Giochi seri: Harun Farocki e l’uso bellico della realtà virtuale

Tra le nuove forme di narrazione la realtà virtuale prende sicuramente un posto importante, per il fatto di comportare un altissimo grado di immedesimazione e immersione da parte dello spettatore/giocatore.

Si intende qui di seguito analizzare un video del regista tedesco Harun Farocki su un programma di realtà virtuale usato dall’esercito americano, confrontandolo brevemente con un video di reclutamento dello Stato Islamico e poi soffermarsi sul possibile uso rielaborativo del programma americano, basato su un interessante intreccio di racconto e realtà virtuale.

Serious Games di Harun Farocki

Il video di Farocki è intitolato Serious Games I-IV, espressione usata in inglese per riferirsi a dei giochi digitali pensati per essere formativi, dove la funzione ludica è accompagnata da quella di apprendimento.

Il filmato, pensato per essere proiettato in un’installazione su una serie di pannelli distribuiti nello spazio, è costituito di quattro parti. Nella prima dei soldati utilizzano il programma Virtual Iraq come addestramento prima della missione. La seconda mostra un’esercitazione avvenuta in California, in un villaggio ricostruito con dei container nel deserto, che sembra essere modellata sulle simulazioni della realtà virtuale. La terza e la quarta parte mostrano come il programma sia usato per permettere ai soldati tornati dalla guerra di rielaborare i traumi subiti.

Farocki, come spesso nei suoi ultimi film (cfr. Nicht ohne Risiko, 2004), si limita a presentare il materiale montato senza commenti, nel tentativo di mostrare che ciò che a prima vista appare trasparente è, in realtà, frutto di mediazioni complesse dove emergono intenzioni spesso diverse.

Virtual Iraq

Il programma Virtual Iraq funziona esattamente come un videogame, con la differenza che i comandi sono gli stessi che saranno effettivamente usati in guerra.

Nel video si vedono alcuni giovani soldati che usano il simulatore, guidando dei carri armati per una zona deserta, finché non cadono in un’imboscata: l’avatar di uno dei giocatori muore. La sua espressione è tra il sorriso di chi è stato beffato e l’irritazione di chi ha perso una partita, senza mostrare un’effettiva preoccupazione per la propria vita. La dimensione ludica non è annullata da quella formativa, ma è ancora assolutamente centrale. Questo per due ragioni: da un lato in questo modo l’apprendimento è più intuitivo e quindi più profondo ed efficace, perché permette di automatizzare certi gesti e memorizzare tecniche e comandi. Dall’altro lato i ragazzi assimilano l’atteggiamento ludico fino a riprodurlo in guerra, così da evitare di doverla prendere sul serio e poter considerare la morte propria e altrui come un semplice game over.

The Jihad Simulator

Una simile fusione tra piano del gioco e piano della realtà avviene anche rispetto a un altro simulatore: the Jihad simulator. Nel settembre del 2014 dei militanti dello Stato Islamico hanno rilasciato su YouTube alcuni video di reclutamento che si presentano come trailer di un simulatore di Jihad che dovrebbe uscire nell’autunno del 2015. Si tratta in realtà di immagini tratte dal gioco americano GTA 5, il gioco più venduto per PS3.

https://youtu.be/hv7GAdSKqiU

Non si capisce se gli autori dei filmati abbiano semplicemente modificato le immagini tratte dal videogioco americano, o se un programmatore abbia modificato il software stesso, ma che il gioco sia vero o no importa relativamente perché non fa perdere efficacia al video: i ragazzi a cui si rivolge il video, giovani iracheni e siriani, conoscono bene GTA 5. Quel che fa il video è semplicemente permettere il collegamento tra il piano immaginario del gioco (i criminali contro la polizia di San Andreas) e la situazione reale (i jihadisti contro gli infedeli), e in questo modo deviare tutta la carica emotiva del gioco sulla vita da guerrigliero: fate per davvero ciò che finora avete fatto solo per gioco.

Immersion

Immersion è il titolo della terza parte del video di Farocki, dove si vede come Virtual Iraq è utilizzato ai fini di una terapia immersiva per i soldati che hanno subito un trauma in guerra. Si tratta di un utilizzo sperimentale, questa versione del programma è nuova e si vedono alcune scene del programmatore che mostra ai terapisti come usarlo. Immersione è il concetto chiave tramite cui leggere la realtà virtuale ed è proprio la loro grande forza immersiva a rendere questi “giochi seri” più efficaci rispetto ad altre forme. L’interattività dei videogame e della realtà virtuale in generale non è un’interattività forte, non ha come fine quello di arricchire il programma, ma principalmente quello di ottenere un’immedesimazione più profonda. L’interazione distrae, per usare un espressione di Benjamin, dai propri pensieri e dalla realtà circostante e costringe a immergersi nella realtà virtuale.

In che modo però è possibile sfruttare queste potenzialità a fini rielaborativi? Il soggetto è costretto in questo caso a mantenere separati i due piani, della realtà e del gioco, proprio rimanendo sospeso tra i due. L’ultimo dei casi mostrati nel video di Farocki è di particolare interesse. Un paziente-soldato si immerge a pieno nella realtà virtuale, con tanto di  visore e mitra in mano, mentre gli si chiede di raccontare ad alta voce il suo ricordo alla terapeuta che ha di fronte, in prima persona e al presente.

Immediatamente il paziente tende a creare un cortocircuito, fondendo i due piani temporali, ma la terapeuta per tutta la seduta lo richiama a mantenerli separati e a proseguire con il racconto. Pur continuando a confondere i due momenti, in una prima fase tende a proiettare sul piano precedente le sue considerazioni attuali, ma più va avanti più finisce per invertire la relazione e rivivere le sensazioni corporee del momento del trauma nel momento presente.

Ciò comporta per il soldato uno sforzo e un dolore immenso, che provocano l’urto necessario a rielaborare il trauma. I continui richiami della terapeuta appaiono più violenti dei ricordi stessi. Alla fine lei gli chiede di riprendere tutto da capo, lui appare disperato, ma con un ultimo sforzo si alza in piedi e ricomincia, tenendo accanto a sé un secchio per vomitare. Dopo pochi secondi la terapeuta lo interrompe: va bene così. E immediatamente tutta la pesantezza degli ultimi dieci minuti (ma chissà, forse degli ultimi mesi) svanisce e il soldato, mentre si toglie il visore, sorride con tranquillità e dice scherzando: “some of that nausea was real”.

La separazione tra i due piani, ottenuta tramite questo momento d’immersione, permette l’operazione opposta a quella dell’addestramento: non solo distinguere la morte vera da quella virtuale, ma anche distinguere il piano del passato (il trauma rimosso che continua a tornare) dal piano del presente. Recuperare il senso della realtà significa innanzi tutto riattivare la propria sensibilità.

A sun with no shadow

L’ultima parte del video di Farocki è intitolata: A sun with no shadow. Una delle pochissime differenze tra il programma utilizzato per l’addestramento e quello per fini terapeutici è che nel secondo non ci sono ombre. In generale la grafica è meno curata, si tratta di un programma leggermente più semplice. Farocki, ancora una volta, non commenta esplicitamente se non con una didascalia che recita: “the system for remembering is a little cheaper than the one for training”. Ma si potrebbe immaginare che non si tratti del semplice disinteresse del governo americano a investire sulle terapie. Si potrebbe avanzare l’ipotesi che proprio per stimolare una riattivazione del lavoro dell’immaginazione, si lascino degli spazi non costruiti che possano essere reintegrati in modo diverso da come il programmatore avrebbe potuto fare. La terapeuta, nel video appena mostrato, smette di far interagire il paziente con lo spazio virtuale dal momento che quest’ultimo “trova” il corpo del commilitone e comincia a descriverlo, con lo sguardo perso che va oltre il visore.

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