Alcuni spunti a partire da “Il realismo è l’impossibile” di Walter Siti.
La letteratura, dice Nabokov, non nacque il giorno in cui un ragazzo uscì dalla grotta gridando «al lupo, al lupo!» mentre un grosso lupo grigio lo inseguiva – nacque quell’altra volta che il ragazzo uscì dalla medesima grotta gridando «al lupo, al lupo!» e non c’erano lupi dietro di lui [1].
Alcune riflessioni sollevate nel saggio Il realismo è l’impossibile, edito a febbraio 2013 da Nottetempo, costituiscono un contributo forte al dibattito attuale sul realismo in letteratura. Innanzitutto, cosa intende Walter Siti per realismo?
Il termine non sta a indicare un determinato movimento letterario, ma alcuni degli artifici utilizzati da uno scrittore per creare un mondo che abbia le caratteristiche necessarie per sembrare realmente esistito.
Viene dunque rifiutata la definizione di realismo esclusivamente riguardante l’Ottocento e la sua forma-romanzo: secondo Siti il realismo è una «modalità delle arti figurative e della letteratura di esprimersi dall’antichità alla contemporaneità»[2]. Siti infatti indica delle forti affinità nelle tecniche narrative tra scrittori di epoche diverse; stringenti sono le somiglianze tra le tecniche utilizzate dagli scrittori definiti canonicamente realisti e quelli non ritenuti tali. Un autore come Dickens, considerato tra i maggiori esponenti del realismo ottocentesco, si può affiancare a Proust, Joyce o Dostoevskji, considerati invece tra gli scrittori che hanno scardinato lo stesso realismo ottocentesco; preso atto di ciò, si noterà la comune presenza nei loro romanzi di tecniche narrative che, come dice il critico, creano un “effetto di realtà”.
A definire il concetto di “effetto di reale” – dal punto di vista delle tecnica narrative – è stato, suggerisce Siti, Roland Barthes, il quale spiega come alcuni dettagli – che alcuni autori, tra i quali Flaubert, inseriscono nei loro romanzi – hanno un ruolo centrale nella struttura narrativa per il fatto stesso di essere, di costituire il reale. E, sempre secondo Barthes, dall’Ottocento in poi i dettagli che potevano essere considerati inutili vengono a diventare fondamentali, perché con la loro presenza garantiscono l’esistenza di un mondo reale di cui i frammenti che entrano nel romanzo sono la testimonianza[3].
Siti, in Il realismo è l’impossibile, spiega che «quando si vuole che il lettore entri dentro il racconto come se lo stesse vivendo personalmente, allora i dettagli devono essere precisi, niente deve stonare, lo scrittore deve diventare uno scenografo assai pignolo»[4]. Ed è proprio la descrizione del dettaglio, compito impossibile per lo scrittore da assolvere alla perfezione, che contribuisce in maniera efficace ad ottenere un “effetto di realtà”. Ed è per questo che, anche solo la descrizione di un oggetto o di una parte del corpo, non sarà mai esaustiva abbastanza:
Aveva ragione Picasso, inseguire la realtà nella sua informe infinitezza è un compito impossibile oltre che inesauribile: la descrizione di un semplice tavolo può occupare anche cento pagine, dipende dal livello di ingrandimento e dalla matematica dei frattali[5].
Non è possibile dunque un’imitazione pura e semplice della natura, perché porterebbe ad una rappresentazione sterile della realtà. Il realismo, in quanto ‘effetto di realtà’, si basa su di un paradosso: per rappresentare la realtà c’è bisogno di artificio, di inganno, di ribaltamento della percezione di chi legge. Il realismo si costituisce su un’ambiguità: da una parte è una tecnica razionale e scientifica, dall’altra è tecnica d’inganno, trompe l’oeil.
L’opera d’arte riproduce dunque la realtà, ma non è esente dal mostrare l’artificio, e quindi portare il messaggio che essa può essere oggetto di simulazione, di parodia. A questo proposito Siti ricorda la leggendaria disputa pittorica tra Zeusi e Parrasio, riportata da Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia, in cui Parrasio risulta essere il pittore più bravo, riuscendo ad ingannare il suo stesso concorrente che non riconosce che il drappo sotto cui pensa ci sia il quadro è già di per sé l’opera dipinta[6]. È in un mito come questo che secondo Siti si rivela la «potenza dell’arte»[7], ossia la sua potenza d’illusione: l’artista, nel caso specifico lo scrittore, viene a creare artificialmente, per mezzo delle parole, qualcosa che prima non c’era, e fa sì che il lettore si illuda che quello che l’autore descrive si riferisce ad una realtà preesistente.
Fondamentale e collegato a questo è per Siti è il concetto dello “straniamento”, quel procedimento adottato dall’arte per andare contro l’automatizzazione, per non scadere nel cliché, nell’abitudine.
«L’automatizzazione si mangia gli oggetti, il vestito, il mobile, la moglie e la paura della guerra» scrive Šklovskij nel suo saggio L’arte come procedimento del 1917. Il compito dell’arte e nello specifico della letteratura è quello «di recuperare la possibilità di espressione» di quegli oggetti. Vale la pena di leggere questo esempio, riportato proprio da Šklovskij. È un passo del racconto Cholstomer. Storia di un cavallo di Tolstoj, in cui viene descritta l’istituzione della proprietà privata dalla prospettiva straniata e straniante di un cavallo.
Allora non potevo assolutamente comprendere che volesse dire essere chiamato proprietà di un uomo. Le parole: “il mio cavallo” si riferivano a me, cavallo vivo, e mi parevano altrettanto strane che le parole “la mia terra”, “la mia aria”, “la mia acqua”. Ma queste parole ebbero su me un’enorme influenza. Ci pensavo senza tregua, e solo molto dopo aver avuto con gli uomini le più svariate relazioni, compresi alla fine il significato attribuito dagli uomini a quelle strane parole. Essi amano non tanto poter fare o non poter fare qualcosa, quanto poter dire dei diversi oggetti parole tra loro convenute. Le parole che essi considerano così importanti sono le parole mio, mia, che essi dicono di cose diverse, esseri e oggetti, persino della terra, degli uomini e dei cavalli. Si accordano perché di un dato oggetto, uno solo dica mio[8].
Il “trucco” utilizzato da Tolstoj è proprio quello di descrivere le cose come se le fossero viste con gli occhi di qualcun altro, nel caso specifico di un animale.
Ma come si pone lo scrittore realista nei confronti della realtà che descrive? Lo scrittore realista, fa notare Siti, nutre amore e odio nel contempo: «molti scrittori realisti odiano la realtà, se no non dedicherebbero la vita a fabbricarne un surrogato e una parodia»[9].
Queste e altre questioni accompagnano e ossessionano l’autore, interrogandolo nella scelta e stesura dei propri romanzi. È lui stesso infatti ad ammettere tra le pagine del saggio che il testo non è altro che «una bieca ammissione di poetica»[10]. Parafrasando: il testo costituisce un autoritratto, estremamente lucido, delle riflessioni che stanno alla base della scrittura dei romanzi di Walter Siti.
[Qui il video dell’intervista a Siti, in particolare sui romanzi: Troppi paradisi, Il Contagio, Autopsia dell’ossessione, svoltasi all’interno dell’iniziativa di Incontrotesto il 17 novembre 2011].
Note
[1] Walter Siti, Il realismo è l’impossibile, Nottetempo, Roma 2013, p. 16
[2] Cito dall’intervento che Siti ha tenuto a Sarzana il 30 agosto 2008 all’interno del Festival della Mente (da cui in buona parte è stato sviluppato il saggio in questione).
[3] Roland Barthes, “L’effetto di reale”, in Il brusio della lingua, Einaudi, Torino 1988, p. 158.
[4] Walter Siti, Il realismo è l’impossibile, op. cit., p. 43.
[5] Walter Siti, Il realismo è l’impossibile, op. cit., p. 24.
[6] Gaio Plinio Secondo, Storia naturale, libro XXXV, p. 65.
[7] Walter Siti, “L’orgoglio del romanzo”, in L’Asino d’oro, anno V, numero 10, Novembre 2004, p. 67.
[8] Viktor Borisovič Ŝklovskij, “L’arte come procedimento”, in I formalisti Russi a cura di T. Todorov, Einaudi, Torino 1968, p. 84.
[9] Walter Siti, Il realismo è l’impossibile, op. cit., p. 58.
[10] Walter Siti, Il realismo è l’impossibile, op. cit., p. 48.