I costi della Battaglia

 Pensieri sparsi sul superamento degli Opg.

Nel celebre libro di Italo Calvino, Il barone rampante, Cosimo Piovasco di Rondò, per riuscire a capire il senso della rivoluzione in corso, era salito in cima a una quercia, poiché «chi vuole guardare bene la terra deve tenersi alla distanza necessaria».

Sto cercando da giorni quale sia l’albero ideale sul quale inerpicarmi per poter osservare criticamente il processo di chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Per molto tempo, non ho dubitato. Ho abbracciato ciecamente la prospettiva abolizionista, convinta sostenitrice della chiusura. Non ho cambiato posizione nel frattempo, ma credo che questa posizione ideale si scontri con alcuni fattori concreti. Mi sono sempre arrampicata sui rami del garantismo, e anche in questa occasione mi ero e mi sono affidata al diritto, ma stavolta temo che questo sguardo, se non affiancato da altre prospettive, si potrebbe rivelare miope. E questa scarsità di visione non dipende dalla chiusura, ma dal fatto che anche questa piccola rivoluzione, come tutte, non è immediata, ma è un percorso, un percorso che si scrive sui corpi delle persone che si troveranno in questi mesi a doverne traghettare il passaggio.

Avevo iniziato una lunga disamina sulle tappe che hanno portato alla stesura della legge81/2014, sul superamento degli Opg, che portava come termine ultimo il 1 aprile 2015, ma questa ricostruzione si muove nelle aule del parlamento, racconta di concertazioni politiche, e poco ci racconta dei nostri internati, destinatari finali di questo percorso, troppo complessi e variegati da poter essere racchiusi comodamente nella definizione di “persona”.

Sono stata all’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Castiglione delle Stiviere due volte negli ultimi anni. Solo attraverso queste visite ho compreso che – soprattutto nel caso della c.d. malattia mentale – le forme giuridiche sono inesatte e fallaci per descrivere la realtà, anche nelle loro modalità più illuminate (come nel caso della norma costituzionale).

Non basta la siepe del diritto positivo per racchiudere la complessa prospettiva sul dentro, sul fuori, sulla relazione tra sicurezza e malattia, sul senso di questa riforma, e sul perché dobbiamo comunque esserne felici, ma non soffermarci sul piano della battaglia ideale, facendo i conti con le ferite che questo traguardo porterà con sé.

La norma generalizza sugli internati e sul tipo di patologie, ma non ne racconta le caratteristiche, come la marginalizzazione psichiatrica abbia inciso sulla loro socialità e come i loro percorsi e le traiettorie future non potranno non tenere conto delle storie di questi anni e di quei vissuti.

Posso dire di essere stata fortunata, perché ho visto cos’è un Opg, ho visto cosa lo differenzia dal carcere, e credo di poter evidenziare alcune piccole questioni, fondamentali per non perdere di vista sia la portata epocale di questa riforma, sia il senso di questo percorso, che può essere guardato e pensato solo a partire dalle soggettività.

Quando sono stata la prima volta, il 22 ottobre 2013, mi aveva impressionato come le persone incontrate mi apparissero indifese. La compensazione farmacologica aveva privato gli internati di pulsioni, e li aveva resi fragili, dotati di una fragilità amplificata che differiva sensibilmente da quella dei detenuti, che soffrono di una debolezza imposta dalla fatica dello stare in una situazione di privazione della libertà.

Nell’Opg lo spazio dello stare è lo spazio dello stare in pace e del poter stare in pace. Scrivevo quella sera:

Li vedi uscire alla spicciolata dalla palestra, dopo la premiazione della gara di pallavolo, con piccoli cartocci in mano: hanno preso le patatine e i biscotti dal buffet, per mangiarne di più, più in fretta, come i bambini. L’aria da festa delle medie è rafforzata dalla bottiglia rossa di spuma, dalle sedie perimetrali ai bordi della stanza tra una macchina per pesi e l’altra. Alcuni passeggiano verso la piscina, altri rientrano al bar, per un caffè pomeridiano. Altri ancora si siedono in giardino, o ritornano in camera a riposare. P. invece mi presenta Sharon, la sua gatta. Siamo al reparto “Arcobaleno”, l’unico reparto femminile degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari italiani. M. ci guarda, sorridente. «Come ti chiami?» mi chiede. «Valeria» rispondo. «Valeria Marini!» esclama con una risata. Annuisco, e mi fermo a parlare con un altro ragazzo che vive all’Opg da quando è diventato maggiorenne. Sembrano bambini cresciuti in tute larghe di cotone, dal passo incerto e dall’incedere traballante. Sono le internate e gli internati dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Castiglione delle Stiviere.

So bene che non si può generalizzare, che Castiglione, con i metri di parco in località Ghisiola, le piscine, l’arte-terapia, il teatro e quella libertà controllata negli spazi della struttura ha sempre rappresentato la frattura, quell’afflato sperimentale di un contesto che non ha mai sperimentato nulla, se non le forme di controllo.

Quel che è rimasto dei manicomi criminali, dopo le riforme del 1975 e del 1978, dopo la battaglia di Basaglia sulla riforma della psichiatria, è stato racchiuso tra le mura di Aversa, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia, Napoli, Barcellona Pozzo di Gotto e Castiglione delle Stiviere.

Quest’ultimo, il più moderno, è l’unico in cui gli infermieri e la dimensione della cura la fanno da padrone e rappresenta il punto di passaggio di quel superamento tanto evocato a partire dai lavori della commissione Marino, sfociati nella legge 81/2014 ma anche il difficilissimo banco di prova di questa rivoluzione culturale. La riforma è stata costruita sull’idea di un trattamento non affidato ai poliziotti, e di uno slittamento dell’attenzione dalla malattia al soggetto, figura titolare di diritti e richiedente cure.

La riforma, oltre ad avere avuto come primo effetto la fissazione di un tetto per le proroghe delle misure di sicurezza, interrompendo la reclusione vitalizia per la malattia psichica, ha previsto, inoltre, la trasformazione degli Opg in Rems, privilegiando la cura e il reinserimento sul territorio rispetto alla pericolosità.

Sono tornata il 30 marzo con l’associazione Antigone, per vedere a che punto fosse il superamento.

Era una giornata di sole, e le presenze dal 2013 sono scese da 280 a 225. Il lunedì, le parrucchiere a riposo, vengono a fare i capelli alle internate, che attendono i minuti della tinta al sole del giardino.

C’è sempre P., c’è la gatta Sharon, c’è una signora che assomiglia a Loredana Berté bionda che racconta di come sia trattata bene, anche se fallisce sempre la ricerca di un urologo. Si scaricano le provviste per la dispensa, si puliscono le stanze e i vetri. Sono le cosiddette attività “ergoterapiche” tese al reinserimento degli internati e delle internate nel tessuto sociale.

Chiediamo delle contenzioni. Ci raccontano che sono veramente un’extrema ratio, tuttavia c’è un caso per il quale «l’unico rimedio possibile per proteggere l’internata e chi le sta attorno è il controllo totale delle braccia e del corpo». E sul registro delle contenzioni, accuratamente, sono segnate le tabulazioni e gli orari in cui si alternano le fascette sulle braccia e le fascette al letto, per proteggere l’internata da “gesti autolesivi”, da circa due anni consecutivi.

Già nel 1904, a un congresso tenutosi a Genova, Ernesto Belmondo sostenne l’abolizione della contenzione meccanica nei manicomi. Il congresso concludeva perciò così :

Il Congresso […] disapprova la contenzione meccanica degli alienati, deplora che in molti Manicomi d’Italia, per necessità di ambiente o di personale di servizio, si faccia ancora uso dei mezzi di contenzione meccanica nella custodia degli alienati, e fa voti perché tutti i Soci si impegnino a provocare, con ogni loro energia, nelle Amministrazioni quei provvedimenti, che nei vari casi speciali sono necessari a toglierli; e che, col provvedere alla diminuzione dell’affollamento dei Manicomi, con l’aumento di numero dei Medici e degli Infermieri, colla elevazione intellettuale e morale di questi ultimi, con una migliore disposizione nell’articolazione dei locali, e colla istituzione delle Sezioni di sorveglianza, si attui anche in Italia, come ormai nella maggior parte delle altre Nazioni, l’abolizione dei mezzi di contenzione per gli alienati.

Centodieci anni non sono bastati per trovare un’alternativa valida alla contenzione fisica, elemento violento che ci obbliga a riflettere su come lo Stato, attraverso protocolli, vessi, di fatto, un cittadino per proteggerne il diritto all’integrità fisica. Questo caso limite rende complessi tutti gli schemi abolizionisti (in cui mi riconosco) e rischia di indebolire il faticoso cammino che ha portato ai risultati (insperati) di questi giorni di trasformazione. Non basta una persona a render complesso un meccanismo per il quale beneficeranno in molti, ma credo si debba pensare anche a lei, soprattutto a lei.

Come scriveva Basaglia

Ci sono sempre falsi profeti. Ma nel caso della psichiatria è la profezia stessa ad essere falsa, nel suo impedire, con lo schema delle definizioni e classificazioni dei comportamenti e con la violenza con cui li reprime, la comprensione della sofferenza, delle sue origini, del suo rapporto con la realtà della vita e con la possibilità di espressione che l’uomo in essa trova o non trova.

Non ci sono definizioni adatte per la storia di L., e anche se il racconto ci riempie gli occhi di commozione per la sua assoluta inumanità, è difficile pensare soluzioni pratiche alternative sull’adesso. Perché la storia della violenza subita (prima dell’internamento, e poi in questi anni di costante protezione/privazione della libertà) è la diagnosi del problema, non un sintomo.

Perché è solo risalendo a ritroso che possiamo realmente intervenire sui percorsi di superamento. Il 60 per cento degli internati in Opg o ristretti in misura di sicurezza era già in carico presso il servizio sociale al momento del compimento del fatto. Quante di queste vicende, con un potenziamento del servizio sul territorio, potrebbero essere sanate, o, meglio ancora, si sarebbero potute evitare? Quante delle persone che usciranno in questi mesi, disciplinate dall’istituzione Opg, non sono pronte per il pieno godimento della libertà? Questi sono alcuni dei costi della battaglia, che porta, al contempo, aspetti positivi, quali una risposta istituzionale più differenziata e una nuova centralità della persona.

Il 1 aprile ha rappresentato solo la prima tappa.

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