuoi documentari precedenti hai denunciato il sistema di potere che gestisce la migrazione clandestina. Ad esempio, in Come un uomo sulla terra (2008) Dagmawi Yimer, protagonista e co-regista del film, chiede al ministro Frattini di fare chiarezza sui rapporti tra l’Italia e la Libia. La crisi dei regimi dittatoriali nordafricani sta producendo forti ripercussioni sulle politiche migratorie. Ma da dove arrivano i migranti che in questi giorni sbarcano sulle coste di Lampedusa?

A. S.: La retorica dell’emergenza che si è creata intorno ai recenti sbarchi a mio avviso serve solo ad aumentare la paura e la confusione. Chi sta arrivando a Lampedusa sono soprattutto tunisini, non si tratta di libici né di africani bloccati in Libia. Per adesso i libici non hanno nessuna intenzione di andarsene: c’è chi vuole rovesciare il regime di Gheddafi e chi resta perché spera di trarre benefici dalla sopravvivenza della dittatura. E anche perché in Libia, nonostante la guerra civile, ci sono condizioni di vita migliori rispetto alla Tunisia e all’Egitto: i libici sono sei milioni e galleggiano sul petrolio.
A causa delle politiche italiane di respingimento molti etiopi, somali, sudanesi, ghanesi sono bloccati in Libia. Nelle zone liberate dai ribelli, sono stati aperti i cancelli dei centri di detenzione ma i profughi si nascondono nelle case perché rischiano di essere scambiati come mercenari. Inoltre, dopo due anni di respingimenti e di prigionia, è molto difficile avere la disponibilità economica necessaria a muoversi. Anche il sistema che prima organizzava i viaggi è saltato, perché è venuta meno la connivenza tra forze dell’ordine e trafficanti.
Molti immigrati presenti in Libia, nel timore che gli scontri scatenino ondate di violenza nei loro confronti, stanno tornando indietro. Ma tornare indietro è rischioso perché bisogna attraversare il Sahara. Alcuni lo hanno fatto e infatti si sono registrati degli afflussi a Dirkou che è la zona dove ho girato A Sud di Lampedusa (2006).

M. C.: Tornando a Il Sangue Verde, come hai pensato il rapporto tra il racconto delle storie di vita dei migranti e gli inserti televisivi che documentano la rivolta?

A. S.: Quello che cerco di fare ogni volta che lavoro è un’operazione molto complessa, ovvero provare a rendere il film efficace nei confronti del più vasto pubblico possibile. Ritengo che gran parte degli italiani non abbia avuto la possibilità di sviluppare la conoscenza del migrante nel suo essere individuo da una parte e attore sociale dall’altra. Ognuno di noi si divide tra queste due posizioni, ma nel racconto più consueto il migrante ne viene privato. Quindi il migrante non è “John”, ma è l’africano sbarcato a Lampedusa. Anche nel caso di sguardi più progressisti, egli rimane la vittima di una grande tragedia, mai una persona che agisce la sua vita e il suo ruolo in un contesto sociale. Da sempre nei miei racconti cerco di far emergere questi due elementi, togliendo ciò che secondo me schiaccia il rapporto emotivo e cognitivo dello spettatore nei confronti degli stranieri. Il discorso demagogico ed elettorale infatti riesce a fare tanto più presa quanto più riesce a generare una distanza cognitiva.
Il fatto di inserire nel finale un’intervista in cui un poliziotto parla dell’operazione “Migrantes” – che ha portato all’arresto di alcune decine di proprietari terrieri e caporali legati alla ‘ndrangheta – e afferma «L’abbiamo fatto grazie a quelle manifestazioni», permetteva di esplicitare la capacità dei migranti di essere attori sociali portatori di cambiamento, proprio come nelle immagini finali della manifestazione di Napoli. Sono del resto assolutamente consapevole che l’operazione “Migrantes” non ha risolto i problemi della piana di Gioia Tauro, né intendevo offrire una sorta di lieto fine, come alcuni hanno creduto. Volevo invece che il film costruisse uno snodo tra i fenomeni che racconta e le loro possibili evoluzioni, così da poter essere utilizzato come strumento per agire il cambiamento. Ad esempio, proiettare Il Sangue Verde nelle scuole e nelle campagne di Castelvolturno o Caserta, serve oggi per produrre un altro discorso a persone che sanno benissimo, per averlo vissute sulla propria pelle o in quanto attivisti sociali, che quel fenomeno non si è risolto con l’operazione “Migrantes”.

T. S.: In relazione a questa capacità del documentario di inserirsi all’interno di un percorso, di un dibattito, e di attualizzarlo, e di produrre riflessione, vorremmo chiederti di raccontarci l’esperienza dell’Osservatorio Braccianti, nato proprio sulla scia de Il Sangue Verde.

A. S.: Lavorando al film e su questi temi ci siamo resi conto del fatto che ci sono pochissimi soggetti in Italia che si occupano di bracciantato agricolo straniero, pur essendoci tantissimi braccianti stranieri. L’Osservatorio Braccianti costruisce una rete per questi soggetti e si pone come centro di raccolta di informazioni su questo tema. Quello che racconta è una crescita della mobilitazione sociale da parte dei braccianti, che hanno però una grossissima difficoltà a trovare referenti italiani in grado di sostenerli. Anche se qui stiamo parlando di ottenere veramente il minimo, ovvero un documento, una casa e l’assistenza sanitaria. In questi ambiti siamo tornati alle condizioni lavorative dell’Ottocento. Delle cose si stanno muovendo, come lo sciopero creativo dei braccianti clandestini nel casertano, o il fatto che a Rosarno è stata eletta un sindaco donna progressista di 40 anni. Ma finché non si scardina il meccanismo folle, assolutamente non funzionale se non dal punto di vista elettorale, per il quale non si possono avere i documenti finché non si ha lavoro, tutto il resto rischia di servire a poco.

T. S.: Sicuramente il nodo è proprio questo dispositivo di produzione dell’illegalità, che la fa apparire come una proprietà essenziale dei migranti, mentre viene prodotta proprio all’incrocio tra politiche elettorali ed economiche.

A. S.: È chiaro che siamo di fronte ad una cosa difficile da gestire, che si chiama squilibrio del mondo. Se io nasco dove per vivere mi serve un euro e da te ne posso avere 25 al giorno per lavorare, non passerà molto tempo prima che provi a raggiungerti. Finché la situazione è questa si tratta semplicemente di osmosi, e non possiamo far finta di credere che il problema sia organizzarci per cercare di fermare i migranti in maniera intelligente. Piuttosto, il problema è come farli arrivare in maniera intelligente. Ma le politiche attuali sono costruite solo perché rendono elettoralmente. Non c’è nessun altro motivo, nessun altro calcolo. Per questo il lavoro da fare è un lavoro culturale, comunicativo, molto più che materiale. Certo ci sono molte cose materiali da fare, ma sarà possibile farle solo quando cambierà questo rapporto.

M. C.: Il tuo ultimo film è in fase di montaggio. Il film – il cui titolo provvisorio è Shun Li e il poeta – è ambientato in un piccolo paese veneto, Chioggia, ed è molto diverso dai precedenti. In esso ti misuri per la prima volta con un lungometraggio di finzione e con attori professionisti. In che modo questa opera dialoga con il tuo lavoro precedente e con ciò che ci siamo detti finora, se lo fa?

A .S.: Shun Li e il poeta è il tentativo di fare ciò di cui parlavo con un linguaggio da favola. La protagonista è una migrante cinese di oggi che deve lavorare per pagare il debito del viaggio, avere i documenti e ricongiungersi col figlio. C’è qui una tensione esistenziale molto forte, che è poi la tensione di tutte le migrazioni. Questa donna incontra una persona che è stata straniera in un momento in cui non esisteva l’immigrato e di conseguenza egli stesso non è percepito come straniero dai locali. Su questo incontro, sul contesto molto realistico in cui avviene – un territorio con un’identità molto forte – sto provando a raccontare una storia che parli di come l’incontro tra le differenze possa far emergere una profondità umana ed esistenziale molto più intensa e più viva di quella che si produce sulla superficie dello scontro tra le differenze.

Note


[*] L’intervista si è svolta a Siena il 6 marzo, in occasione dell’intervento di Andrea Segre al nostro seminario. Pertanto, le riflessioni relative alla situazione geopolitica dell’aerea del Mediterraneo già risentono della distanza temporale nei confronti di un processo tutt’ora in atto.

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