Harun Farocki secondo Thomas Elsaesser

Harun Farocki (9 Gennaio 1944 – 30 Luglio 2014)

Fotogramma tratto da Inextinguishable fire (1969)
Fotogramma tratto da Inextinguishable fire (1969)

Scrivere di Harun Farocki non è qualcosa di inusuale per me. Lo faccio dal 1980. Ma farlo ora che non è più in vita è molto difficile, impensabile. Scrivere di lui è sempre stato un dialogo, alle volte un tentativo di attrarre la sua attenzione. All’inizio era anche un modo per introdurre i suoi (allora) poco conosciuti film a un pubblico anglo-americano. “Il più noto sconosciuto filmmaker della Germania” era lo slogan che avevo inventato per descriverlo, seguendo una suggestione che lui stesso aveva fatto una volta scherzosamente.

Alla fine – ci è voluto abbastanza tempo – aveva trovato utile il modo in cui scrivevo dei suoi film. Mi avrebbe proposto, quando qualcuno aveva bisogno di presentare il suo lavoro a un pubblico internazionale che, nel frattempo, si era iniziato a interessare. In anni recenti l’ho “rappresentato” a San Paolo e a Łódź, al MoMA e a New York e alla Simon Fraser University a Vancouver. Ci sono state anche innumerevoli conferenze universitarie, e apparizioni in qualità di persona in dialogo con lui ai suoi stessi eventi: al National Film Theatre di Londra, al Stedelijk Museum di Amsterdam, a Berkeley o Pittsburgh.

La prima volta l’ho incontrato mentre facevo ricerca per il mio libro sul nuovo cinema tedesco. Era costernato nell’apprendere che io fossi più interessato a Rainer Werner Fassbinder e Werner Herzog che a Jean-Marie Straub. Eravamo d’accordo su Jean-Luc Godard e Chris Marker, e sul nostro amore condiviso, scoperto per caso, dei film didattici dei nostri giorni scolastici (fatti dalla FWU, l’istituto tedesco per il film e le immagini nella ricerca e nell’insegnamento). Benché la nostra formazione fosse diversa, e benché io avessi lasciato la Germania Ovest a 19 anni, questo mostrava ancora una volta, fortemente, come una generazione fosse stata modellata dalla sua prima istruzione.

Innanzi tutto Farocki mi aveva affascinato con i suoi saggi in Filmkritik. Sono stato un abbonato della rivista fin dalla sua nascita nel 1957 e ho continuato a riceverla nel mio “esilio” inglese. Dopo l’approccio sociologico di Wilfried Berghahn, la cinefilia di Frieda Grafe e l’ascetismo di Helmut Färber, ecco una voce che afferrava il lettore fin dalla prima frase: che disegnava comparazioni audaci, dedicandosi incondizionatamente a una idea o a una causa, mentre rimaneva distaccata e auto-ironica. Mi ci è voluto un po’ per abituarmi ai film di Farocki, che mi apparivano come sottoprodotti di questo scrittore meravigliosamente dotato (e colto) che deve aver capito che il medium film offriva un pubblico totalmente differente dalla letteratura, dall’accademia o dal giornalismo per il suo talento verbale, il suo timing e il suo umorismo secco.

I suoi temi si sviluppavano enormemente nel corso degli anni mentre rimanevano costanti nel loro nucleo: modelli sociali e situazioni di prova, regole consce e inconsce dell’interazione sociale e giochi di ruolo. Sempre più chiaramente, Farocki vedeva che gli utopistici contro-modelli dell’avanguardia politica e le tecnologie di simulazione e la ricerca di mercato della società dei consumi forse equivalevano ai due lati della stessa medaglia. Era sorpreso dalla mancanza di pensiero con cui l’umanità si era resa una cavia, interiorizzando felicemente l’incessante impulso del capitalismo a estrarre utilità dalla testa e dal corpo come auto-conoscenza e auto-ottimizzazione. Il grado in cui la società civile e le scienze umane si stanno militarizzando in questo processo è stato il grande tema delle sue ultime installazioni.

La maggior parte dei necrologi l’hanno onorato come l’artista di installazioni che è stato a partire dalla metà degli anni Novanta. Tuttavia un tale giudizio rischia di ridurre i suoi lavori filmici e televisivi a mere fasi preliminari, alle volte convenientemente perdonate per essere “politicamente naïf” o “eccessivamente didattici”

Una posizione centrale nel suo lavoro è sempre stata occupata dallo sguardo come orientamento etico (Etwas wird sichtbar / Before Your Eyes – Vietnam, 1982) e dall’immagine come punto di riferimento politico (Ein Bild / An Image, 1983), mentre il suo approccio estetico si era basato dall’inizio su modelli di montaggio e interfaccia (Schnitt­stelle Interface, 1995) – separando ciò che indubitabilmente esperito come di comune appartenenza (per esempio, il lavoro come salario) e connettendo ciò che sarebbe meglio non fosse per nulla associato (per esempio, le prigioni e i centri commerciali).

Das große Verbindungsrohr (The Big Connecting Tube) era il titolo di un radiodramma che scrisse nel 1975 basato sull’analisi di Alfred Sohn-Rethel relativa alla formazione di monopoli nell’industria pesante tedesca negli anni Trenta. Questo fu anche il punto di partenza del suo primo lungometraggio, Zwischen zwei Kriegen (Between Two Wars, 1978), e il tema “Verbund” (connessione, sinergia) è presente in tutta la sua opera.

Separare e connettere alimentava inoltre un umorismo unico: la sua intelligenza era associativa piuttosto che analitica, la sua arguzia veniva da inaspettati paralleli ma la sua saggezza posava nei cambiamenti del pensiero che in maniera intermittente e sovversiva interrompevano questi collegamenti più profondi.

Anche la sua transizione da filmmaker a artista era stata un atto di separazione e collegamento. Ha distribuito un flusso lineare di film lungo i monitor delle sue installazioni, creando nuovi collegamenti, come in Deep Play (2007) e Vergleich über ein Drittes (Comparison via a Third, sempre del 2007). Applicando il principio del montaggio allo spazio, ha sfidato gli spettatori a fare esperienza di questa separazione e connessione nelle traiettorie peripatetiche o nel percorso dei loro stessi corpi. Ma il movimento dal cinema alla galleria (a prescindere dai fattori economici) è stato anche un passaggio logico, nella misura in cui il cinema ha perso il suo status come una sfera pubblica socialmente rilevante, cedendo questo ruolo al mondo dell’arte.

Farocki inoltre è rimasto coerente con se stesso in termini politici in quanto autore il cui scopo (come quello di Bertolt Brecht, incidentalmente) è sempre stato quello di usare e soddisfare i media socialmente sensibilizzati del momento, qualcosa che ristabilisce la strategica raison d’être dei suoi primi lavori televisivi.

È stato anche ineguagliabile nella sua abilità a imbrigliare il medium di “teoria” senza appropriarsi dei nomi e degli slogan che accompagnavano il suo lavoro – “lo sguardo panottico” di Michel Foucault, War and Cinema (1986) di Paul Virilio, “le società del controllo'”di Gilles Deleuze – attraverso comode citazioni. Ma il fatto che i suoi lavori si adattino anche perfettamente nel paesaggio della teoria accademica è la prova della sua attualità e della sua vicinanza a problematiche che riguardano una generazione cresciuta con Internet e che ora sta cercando un posto per se stessa in un mondo globalizzato.

Che cosa rimane del lavoro di questa vita, che comprende quasi 100 film e installazioni così come saggi, video e interviste? È ancora troppo presto per voler fare un inventario. Per ora, la sua morte ci mette di fronte al non finito come un fait accompli.

Quello che apprezzavo di più di lui come essere umano e filmmaker, e ciò che rende la sua perdita più dolorosa, era la sua abilità a esporsi in prima persona con ognuno dei suoi temi, e pertanto correre un rischio etico con ogni film. Persino quando lavorava con materiale scarso alle volte sceglieva di farlo da sé, e riusciva a rendere giustizia alla principale responsabilità del filmmaker di documentari: di né denunciare né cooptare le persone e le situazioni ritratte. Quanto seriamente prendeva questo impegno di esporsi in prima persona era già chiaro quando spegnava una sigaretta sul dorso della sua stessa mano in Nicht löschbares Feuer (Inextinguishable Fire, 1969) [per dimostrare l’effetto del Napalm sulla pelle umana]. Ed è ancora palpabile in Aufschub (Respite, 2007) quando, commentando le famose riprese del 1944 del campo di concentramento di Westerbork, si mise metaforicamente al posto di Rudolf Breslauer, l’operatore che provò a salvare dalla morte se stesso e i suoi compagni di prigionia filmando la vita nel campo della Seconda Guerra Mondiale come una tregua e una grazia.

Forse queste tregua e grazia ottenuta sono alla fine ciò per cui il cinema è nato – è una possibilità con cui Farocki ci ha lasciato.

Fotogramma tratto da Between Two Wars
Fotogramma tratto da Between Two Wars (1978)
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