Esperienza di una (de)generazione post-universitaria.
La condizione del tutto inedita della quarantena da Covid19 ha dato la possibilità a me, come a molti altri, di prendersi più tempo per sé, interrompere la “corsa delle esperienze” e rivalutare le proprie prospettive di lavoro e di vita con un minimo di distacco. A quasi 34 anni la mia esperienza lavorativa è relativamente breve: conclusi i 10 anni complessivi di università (tra laurea e phd), sto provando ad aprirmi un percorso professionale, ma pago oggettivamente il ritardo con cui sono entrato nel mondo del lavoro. Così tra le letture della quarantena ho inserito Il pieno di felicità di Cecilia Ghidotti, uscito nel 2019 per Minimum Fax. Del libro mi ha colpito l’acutezza con cui l’autrice collega l’esperienza di ricerca, svolta sia in Italia che all’estero, con l’approccio alla vita tipico dei millenials, indotti/e ad un determinato stile di vita e poi costretti/e dagli eventi di questi ultimi anni a rivedere molte delle loro convinzioni. Insomma, a quanto pare il disagio causato dalle aspettative fallaci alimentate dal sistema formativo è più diffuso di quanto pensassi.
Essendo il racconto una rielaborazione dell’esperienza personale dell’autrice, mi è sembrato utile attivare con lei un confronto diretto.
Nicola: Cara Cecilia, intanto complimenti per quello che hai scritto. È stato stimolante, da lettore, ritrovarsi in molte delle esperienze che descrivi (incluso l’aver fatto il primo colloquio di lavoro a 31 anni!). Ti chiedo innanzitutto cosa ti ha spinta a raccontare la tua vita?
Cecilia: Grazie molte di questo contatto inatteso. La vita di un libro è immensamente più breve del tempo che richiede la scrittura dello stesso (nel mio caso 5-6 anni), quindi intanto sono molto contenta che se ne parli a quasi due anni dalla sua uscita.
Ciò che mi ha spinto a scrivere è stata l’esigenza di riflettere pubblicamente su un’esperienza che mi pareva comune e rilevante in quel periodo: negli anni dell’università e subito dopo ho visto tanti sforzi ed energie buttate, da parte mia e di chi mi stava intorno, nel tentativo di costruire qualcosa a partire da quello che avevamo studiato. Questi sforzi frequentemente si infrangevano, altre volte cambiavano direzione improvvisamente, così volevo raccontare quello che stavamo vivendo, ma temevo nello stesso tempo di ricadere in un discorso troppo autoriferito.
Nicola. Nel libro descrivi la tua relazione con il docente di riferimento del dottorato. “Massimo chiamava, io andavo. Non c’erano amici, impegni, piani che non potessero essere rivisti per andare incontro alle sue esigenze. Veniva prima ed era più importante di tutti gli altri, perché è così che funziona coi docenti.” (p. 110) Come giudichi complessivamente questa esperienza?
Cecilia. Inevitabilmente c’è uno scarto tra la mia esperienza effettiva e quella riportata nel libro perché non tutto quello che è accaduto trovava senso nella logica narrativa, ma mi interessava far emergere dei temi che sono poi quelli che affronto nel libro.
Una cosa vera sono i due dottorati, quindi bisognerebbe anche dichiarare di quale dottorato sto parlando, ma visto che il dottorato numero due non è tecnicamente concluso parlo del primo.
Il dottorato numero uno è stato il tipico dottorato all’italiana, gli esami di ammissione in vari atenei, al primo tentativo non ne ho passato nessuno, al secondo giro ho ottenuto un posto senza borsa nel dipartimento in cui mi sono laureata.
In generale, dal punto di vista assolutamente paradossale di persona che ha un’esperienza di dottorato che si è estesa in maniera sproporzionata rispetto alla media, penso che i percorsi di dottorato che vanno bene e possano essere raccontati come positivi siano pochissimi o forse possiamo addirittura spingerci a dire che il dottorato è un percorso strutturalmente disfunzionale. Questo dipende in buona parte dalla discrasia tra il numero di persone che vengono ammesse al dottorato e le persone che riescono a rimanere all’interno dell’accademia alla fine. È una tensione che si sente moltissimo e causa delle conseguenze e dei danni enormi a livelli di rapporti interpersonali e di percezione di sé. All’interno del dottorato le relazioni sono caratterizzate da gerarchie, squilibri di potere micidiali, da infinite regole non scritte a cui bisogna essere in grado di aderire senza che vengano nemmeno rese esplicite. Bisogna essere costantemente disponibili e reattivi, solidi e determinati e talvolta nemmeno questo basta. In generale il dottorato presuppone una tipologia di studente che è benestante, estremamente mobile e non ha relazioni importanti (affettive o di cura) che influenzano, per esempio, il posto in cui decide di abitare. Ovviamente tutte queste cose hanno un peso enorme anche solo nella possibilità di valutare positivamente l’esperienza stessa. Se mi guardo intorno praticamente nessuna delle persone che conosco ha avuto un dottorato positivo e tranquillo e questa non è una specificità italiana, vale anche per il caso inglese.
Poi devo anche riconoscere che il mio dottorato, dal punto di vista organizzativo, è stato estremamente flessibile. Il primo anno ho potuto continuare a vivere a Torino e nessuno mi ha chiesto di scegliere tra il dottorato a Bologna e la Holden, ero senza borsa e ho avuto dei contratti supporto alla didattica (che comunque non erano un vero stipendio). Il problema più grosso è sorto nel momento in cui sono andata in Inghilterra anche grazie a una borsa e sostanzialmente non sono più tornata. I rapporti più istituzionali si sono sfilacciati, io non ho avuto l’energia di tenerli vivi e di continuare a lavorare sull’espansione del mio progetto di ricerca perché, come racconto anche nel libro, non mi pareva abbastanza solido e fondato. Lì io avrei avuto bisogno di qualcuno che mi spronasse, mi indicasse un percorso e una via perché non ero abbastanza autonoma, questa cosa non è avvenuta, è una specie di processo di selezione implicito, un’altra di quelle regole non scritte cui facevo riferimento sopra.
Nicola. Uno degli elementi più interessanti del libro sono sicuramente i problemi di salute che racconti, collegati direttamente o indirettamente alle tensioni generate dall’attività di ricerca e dall’incertezza sul futuro. Non credo sia un caso che molti dottorandi e ricercatori vadano incontro ad ansia e depressione. La prima la associo al pressante senso di inadeguatezza rispetto alla capacità di essere all’altezza delle aspettative elevate che il contesto richiede, mentre la seconda alla rassegnazione (nel libro parli di “learned helplessness”) verso un contesto in cui è facile perdere entusiasmo per quello che si fa.
Cecilia. Io fino ad un certo punto della mia vita mi lamentavo moltissimo ma non avevo paura quasi di niente. Poi di botto ho iniziato ad avere paura, paura principalmente di perdere il controllo del mio corpo, che era qualcosa della cui solidità e resistenza non avevo mai dubitato. È stato spaventoso e ha voluto dire entrare in un territorio completamente nuovo, di cui non conoscevo la mappa. All’inizio pensavo fosse un problema mio individuale e questa cosa moltiplicava l’ansia. Poi ho visto molti medici e fatto molti controlli, imparato che è una cosa che succede. Contestualmente ho scoperto che i problemi di salute mentale sono diffusissimi in accademia. L’approccio britannico alla cosa è discuterne parecchio in pubblico e sui giornali e offrire delle soluzioni individuali (dal counseling ai corsi di mindfulness) che non risolvono e nemmeno prendono in considerazione i problemi strutturali che stanno alla base di questi disturbi. In Italia probabilmente se ne discute meno a livello pubblico ma la frustrazione e consapevolezza di un disagio generalizzato sono molto forti.
Sono d’accordo con quanto dici che ansia e depressione sono generate dal senso di inadeguatezza rispetto ad un’immagine di noi che ci siamo costruiti negli anni, però aggiungerei che questo malessere è generato soprattutto dal disallineamento tra le nostre aspirazioni e i limiti concreti incontrati nel nostro percorso. Penso alla quantità di lavoro non pagato cui tutti i dottorandi sono tenuti a sottoporsi, all’erosione del confine tra tempo del lavoro e non lavoro, al fatto che per andare avanti devi essere una persona con una certa disponibilità economica per poterti permettere di stare all’interno del dottorato e anche per sopravvivere nel post dottorato.
Nicola. Nonostante tutte le difficoltà che la nostra generazione sta incontrando, nel libro dici: “Sono ragionevolmente certa che nessuno mollerà sul serio le proprie occupazioni mal retribuite nel sottomondo dell’università: (…) vorrebbe dire abbandonare tutte quelle attività che consentono di mantenere aperto lo spiraglio (…) di approdare alla posizione di ricercatore”. (p 168) Mi sembra un interrogativo centrale per il discorso che stiamo facendo. Se nemmeno di fronte ai problemi di salute siamo disposti a riconsiderare le nostre scelte, forse c’è qualcosa che non va, che ne dici?
Cecilia. Ovviamente quando faccio quelle affermazioni sto generalizzando, le storie individuali sono tutte uniche e particolari, io stessa faccio parte del gruppo che non è capace ad abbandonare una certa idea di sé. Quello che intendevo con quella frase è che è davvero difficile, e anche ingiusto, dopo anni di impegno e investimenti essere costretti a rinunciare a quelle aspirazioni, a quei desideri e a quel senso di sé. Perché non si tratta solo di cambiare aspirazioni o percorso professionale (cosa che in molti casi è semplicemente impossibile), ma anche di interrompere relazioni e rapporti che si sono consolidati negli anni. Questi elementi non rappresentano solo un orizzonte lavorativo ma anche uno scenario di rapporti personali, amicizie, alleanze, consuetudini e quindi il percorso per ‘riconsiderare’ le scelte, anche di fronte a problemi di salute mentale importanti, è assai lungo e complesso e non passerà mai per un taglio netto.
Nicola. Nel libro uno dei concetti più discussi e “strattonati” è quello di “casa”. A Coventry è evidente che non ti senti a casa e per questo organizzi ritorni periodici nelle città in cui hai studiato e che hai percepito come tue (Bologna, Torino ecc.). Allo stesso tempo cerchi occasioni per trascorrere fine settimana in giro per l’Europa, ospitata da altri amici trasferitisi all’estero. Ne esce una vita sospesa e saltellante (talvolta schizzata), che non esprime un’idea fissa e determinata di casa, ma sembra più un mosaico, uno spazio dinamico a geometria variabile, dove il centro di gravità muta nel tempo. Per uno stanziale come me questi spostamenti comunicano sicuramente curiosità ma anche disorientamento. In realtà, il dato interessante che emerge chiaramente è un senso di casa policentrico, collegato strettamente alle esperienze/relazioni significative, come unici reali elementi per trovare un radicamento in un’epoca dove tutti si muovono.
Cecilia. Nella mia esperienza casa non è un posto soltanto in cui si torna, ma tanti posti e tante relazioni. È certamente un privilegio avere la possibilità di tornare in molti posti, però a volte la mancanza di un posto che è inequivocabilmente casa si fa sentire. È il rovescio della medaglia di quella narrazione che è stata fortissima a cavallo dell’introduzione dell’euro e si è estesa lungo tutto il corso degli anni zero e dieci che prevedeva per un certo segmento di gioventù europea privilegiata la possibilità di muoversi in maniera fluida nei paesi d’elezione, talvolta anche con un senso di ripicca per le opportunità che il paese natale non offriva.
Negli anni sono diventata totalmente insofferente alla prosopopea sui cervelli in fuga, in cui emigrare significa ‘essere expat’, come a voler nobilitare questa emigrazione rispetto ad altre emigrazioni. Ecco quello che ho voluto fare con il libro era riportare l’esperienza di emigrare alla sua materialità, che pur in un contesto di privilegio estremo, comporta comunque sforzi, fatica, scelte dolorose. E poi c’è un tema che avrei voluto affrontare di più che è quello delle conseguenze sull’ambiente di uno stile di vita basato sui voli low-cost, che è qualcosa di cui fino a 5-6 anni fa c’era pochissima consapevolezza.
Nicola. Mi ha colpito molto che, in tempi non sospetti, parlassi già di dove vivere durante un’epidemia. “Mi chiedevo se nel caso di un’epidemia avrei preferito essere in Italia con la mia famiglia, oppure restare altrove, il più distante possibile. Mi immaginavo l’arrivo all’aeroporto di Orio al Serio con uno degli ultimi voli disponibili, i negozi dell’aeroporto saccheggiati e tutto il corredo di immaginario che ci hanno fornito i film e le serie distopiche.” (p. 52) Come impattano prima la Brexit (2015) e oggi la pandemia sulla “generazione Erasmus” e sulla vita di due ricercatori italiani in Inghilterra?
Cecilia. È la prosecuzione del discorso di prima, Brexit e Covid rendono per ragioni diversissime ancora più evidente che l’idea fluida di vivere tra [inserisci due capitali a caso] non è più così facilmente sostenibile. Intendiamoci, nonostante Brexit pare che chi si è mosso verso l’Inghilterra anni fa non dovrebbe avere grossi problemi e forse tutti gli altri, quelli che sarebbero venuti in Inghilterra per ‘fare esperienze’, troveranno altre destinazioni oppure ci saranno altri modi per farlo. Tuttavia questi due accadimenti, nel caso del virus del tutto inaspettato, rivelano in maniera incontrovertibile che stare in un certo posto significa stare lì e non potersi muovere con la stessa facilità di prima (parlo della pandemia) o andare avanti e indietro (parlo di chi vorrà venire in Inghilterra dopo il 2021). Poi va anche aggiunto che queste percezioni non sono fisse, durante il primo lockdown avevo l’impressione che lasciare l’Inghilterra sarebbe stato difficilissimo, mesi dopo sono tornata in Italia a bordo dello stesso Ryanair esattamente come ho fatto negli ultimi sette anni, solo che avevo la mascherina in faccia. Certo poi, come tutti sappiamo, la situazione è peggiorata a livello tale da rendere impossibile una cosa che per anni abbiamo dato per scontata, vale a dire il ritorno a ‘casa’ durante le feste.
Invece per quanto riguarda l’epidemia, ci avevo visto giusto ma penso l’interrogativo fosse mal posto, usavo il verbo ‘preferire’ postulando una qualche forma di libertà di scelta come si trattasse di decidere dove trascorrere le vacanze estive e non di una situazione di crisi globale.
Nicola. Vorrei salutarti con un parallelo con un’altra “lettura del disagio”, ovvero quella di Raffaele Alberto Ventura nel libro “Teoria della classe disagiata”. Credo che i vostri testi abbiano in comune un tentativo di rileggere in chiave critica mentalità e scelte della nostra generazione. La lettura del suo testo è stata illuminante per me perché mi ha aiutato a capire quanto il dottorato fosse anche vissuto come opportunità di posizionamento sociale, anche a prescindere dalle scarse o comunque improbabili prospettive di impiego nella ricerca. Cosa ne pensi?
Cecilia. Sono d’accordo. In diversi mi hanno detto che se il suo è stato una teoria della classe disagiata, il mio potrebbe essere una pratica, un racconto delle fenomenologie del disagio connesso ai mestieri culturali. A differenza tua non è stato con il libro di Ventura che ho incontrato per la prima volta i temi del posizionamento sociale legato alle attività intellettuali.
Grazie ad un corso universitario, lo racconto anche nel libro, ho scoperto Bourdieu, che è uno che insiste parecchio sulla cultura come distinzione, su chi la possiede, su come viene usata, sul tipo di violenza che la cultura può esercitare su chi non ce l’ha e quando ho letto la Classe Disagiata ho in parte ritrovato quelle suggestioni. È quasi impossibile non rivedersi nel libro di Ventura, anche se a tratti l’ho trovato anche un po’ crudele con la nostra generazione perché tende a smantellare un desiderio che io invece considero legittimo, che quello di lavorare nella conoscenza. Poi penso anche che il suo come il mio siano stati libri efficaci e utili per fotografare un certo momento, ma ci vorrà del tempo per capire se erano prospettive di lungo periodo o condizioni temporanee e destinate a essere sostituite alla svelta da qualcosa d’altro. L’impatto che ha avuto il Covid farebbe propendere per questa seconda ipotesi ma è ancora presto per fare delle valutazioni definitive.
Nicola. Un elemento decisivo della riflessione di Ventura è la durissima critica al sistema della formazione universitaria, che si collega strettamente alla disfunzionalità del dottorato di cui parlavi prima e al disagio per una formazione che non finisce mai, e che ci porta ad autorappresentarci come eterni studenti. In un passo significativo del libro cerchi di stemperare il peso della sconfitta generazionale: “Questa notte ci concediamo una pausa dalla sconfitta, la riconosciamo e ne abitiamo gli spazi più comodi e fortunati. Se dai nostri orizzonti bassi di miserabile precarietà possiamo ancora permetterci gli weekend a bere birrette nelle piazze, coi tavolini, delle città europee, allora forse non va ancora così male.” (p. 183)
Oltre a riflettere sulle cause della nostra frustrazione individuale, tuttavia Ventura tenta una riflessione sulle conseguenze sistemiche dei fallimenti della formazione. La riflessione che mi viene da fare in conclusione è che la consapevolezza delle conseguenze personali e sociali di un sistema che alimenta strutturalmente “sogni e aspettative irrealizzabili” dovrebbe stimolare varie forme di ribellione. Il libro di Cecilia, tra le altre cose, è stato anche questo: una denuncia generazionale verso un mondo del tutto autoreferenziale, un rifiuto di subire una sconfitta che non è affatto solo nostra.