I terremoti che tra agosto 2016 e gennaio 2017 hanno colpito Lazio, Umbria, Marche e Abruzzo, si comprendono viaggiando nell’epicentro tra Campotosto, Amatrice, Norcia e Visso, tra sensi unici alternati, segnaletiche gialle, paesaggi trasformati, luoghi scomparsi e generati.
Molteplici sono le lenti di osservazione che si sovrappongono nelle note di viaggio, appunti presi tra Aprile e Maggio 2019 durante interviste e sopralluoghi volti a studiare gli spazi aperti urbani in relazione alla vulnerabilità sismica. Molteplici i temi che affiorano a latere delle note principali e raccontano della complessità di queste aree, dove ciò che si registra in superficie – l’emergenza di oggi – appare come esacerbazione di aspetti intrinseci e fragilità messi in luce attraverso il disastro.
Da paese a paese alcune domande emergono con urgenza. È accettabile la mancanza di una strategia in materia di ricostruzione, dopo un decennio di esperienze tra L’Aquila, l’Emilia e il Centro Italia, in un territorio ad alto rischio sismico e in perenne convivenza con i terremoti, che solo negli ultimi quarant’anni si è confrontato con due eventi distruttivi (1979 e 1997), e con i successivi, profondi interventi di ricostruzione? È sufficiente restituire forma a un insediamento quando il suo contenuto sociale è nel frattempo mutato? E fino a quando è lecito parlare di emergenza? Come viene interpretata e attuata la ricostruzione?
Segni
“Hai fatto più danni tu del terremoto”. Lungo la strada per Campotosto segni di malcontento si leggono sulla lamiera di un box che costeggia l’omonimo lago. Il livello dell’acqua tenuto in via precauzionale sotto la soglia di criticità ricorda la compresenza di dighe artificiali, faglie e insediamenti, un argomento riscoperto solo a seguito degli sciami sismici registrati nel 2009/10, dopo il 6 Aprile e L’Aquila, ma assente dal piano di protezione civile vigente in comune fino al 2016.
Campotosto è al confine tra Abruzzo e Lazio. Qui si parla un dialetto che ha più in comune con l’amatriciano che con l’aquilano, e i segni di dieci anni di terremoti sono stati assimilati nel paesaggio montano e nel profilo del borgo dalle centine in legno che sorreggono la chiesa del cimitero ai piedi del paese, alle case deserte risalendo via Roma, fino alla vista su container, macerie e transenne colorate dai panni lavorati all’uncinetto ai margini della piazza principale.
I segni dei terremoti del 2009 e gennaio 2017 sono indistinguibili, così come lo sono nella sostanza i MAP (Moduli Abitativi Provvisori, alloggi temporanei nel 2009) dalle SAE (Soluzioni Abitative di Emergenza) attese dopo il 2017. Sono ben distinti invece i sistemi per la gestione della ricostruzione, con distinte figure tecniche che, per rispondere alla stessa domanda sull’iter di riparazione di un immobile, fanno capo a riferimenti normativi e uffici diversi – l’Ufficio Speciale per la Ricostruzione del Cratere (USRC) 2009 e l’Ufficio Speciale Ricostruzione Sisma 2016 (USRS) – aggravando le esistenti lungaggini burocratiche che in combinazione con i vincoli esistenti frenano la ricostruzione. Il risultato incentiva il progressivo spopolamento a cui resiste con difficoltà chi è radicato al territorio da attività economiche – allevatori, agricoltori e i proprietari di attività ricettive.
In piazza, di fronte alle strutture temporanee di bar e farmacia affacciate sui vuoti delle demolizioni, si ritrovano alcuni dei tenaci abitanti che hanno scelto di restare, nei MAP e nelle SAE posizionati ai due estremi di Via Castello dopo gli eventi del 2009 e 2016/17. Questa comunità popola gli spazi aperti residui del capoluogo tenendo in vita la socialità residua, mentre lo spazio pubblico sembra assolvere la duplice funzione di sostituire lo spazio dell’abitare privato che è venuto a mancare, e creare continuità e consuetudine nella nuova dimensione temporanea.
Il Punto Zero
Verso Amatrice, una serie di indizi diversi informa che ci si avvicina a un punto zero, il primo degli epicentri della sequenza sismica Amatrice-Norcia-Visso: la segnaletica gialla che indica le direzioni temporanee, i cerotti di asfalto tra strade, le bretelle che hanno riattivato la comunicazione con la via Salaria per permettere ai soccorsi di raggiungere la città dopo il 24 Agosto 2016.
Risalendo la strada di accesso alla città, alcuni vuoti inattesi – le impronte grigie e discontinue degli edifici abbattuti – anticipano lo scenario che si trova dietro l’ultima curva: uno spazio dilatato sostituisce le facciate giustapposte che guidavano lo sguardo lungo l’asse di Corso Umberto I. Percorrere in auto il Corso – una strada che, storicamente, assolveva le funzioni di piazza – significa cercare tra le macerie transennate un dettaglio a cui agganciare la memoria, nella ricerca istintiva di punti di riferimento oggi venuti meno.
All’altro lato del corso inizia la città di oggi dove gli insediamenti SAE definiscono nuovi baricentri e spazi di aggregazione, tra l’area foodin legno, i giardini su cui affaccia la sede comunale rilocalizzata e i centri polifunzionali alle sue spalle. Gli alloggi temporanei sono poco distanti da quello che era il centro storico, distribuiti su terreni privati come le aree in zona San Cipriano e presso l’ex campo sportivo che, da campo tende, è diventato campo SAE, il Campo Zero.
La questione di tempi e modalità di ricostruzione del centro storico di Amatrice è essenziale ma, nel tempo sospeso tra l’alba del terremoto e il completamento dell’impresa, le dinamiche sociali vengono riscritte su spazi nati per essere temporanei e caratterizzati da una dissonanza intrinseca. Nel nuovo assetto “temporaneo” la ricerca di aggregazione si confronta con i limiti di un’inevitabile zonizzazione necessaria per ricollocare attività residenziali, commerciali e amministrative nelle zone libere disponibili, occupate d’urgenza come regolato dai decreti emanati all’alba del 24 Agosto 2016.
Il passato e il futuro di Amatrice sono identificati dai suoi abitanti con la città fisica ora demolita, in cui spazi per l’abitare, per l’incontro e per le attività economiche formavano un unicum organico e vitale modellato da diverse forme di interazione e movimento. Il presente è la non-città, un’Amatrice temporanea caratterizzata da funzioni segregate – la residenza, la vita sociale, le funzioni amministrative – che implicano una relazione diversa dell’individuo con lo spazio.
C’è una piazza, oggi, assegnata alla città insieme ai progetti per la sua rinascita e non generata dall’uso, delimitata dalle architetture del “polo del gusto” e che si raggiunge in auto. Lasciando la città si intravede il suo profilo livellato dalle demolizioni in cui la mancanza della torre civica è insufficientemente colmata dalle gru che assemblano il secondo polo polifunzionale, evocando una ricostruzione.
Visso
Visso è il comune marchigiano più vicino a Norcia, e dopo il 30 Ottobre 2016 si è trovato isolato dal resto delle Marche diventando di fatto un appendice dell’Umbria fino al ripristino della viabilità verso Camerino. Oggi l’area interna della Valnerina è ancora drasticamente isolata, con tratti fondamentali di rete infrastrutturale chiusi al traffico a causa del danno diretto o indiretto del terremoto, come mostrano i viadotti e trafori della Strada Statale 685 delle Tre Valli Umbre, o la frana lungo la SP134 a monte di Castelsantangelo sul Nera.
Per raggiungere Visso dalla Via Salaria si è obbligati ad attraversare le frazioni demolite e svuotate di Arquata del Tronto, salire fino ai Piani di Castelluccio (1350 mt slm) e una volta in quota, a soli dieci km dalla destinazione, si è obbligati a un’ulteriore deviazione lungo la SP477, 45 chilometri di cui venti lungo i tornanti di montagna e il resto nella valle attraverso Norcia.
Entrando finalmente a Visso (e rientrati nelle Marche) i segni del terremoto sono filtrati da un diaframma di apparente normalità alla vista di attività e persone nei dintorni degli spazi aperti all’ingresso del paese. Una seconda occhiata consente di registrare i vuoti delle demolizioni e le centine in legno sulle facciate che guidano verso l’ingresso transennato al centro storico. L’intero borgo, attraversato dal torrente Ussita che ne ha caratterizzato identità e trasformazioni nel corso dei secoli, è oggi inaccessibile e le transenne della zona rossa delimitano l’area nell’attesa che la ricostruzione com’era e dov’era, voluta fortemente dall’amministrazione, abbia inizio, a trenta mesi dal sisma.
La burocratizzazione della ricostruzione, lamentata da tecnici e amministratori, ha dilatato i tempi di azione aggravando il danno fisico e sociale, in antitesi ai modelli di ricostruzione precedenti – quelli del 1979 e 1997, ritenuti più pragmatici, efficienti e consapevoli dell’identità territoriale e locale, e del 2009, la cui tempestività nel provvedere alloggi temporanei non è stata replicata. La mancanza di pragmatismo e tempestività ha determinato ritardi nell’assegnazione delle SAE e la lunga permanenza di larga parte della popolazione vissana nelle strutture alberghiere messe a disposizione a seguito dei terremoti del 26 e 30 Ottobre 2016, spesso motivando alcuni ad optare per un trasferimento definitivo. Il risultato, per il comune, è un progressivo spopolamento, già radicato nell’isolamento geografico e oggi esacerbato dalla mancanza di servizi e prospettive.
Per mitigare l’impatto economico e sociale dell’inerzia della ricostruzione, a Visso si pensa di rilocalizzare le attività commerciali in un unico polo poco fuori il centro storico, che funga da piazza nell’attesa che quella storica centro delle attività della comunità torni fruibile. Il progetto prende vita mentre all’interno della zona rossa, tra gli edifici danneggiati, le centine in legno e i tiranti utilizzati per la stabilizzazione temporanea dopo le scosse di Ottobre 2016, perdono efficacia sotto l’azione del tempo.
Norcia
Il tragitto tra Visso e Norcia tocca frazioni come Campi e Ancarano, già spopolate e lontane dai riflettori, che manifestano la loro presenza marcando la strada con proteste sulla ricostruzione assente scritte su lenzuola bianche. Anche a Norcia capoluogo, lungo le mura urbiche e nel centro storico, lenzuola e striscioni reclamano una ricostruzione che stagna.
La discreta risposta sismica dell’edilizia privata nel centro storico, attribuita da addetti ai lavori e cittadini agli interventi di miglioramento sismico intrapresi nel corso della ricostruzione del 1979, è contrapposta ai crolli che hanno interessato tutta l’edilizia religiosa e parte di quella pubblica, rivelando gli effetti di passate operazioni di restauro improprie e mancato adeguamento sismico.
La conseguenza è un centro urbano relativamente integro ma con gravi danni a edifici chiave – tra cui chiese, palazzo comunale, caserma dei carabinieri- in cui la viabilità è stata ripristinata ma la distribuzione delle restanti funzioni è stata profondamente modificata. La città è accessibile ma semivuota, con chiese inagibili, funzioni amministrative delocalizzate in container e larga parte delle attività commerciali trasferite fuori le mura, in strutture temporanee lungo un prolungamento ideale degli assi che collegano porta Romana e porta Ascolana alla cerniera di piazza San Benedetto.
La piazza, su cui si affacciano la basilica di San Benedetto, il palazzo municipale, il museo della Castellina e le testate di edifici privati mostra la marcata differenza nella risposta sismica delle due categorie riaprendo la questione dell’adeguamento sismico in relazione alla preservazione e tutela del patrimonio storico-artistico tra soprintendenze, tecnici e amministratori.
Questi ultimi si confrontano con l’insufficienza di personale tecnico per la gestione dell’emergenza e con la ridistribuzione di funzioni che incide sulla riconversione del piano regolatore. I cittadini, invece, pur avendo fisicamente accesso al paese ed abitandone le aree agibili, lo vivono spostando i baricentri dell’aggregazione verso le strutture polifunzionali temporanee sparse sul territorio.
Preparando future emergenze?
In contesti come quello delle regioni montane dell’Appennino centrale caratterizzate da spopolamento delle aree interne e la coesistenza di pericolosità sismica e geologica, il terremoto rappresenta l’elemento che sbilancia un equilibrio già precario, esponendo criticità latenti, frutto di scelte – fatte o mancate – nella fase tra due emergenze successive. Nelle frazioni dei comuni visitati è forte il malcontento per un percepito disinteresse nel ricostruire i centri minori, con le lungaggini che ne accelerano lo svuotamento e aggravano il danno sull’ambiente costruito, mettendo a rischio il patrimonio culturale sparso sul territorio ed incidendo sull’economia locale legata alla ricettività turistica.
Le difficoltà operative dei provvedimenti previsti dal decreto ricostruzione approvato non pongono soltanto il problema delle tempistiche: oltre che arrivare con tre anni di ritardo, il decreto sembra trascurare l’effettiva estensione territoriale del terremoto e le specificità dei luoghi interessati. Il carattere di straordinarietà e la proroga al 2020 dello stato di emergenza, se da un lato mitigano l’impatto economico e sociale con le misure anti-spopolamento, dall’altro segnano il fallimento della gestione del triennio 2016-2019, con l’importazione di un modello di gestione inadatto e l’avvicendamento di tre commissari straordinari. A Dicembre 2019 i 140 comuni la cui ricostruzione è ancora ferma vedono l’introduzione di altri strumenti urbanistici, come i piani straordinari di ricostruzione, in aggiunta ai piani preesistenti, con l’ulteriore dilatazione dello stato di emergenza.
Tra le implicazioni dell’uso del concetto di emergenza a tre anni dall’evento, va considerato l’impatto sulla percezione del presente, ridotto a una fase di provvisorietà fisica, istituzionale e normativa, incapace di generare azioni immediate che abbiano carattere permanente. La priorità è tornare alla normalità che addetti ai lavori e popolazione identificano con la condizione precedente al sisma e, in quest’ottica, ogni azione che non sia direttamente orientata alla ricostruzione appare secondaria.
La normalitá pre-sisma conteneva criticità irrisolte manifestate nell’impatto dei terremoti a scala urbana e territoriale: il danno fisico – i crolli delle abitazioni, la perdita di patrimonio architettonico, il danneggiamento delle infrastrutture – mostra la vulnerabilità dell’ambiente costruito e sottende l’incapacità di intervenire con misure di prevenzione in tempo di pace.
Inoltre, lo scarso interesse verso i piani di protezione civile e il mancato aggiornamento degli stessi, sia prima che dopo gli eventi del 2016, evidenzia il problema persistente di una insufficiente cultura della prevenzione tra gli attori coinvolti a varie scale nel governo del territorio. Il problema si manifesta eloquente nella mancata integrazione di pianificazione ordinaria e di emergenza negli strumenti urbanistici comunali. All’alba dei terremoti, il mancato dialogo di questi aspetti è risultato in una generale mancanza di preparazione che ha comportato occupazioni di urgenza di aree disponibili, urgenti opere di urbanizzazione e la disaggregazione dei nuclei abitati, con conseguenze sulla presente e futura funzionalità.
A tre anni dagli eventi, e a fronte di uno scenario prevalentemente immutato, vanno considerate le implicazioni future della linea di azione intrapresa. La fase del post-disastro, che inizia all’alba del terremoto e include gestione dell’emergenza e ricostruzione, è un momento di necessaria trasformazione che possiede il potenziale per un cambiamento migliorativo, per correggere le criticità evidenziate dall’impatto del sisma. Quello che si osserva, tuttavia, è il prevalere di un’attesa per il ripristino dello status-quo, durante la quale il danno sull’ambiente fisico e sociale sembra destinato a progredire generando ulteriori future vulnerabilità.