I fiori blu di Palermo

A proposito di “Swinging Palermo” di Piero Violante, da poco ripubblicato da Sellerio.

fiori blu Palermo
Enzo Sellerio, L’asino e la portaerei. Palermo, 1960

«Il venticinque settembre milleduecentosessantaquattro, sul far del giorno, il Duca d’Auge salì in cima al torrione del suo castello per considerare un momentino la situazione storica. La trovò poco chiara. Resti del passato alla rinfusa si trascinavano ancora qua e là».

Questo è l’inizio noto e irriverente di Fiori blu, il romanzo «intraducibile» di Raymond Queneau, apparso a Parigi per Gallimard nel 1965. L’incipit di Queneau è la chiave di lettura del libro di Piero Violante Swinging Palermo, uscito per la casa editrice Sellerio nel 2015 e adesso ristampato in una seconda e identica edizione. L’autore riporta la citazione di Queneau per ben due volte, a metà e alla fine del testo (p.148 e p. 348). A Palermo di Les fleurs bleues si discuteva, ancor prima che Italo Calvino si cimentasse nella liberissima traduzione per Einaudi, uscita nel 1967.

Queneau si leggeva a Palermo perché attraverso le sue opere si risaliva ad un formidabile gruppo di intellettuali francesi, stretti e devoti intorno a quello che Antonio Gnoli ha definito un «maestro occulto del Novecento», cioè André Kojève. «Nei pellegrinaggi parigini presessantottini – scrive non a caso Violante – si andava in cerca di quei mandarini sofisticati, retori nani, oratori incantevoli e perfidi» (p. 97). Nella Parigi degli anni fra il 1933 e il 1939, c’era stato un evento intellettuale minimo ma di grande emozione per i partecipanti, si trattava delle lezioni su Hegel tenute dal giovane emigrato russo Kojève alla École Pratique des Hautes Études. Gli altri giovani che lo ascoltavano erano Jacques Lacan e Raymond Aron, Maurice Merleau-Ponty e Georges Bataille, André Breton e Roger Caillois. Mentre l’allievo che prendeva le note delle lezioni era Queneau; lui era nato nel 1903, Kojève l’anno prima. Quando nel 1939 si chiudeva il ciclo di lezioni di Kojève, appariva il testo di Hegel tradotto integralmente per la prima volta in francese. Ad assumersene l’onere era stato Jean Hippolyte – il futuro maestro di Gilles Deleuze, Jacques Derrida, Gérard Granel, Étienne Balibar e Michel Foucault («i mandarini sofisticati») – tra gli ascoltatori fedeli di Kojève.

Kojève, commentando soltanto la Fenomenologia, si assumeva il compito di restituire un inedito e ateo Hegel al Novecento, sottraendolo alla Germania nazista, strappandolo di colpo alla dimensione idealistica in cui era stato mantenuto nelle università tedesche (e alle interpretazioni che Croce e Gentile ne davano in Italia). Per portare a termine quest’opera, Kojève sezionava Hegel mettendo in evidenza solo alcuni temi dall’immensa carica eversiva come le figure del «Signore» e del «Servo», il gioco fra queste e le nozioni di «Desiderio» e «Riconoscimento» e il nodo della «fine della Storia». Le pagine hegeliane, come si sa, furono scritte al frastuono dei cannoni di Jena, quando il filosofo buttava giù la famosa Vorrede celebrata, non a caso nel 1941, da Herbert Marcuse, profugo tedesco ed ebreo in America, come «una tra le più grandi imprese filosofiche di tutti i tempi, costituendo niente di meno che un tentativo di restaurare la filosofia come la forma più alta della conoscenza umana, come “La Scienza”»1.

Leggendarie le parole scritte da Hegel all’amico Friedrich Niethammer, su Napoleone: «Ho visto l’Imperatore, quest’anima del mondo, uscire dalla città per andare in ricognizione. E’ una sensazione meravigliosa vedere un tale individuo che qui, concentrato in un punto, seduto su un cavallo, si irradia sul mondo e lo domina»2. Dopo quella battaglia, sosteneva Kojève, tutto era compiuto e il pensiero stesso diventava post-storico: non restava alcuno spazio per la novità, se non come riepilogo e ironico ritorno al passato.

La Fenomenologia dello Spirito come la trascrizione filosofica del sogno napoleonico di dar vita a uno Stato universale e omogeneo: questo insegnava (e inseguirà) Kojève per tutta la sua vita. Malgrado il mondo si stesse per perdere nella grande carneficina del secondo conflitto, questa storia, sosteneva Kojève, un giorno sarebbe (o, meglio, era già) finita, e quando le grandi lotte saranno superate, lo sarà pure la filosofia, il cui posto sarà preso dalla saggezza; l’uomo alla fine della storia sarà contento, certo non felice, ma soddisfatto, riconciliato con il mondo. Questo non voleva dire distrarsi, ritirarsi, non partecipare agli eventi tragici della storia: al contrario sia Kojève sia Queneau parteciperanno alla guerra e alla resistenza. Ma c’era anche una battaglia culturale da combattere.

Nel 1947, ancora per Gallimard, usciva a cura di Queneau la Introduction à la lecture de Hegel, e nel 1962 una nuova edizione aggiornata. Nel mentre Einaudi, già nel 1948, aveva pubblicato una parte dei corsi di Kojève con il titolo La dialettica e l’idea della morte in Hegel (per l’edizione integrale bisogna aspettare quella del 1996 della Adelphi). Intanto Quenaeu riversava l’insegnamento di Kojève in tre opere scritte nell’arco di un decennio sempre per Gallinard: Pierrot mon ami del 1942 (tradotto nel 1947 da Fabrizio Onofri per Einaudi con il titolo Pierrot amico mio), Loin de Rueil del 1944 (tradotto come Suburbio in fuga, Einaudi 1970) e Le dimanche de la vie del 1952 (La domenica della vita, Longanesi nel 1957).

Ad apporre il suo imprimatur filosofico su questi «romanzi umoristici dall’aspetto inoffensivo» era lo stesso Kojève che in una recensione li accomunava sotto l’etichetta di «romanzi della saggezza» (I romanzi della saggezza. Raymond Queneau, ora in A. Kojève, Il silenzio della tirannide, Adelphi 2004). I protagonisti di questi romanzi sono tre incarnazioni del saggio. Dei saggi meravigliosi, dato che tradizionalmente la saggezza era associata, secondo Kojève, a «personaggi più o meno barbuti, o al limite epilettici, che vivono isolati e che parlano, preferibilmente di notte, di argomenti reputati sublimi». Quelli di Queneau erano invece uomini insignificanti, banali perdigiorno che si esprimono in un francese sgrammaticato e non parlano d’altro che di sé; l’ultimo dei tre, il soldato Valentin Brû, il protagonista de La domenica della vita, viveva «in piena metafisica, dato che – scriveva Kojève – abitualmente non pensa a niente». L’avvertenza che Queneau scolpiva all’inizio di La domenica della vita, può tranquillamente essere riportata all’inizio del libro di Violante: «Siccome i personaggi di questo romanzo sono reali, ogni rassomiglianza con figure immaginarie verrebbe ad essere fortuita».

L’espressione «La domenica della vita» proveniva dell’Estetica di Hegel, ed era stata utilizzata dal filosofo per far capire il senso di appagamento e di conciliazione prodotto dalla pittura olandese. In quei quadri ciò che contava era l’apparenza, non la materia rappresentata; gli oggetti raffigurati erano infatti cose banali, quotidiane, transitorie. Era l’effimero che fissato sulla tela diventava permanente: l’apparire quindi trionfava sul sostanziale, l’arte sulla caducità. Nel profano che diventa sacro, nella forma che diventa contenuto si affermava la soggettività dell’artista. Una soggettività che faceva dell’umorismo la propria cifra, proprio perché ogni tragedia della storia trapassava nella commedia post-storica.

Il protagonista del romanzo era Valentin Brû, autentica incarnazione del saggio kojèviano, che considerava le cose dal punto di vista della fine della storia e le comprendeva secondo la loro necessità profonda. Dopo aver combattuto in Madagascar, Brû si adagiava nell’ozio e nella monotonia della vita borghese a Bordeaux tra le due guerre. A un certo punto «non gli restò più che la vacuità stessa del tempo. Allora cercò di vedere come il tempo passava, impresa così difficile come sorprendersi nell’attimo di addormentarsi». Se pensava a qualcosa, meditava sulla battaglia di Jena, il cui mito, non a caso, lo attraeva irresistibilmente. Le sue sole occupazioni erano vendere cornici (fissare e conservare i ricordi) e predire il futuro travestito da donna, sotto lo pseudonimo di Madame Saphir. Le sue digressioni oziose si dividevano equamente fra la guerra passata e quella che incombeva, anche perché «la prospettiva di riprendere la parte di madama Saphir dopo la guerra non irritava Valentin, dal momento che per lui non ci sarebbe dopoguerra. O meglio dopo, non ci sarebbe niente. O meglio ancora, era impensabile. Dopo una tale guerra, non ci sarebbe dopo».

fiori blu Palermo

Mi sembra che tutti i ritratti di intellettuali che Violante ci offre nel suo libro abbiano in comune la saggezza di Brû, di coloro che sanno di essere gli ultimi e ne ridono: «una generazione – scrive Violante – di intellettuali di affermate radici locali, ma istintivamente europei, curiosi, pignoli, ironici, ferratissimi, ostinati, sempre pronti a prendere posizioni, a sfidare il paradosso, disincantati, ma abbarbicati ai valori della libertà» (p.57). Uomini e donne in fin dei conti contente, certo non felici, ma soddisfatti, riconciliati con il mondo e a volte anche con la città. Una domenica della vita tutta palermitana.

Il testimone del saggio kojèviano, ne I fiori blu, passava da Brû a Cidrolin nullafacente, che viveva, nel 1964, in scientifica indolenza su un barcone sempre ammarato a riva sulla Senna. Di lui si conosceva poco, di sicuro beveva tanto Pernod, dormiva e sognava tantissimo. C’era forse un nemico nascosto che imbrattava di minacce la staccionata che lo separava dal resto del mondo, bisognava quindi ridipingere per ripristinare l’equilibrio, far ritornare le cose come prima, cioè sonnacchiose e indolenti. Cidrolin ogni tanto sognava il Duca d’Auge che era invece il suo esatto opposto: l’eroe della storia, l’eterno presente e presenzialista, l’uomo al posto giusto nel momento giusto, che puntualmente, ogni 175 anni, si presentava come protagonista armato di eloquenza, ragioni, proteste, idee, cappa e spade sul palcoscenico pubblico. Nel 1264 incontrava San Luigi, nel 1439 comprava cannoni, nel 1614 scopriva un alchimista italiano che però inventava il Pernod, nel 1789 si dedicava a una strana attività pittorica nelle caverne del Périgord e, finalmente, nel 1964 avveniva l’incontro con quel Cidrolin che egli aveva più volte visto in sogno. Il quale continuava a non muoversi dalla sua chiatta e dal 1964, in fondo, ripeteva, «la storia non è stata mai il telegiornale e il telegiornale non sarà mai la storia». Il Duca invece trasformava il barcone in un’arca di Noè, per affrontare il diluvio e arrivare alla meta tanto agognata, cioè l’uscita dalla storia o un suo eterno ritorno.

Lo stesso Calvino, nella sua nota di traduzione che accompagnava il libro di Queneau, individuava la cifra dei Fiori blu nella «uscita dalla Storia», attraverso la conquista della saggezza alla Kojève.

Questa idea centrale – scriveva Calvino – si trova in più d’un romanzo di Q., ma mai in modo così esplicito come nelle Fleurs bleues. Le parodie caricaturali di fatti storici ed epoche possono essere facili e scontate, ma quel che ci mette Q. è una specie di sarcasmo contro il tempo e i suoi valori, contro l’“homo historicus” rappresentato dal frenetico Duca d’Auge (non incline però all’interventismo: si rifiuta di partecipare alla Crociata, e sta ben attento d’evitare di trovarsi in mezzo alla Rivoluzione francese), contrapposto all’uomo statico per eccellenza, che sonnecchia su una chiatta immobile sulla Senna e la cui unica attività è il sogno.

Davvero, come «disse il Duca d’Auge, tutta questa storia per un po’ di giochi di parole, per un po’ d’anacronismi», come quelli posti nel folgorante esordio de I fiori blu? Se «resti del passato alla rinfusa si trascinavano qua e là», se perfino il nostro vissuto si dissolve nella ragione storica, non ci resta altro che fare di esso un divertissement scevro da colpe o engagement? Eppure dalle macerie della storia, sulla terra inondata da un nuovo diluvio universale e tutta coperta di fango, spuntano tenui e tenaci i fiori blu delle illusioni. Lo stesso Queneau aveva ironicamente identificato, nell’espressione i fiori blu, «persone romantiche, idealiste, nostalgiche d’una purezza perduta». Quelle persone che secondo Violante hanno avuto, e avranno, la «chance rara di riconfermarsi nel ruolo, d’inventare parole nuove, di variare quelle che ci sono state tramandate, di mandare in soffitta quelle che non servono più» (p. 349).

Delle storie di questi fiori blu è pieno il libro di Violante. Difficile tirarne fuori dal mazzo qualcuno a modo di esempio. Proviamo con quello che forse è il più bello dei ritratti del libro, cioè le pagine dedicate a Enzo Sellerio (pp. 326-336) che, forse, sono anche un po’ un autoritratto per interposta persona. Più che palermitano, Sellerio è un americano di formazione. Del resto per tutto il libro di Violante si parla di Palermo, ma anche di New York, di Vienna, di Parigi, di Londra. Così come i suoi protagonisti sono solo in parte palermitani ma in gran parte vengono da tante altre parti d’Italia e del mondo. Il luogo del racconto di Violante è la città, ma non quella della mafia, della corruzione, dei poteri criminali, della speculazione edilizia; lo è anche, ma è soprattutto quella internazionale dei teatri, della musica, dell’archeologia, dell’accademia, dei libri, della radio e dei giornali. Il posto più bello di Palermo sembra essere il suo aeroporto.

A complicare le cose, c’è che quasi tutti i palermitani di cui parla Violante si sono formati sotto la guida di non palermitani o in altri luoghi lontani e vicini. Tutti si erano formati prima del Sessantotto, mentre la storia mondiale swingava, in un clima ancora non intossicato dalle rigidità ideologiche o dal ritorno strutturalista al territorio, o peggio all’insularismo e alla sicilitudine. Insomma Palermo come qualunque altro pezzo del mondo. Per esempio, racconta Violante, ciò che affascinò Theodor Adorno della città era stato «il carattere esclusivo della sua society, esattamente come era in Europa cinquant’anni prima. Lo colpiva il suo anacronismo, la sua non contemporaneità da Ancien régime prolungato con i suoi principi e i suoi duchi malinconici, ma soprattutto con le sue principesse e belle donne» (pp. 127-128). Era forse il disagio del progresso?

La stessa impressione su Palermo l’aveva avuta qualche anno prima anche Guido Piovene. In Viaggio in Italia, la città gli appariva in trasformazione: «ho dovuto chiedermi – scriveva e lo riporta Violante – come sarà Palermo tra una cinquantina d’anni. Forse nessun’altra città italiana costringe a questa domanda con tanta nettezza». Magari finirà come Rio de Janeiro che «fu una nobile città di stile portoghese, oggi una selva di cemento e grattacieli». Piovene non rimpiangeva la distruzione, anche fisica e urbanistica, della sua antica struttura aristocratica:

Essa muore senza rimedio, perché Palermo, tra le nostre città, era la più votata ai fasti della potenza signorile, anzi archetipo della città signorile, scenario di Palazzi, ville giardini e famiglie spettacolari. La nuova borghesia che sale non si cura di nobilitarsi col ripristinare palazzi e preferisce investire i guadagni in edifici nuovi di speculazione.

Del mondo di Antico regime, tenuto artificialmente e farsescamente in vita dal fascismo, ben poco, per Piovene, si era conservato: «restano gli ultimi saloni e terrazze con palme, un’atmosfera semimagica, rievocazioni di stranezze, fiabe di principi, di animali e di mafia, che ormai possono essere raccolte solamente dalla poesia. Vi ho accennato perché ho voluto segnare questo momento di trapasso, in cui recandosi a Palermo si hanno sensazioni che certo non si avranno più fra qualche anno. Una nuova città convive senza fondersi con una città quasi spiritica, già più passata che presente».

Quando, qualche anno dopo, Alberto Arbasino pubblicava Specchio delle mie brame, travolgente e dileggiante pamphlet-romanzo sul kitsch all’italiana, lo ambientava a Palermo, perché:

tra fin-de-siècle e Belle Époque potrà fornire meglio di ogni altra città titolare di un suo Art Nouveau consolidato e specifico (Milano, Torino, Napoli) un suo ghiotto contrasto, diciamo così, fra una capitaliana tutta pétillante di stile Liberty coloniale – Teatro Massimo e Villa Igea, Targa Florio e Hôtel des Palmes, palazzine di Basile e villini viveurs e balli costumati brillantemente à la page con delizie di Savoy e dei Ritz – e le vaste magioni sepolcrali naturalmente, estremamente, gattopardesche in campagna, spalmate di lutto, con un gran bel balzo indietro di parecchi secoli anche a pochissimi chilometri di distanza, in un fondo catino assolato e tenebroso di un modo di vita perfettamente feudale, impeccabilmente primordiale, squisitamente arcaico… Stupendo!

L’atmosfera dipinta da Piovene, Adorno e Arbasino, offriva lo scenario perfetto per capire come proprio in quegli anni Giuseppe Tommasi di Lampedusa scrivesse a Palermo un capolavoro della letteratura mondiale come Il Gattopardo. In quel libro si rendeva conto, spiega Violante in pagine molto intense, delle modalità di una dissoluzione, della velocità di caduta di una classe improvvisamente sbriciolatasi insieme ai suoi palazzi, sotto le bombe degli alleati e l’assordante silenzio dell’indifferenza e dell’oblio. A tal proposito si legge in Swinging Palermo:

come tutti i grandi romanzi dei “riti di passaggio”, in quel passaggio dai Borboni ai Savoia, Lampedusa rilevava le debolezze del passato ma anticipava le brutalità del futuro, alludendo al futuro “suo” contemporaneo. Quello degli anni ’50. Ciò che difatti Lampedusa definiva con puntiglio, con ironia era il declino della sua classe, il suo accelerato dissolversi con ignavia o con cinismo nel rampantismo petit bourgeois […] Negli anni ’50, Palermo vede la irresistibile ascesa di un gruppo di picciotti senza nome né storia che di fatto in un terribile rito di passaggio eliminarono gli ultimi notabili e gli ultimi esponenti di una classe alto-borghese o aristocratica. Allora sì che scoccò l’ora degli sciacalli ed ebbe luogo il definitivo tramonto degli elementi di cosmopolitismo della society palermitana (p. 232-233).

Torniamo a Enzo Sellerio, che era palermitano ma americano: «il suo americanismo – scrive Violante – era quello condiviso in Italia da una parte del mondo molto snob della sua generazione che, a metà degli anni Cinquanta, viveva tra le redazioni e le gallerie romane e aveva dimestichezza con la stampa americana, con una predilezione per il “New Yorker, e con l’arte americana […] Nel ’71 Sellerio ci appariva come un liberal anglo americano inclusi blazer, jeans e camicia a righe medio-larghe rosse». Sellerio fotografo ed editore, inventore di quella collana «La memoria», che arriverà ben a 1000 numeri, quello di Violante di Swinging Palermo è il 986. Una collana non a caso blu.

C’è una foto scattata da Sellerio che ci fa capire bene cosa Violante intende quando parla di «americani» o di swinging palermitano: è l’immagine della portaerei Independence ancorata lungo la costa di Palermo e un uomo che avanza con un asinello. Didascalia firmata Sellerio: «L’oste conduce il suo asinello a vedere la portaerei americana Independence in rada durante le elezioni del 1960». Per dire che cosa controllava quella montagna ferrosa, come evoca Sellerio: «la proposi per la copertina di un volume sui grandi fotografi, ma qualcuno non voleva offendere gli Stati Uniti, finì in copertina una mia vendemmia. Subito dopo andai io in America, invitato al primo foto festival americano di Houston. E i giornali riprodussero quella foto in prima pagina. Gli piaceva essere sfottuti in casa. Perché loro sono padroni e noi camerieri”». Loro i padroni e noi i camerieri, ritorna il tema del «Signore» e del «Servo», il gioco fra queste e le nozioni di «Desiderio» e «Riconoscimento» e il nodo della «fine della Storia». Insomma ritorna Kojéve, ritorna Queneau, ritorna Lacan che, nel Seminario XX (Ancora 1972-73), tramite il motto di spirito paragonava la furbizia «intelligente» dell’inconscio all’astuzia della ragione hegeliana. Ritorna Violante e i suoi fiori blu.

fiori blu Palermo

1 Ragione e Rivoluzione: Hegel e il sorgere della teoria sociale, il Mulino, Bologna 1966, p.123

2 G.W.F. Hegel, Lettere, Laterza, Bari 1972, p. 77

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