Cosa vuol dire essere ammalati? Come ci si sente quando non ci si può affidare al proprio corpo? Come appare il mondo di fuori dall’interno di un ospedale? Come sopravvivere a interminabili ore di silenzio e immobilità? Un progetto fotografico di Elena Veronese.
Il dolore è cominciato così, all’improvviso. Tornava in maniera ciclica, sempre molto forte, tanto da bloccarmi per giorni interi. Quando, nell’estate del 2013, ho capito che non sarebbe passato con le solite medicine, ho deciso di andare in ospedale. I medici hanno ritenuto opportuno ricoverarmi e tentare una puntura peridurale, in modo che potessi muovermi di nuovo.
Il tempo trascorso nel reparto di ortopedia dell’ospedale Vivantes di Berlino mi ha costretto, ma anche dato l’opportunità, di fermarmi e di riflettere sulla mia vita e su ciò che mi stava succedendo. Era un periodo in cui non riuscivo a trovare un percorso lavorativo soddisfacente; mi sentivo frustrata dal vivere in una città straniera che avrei voluto godermi appieno ma in cui non riuscivo ad inserirmi; ero bloccata, in tutti i sensi.
I lunghi giorni trascorsi in ospedale, le interminabili ore di silenzio, i dolori che mi tenevano attaccata al letto, l’attesa dell’intervento, non hanno fatto che acuire questo sentimento di immobilità. Nella mia fragilità, pensavo che non avrei più potuto avere una vita “normale”, visto che mi era impossibile stare per molto tempo in piedi o seduta e, seppur non sempre presenti, i dolori tornavano con una certa frequenza costringendomi a mettere in pausa le attività quotidiane. Inoltre, in quelle stanze asettiche e poco accoglienti, mi sembrava di non ricevere le cure adeguate e di non riuscire a comunicare in maniera convincente il mio malessere.
Mi ritrovavo in una condizione stagnante di solitudine e incomunicabilità.
Questi sentimenti mi hanno resa più sensibile alle cose che facevano parte della mia routine di vita da prigioniera. Gli oggetti che mi accompagnavano diventavano come degli esseri animati, gli spazi sembravano trasformarsi in luoghi tanto più umani quanto più io li abitavo.
Documentare quella realtà attraverso degli scatti fotografici è stata una maniera per conoscere e tracciare una mia presenza nell’immutabilità di ciò che mi circondava. Attraverso la fotografia, gli oggetti sono diventati testimoni del mio essere lì, il loro cambio di status in soggetti attivi e partecipi mi ha fatto sentire meno sola. Non solo, sono stati per me la dimostrazione certa di una presenza umana precedente a me, di altre persone che avevano vissuto o usato quei luoghi, di altre storie di sofferenza di cui io condividevo il dolore, e ciò mi permetteva di dare un senso al mio proprio passaggio.
Nel momento in cui la mia identità si era fatta fragile, le immagini mi hanno permesso di conoscere e possedere le cose attorno a me, cosa che ha significato reclamare la mia esistenza di corpo fisico all’interno di una comunità di persone, a volte troppo impegnate per notare il dolore e l’assenza.
La fotografia è stata una documentazione del mio stato e dell’intervento di altri, una testimonianza del percorso di transizione che fa delle relazioni tra gli esseri umani la chiave per dimenticare la solitudine dell’esistenza, soprattutto nella condizione del dolore. Questa transizione ci permette di trasformare il nostro essere persone isolate in soggetti facenti parte di un tutto.
La fotografia, quindi, come una valvola di sfogo per rivendicare l’esigenza di essere e di esprimersi, di muoversi ed evolversi, di connessioni e relazioni, di inclusione e accettazione, tutte cose che ridanno al nostro corpo ridotto ad una macchina mal funzionante il valore di essere umano.
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