Una lettura del nuovo volume del mondo di Harry Potter, «Harry Potter e la maledizione dell’erede», con tre disegni dell’autore, Alessandro Bacchetta.
Che Joanne Rowling sia una persona di sinistra, e utilizziamo questa parola nell’accezione più generale possibile, non è certo un mistero. Nel 2008 ha donato un milione di sterline al Partito Laburista, quando era guidato dall’amico Gordon Brown. La sua pagina Twitter pullula di battute taglienti nei confronti di lettori e colleghi che esternano opinioni che lei ritiene razziste. Ha addirittura chiamato la sua primogenita in onore della sua eroina, Jessica Mitford: una giornalista (tra le altre cose) di estrazione aristocratica che fin da giovane, dopo un percorso di studio del tutto personale, fu sedotta dall’ideologia comunista, tanto da essere ribattezzata la “pecora rossa” della famiglia.
Tuttavia non è certo per questo che, stando a un recente studio statunitense, i lettori di Harry Potter sarebbero meno propensi della media a votare per Donald Trump. Anzi, le esternazioni pubbliche e dirette della Rowling – che ha anche paragonato il politico repubblicano a Lord Voldemort, la nemesi fascistoide di Harry Potter – hanno più che altro creato scompiglio tra i fan della serie legati ad aree politiche destrorse e/o conservatrici. Eppure i numeri comunicati dal saggio non sono trascurabili: un singolo romanzo abbasserebbe dal due al tre percento la possibilità di condividere le opinioni di Trump. Questo significa che, leggendo tutti e sette i volumi della saga, si arriverebbe a un tasso di avversione stimabile intorno al venti percento. Harry Potter in effetti trasmette molti ideali cari alla sinistra, ma, a differenza di un tweet, li inietta nei lettori attraverso le vicende dei protagonisti, senza esporli direttamente (di solito, almeno). Si va dai temi più scottanti come l’eutanasia, che non viene mai citato direttamente, ma che è implicato in uno dei colpi di scena principali che propone la trama: Albus Silente, figura di riferimento di Harry Potter, ormai destinato a morte certa (a causa di una malattia/maledizione incurabile) chiede, per ragioni inerenti all’intreccio che qui poco ci interessano, di essere ucciso da Severus Piton, un mago che, fino alla fine, non è evidente se sia una spia o un doppiogiochista. La frase con cui tenta di convincerlo è questa: «Tu solo sai se evitare a un vecchio sofferenza e umiliazione sarà un danno per la tua anima. Ti chiedo questo grandissimo favore, Severus, perché la mia morte si avvicina, quanto è certo che i Cannoni di Chudley quest’anno finiranno ultimi in classifica. Ti dirò che preferisco una dipartita rapida e indolore […]». Insomma, una tematica molto complessa in cui non conta solo l’atto, che già potrebbe essere oggetto di discussioni infuocate, ma che coinvolge anche la coscienza “dell’assassino” che, consapevole di alleviare il dolore della vittima, compie un atto di coraggio e non di violenza (questo attenendoci alla morale proposta dalla serie, chiaramente).
In generale ogni forza, tema o oggetto magico trattato dalla saga non è di per sé buono o malvagio: dipende dall’uso che se ne fa. L’amore stesso, proposto come forza più potente tra tutte, se interpretato male – seducenti filtri magici, ossessione – nel libro conduce a conseguenze nefaste. Cosa più importante, in modo velato e stratificato, viene trattata e condannata (ancora: negli eventi più che con le parole dei personaggi) qualsiasi intolleranza nei confronti delle minoranze, pur senza mai sminuire né negare le differenze culturali ed etniche dei protagonisti. Dei valori che non vengono mai sbandierati e proliferano nel sottotesto, motivo per cui le cellule anti-Trump (sempre osservando i dati del saggio) non sarebbero emerse dopo la semplice visione dei film tratti dalla serie che invece appiattiscono le sfumature. Harry Potter quindi, oltre ad aver venduto molto, ha anche generato un profondo impatto culturale – soprattutto su chi è cresciuto leggendolo. Anche per questo c’era grande curiosità attorno al “nuovo episodio”, sempre che così si possa definire, in uscita quest’anno.
Per chi non la conoscesse, la serie potrebbe essere etichettata come un romanzo di formazione per l’infanzia di ambientazione fantasy (principalmente nella scuola di magia di Hogwarts), che si articola in sette volumi strettamente legati l’uno all’altro. Harry Potter e la maledizione dell’erede, pubblicato in Italia in luglio 2016 da Salani nella traduzione di Luigi Spagnol (che di Salani è presidente), è stato – prevedibilmente – un grande successo commerciale. A pochi giorni dalla pubblicazione aveva già venduto due milioni di copie. Non si tratta tuttavia dell’ottavo romanzo della saga, e il fatto che vada specificato è già emblematico della situazione: è, molto semplicemente, la sceneggiatura di uno spettacolo teatrale. E va sottolineato perché è stato presentato al mondo come «l’ottava storia» e il nome di J.K. Rowling, pur non avendo scritto alcuna riga, è stato messo in evidenza in copertina.
La scrittrice britannica è sempre stata molto protettiva nei confronti della sua creatura, a ragione e per fortuna, e non ha mai lasciato che il successo di Harry Potter modificasse i piani originari nei confronti dell’opera; la pochezza dei film – e di tutto quello che ne è conseguito – non ha mai sporcato in alcun modo i romanzi, o influenzato la loro stesura, nonostante la lavorazione parzialmente simultanea. Per questo motivo quel nome in copertina ha subito destato qualche speranza, come se un semplice avvallo potesse rivelarsi una garanzia di qualità. Così non è stato. E, quel che è peggio, Harry Potter e la maledizione dell’erede è un lavoro sostanzialmente non inquadrabile, se non nella sfera del caos.
Non è chiaro a che pubblico si rivolga, non sono chiari i suoi obiettivi estetici, è ambiguo nelle intenzioni e nella scrittura. È lampante la volontà di non scontentare nessuno, e per nessuno intendiamo chi la saga non l’ha mai letta, chi l’ha seguita solamente attraverso i film, chi l’ha divorata coi romanzi e chi l’ha analizzata; un obiettivo sostanzialmente impossibile, e infatti, più che accontentare tutti, in questo modo non si è reso giustizia a nessuno. Chi ama davvero la serie troverà delle debolezze strutturali di enorme entità, nella trama e nella complessità dei personaggi che, pur rimanendo fedeli agli eventi dei romanzi, somigliano ben più alle stilizzazioni superficiali dei film (vedasi Ron Weasley, spalla di Harry Potter, nei romanzi un personaggio simpatico ma anche sfaccettato, rancoroso e sfiduciato – ma pur sempre leale – restituito nei film come una macchina spara-freddure e poco altro, esattamente come in Harry Potter e la maledizione dell’erede). I fan dei lungometraggi, il pubblico che apprezzerà maggiormente questa creazione, avranno dei problemi a digerire dettagli noti solo a chi ha letto i libri e, questo un difetto comune a chiunque abbia approcciato in un qualsiasi modo la serie, noteranno una reiterazione di cliché della saga. Dei cliché messi proprio per dare una “panoramica generale” di cos’è Harry Potter a chi non l’ha mai conosciuto: situazioni tipiche riciclate, battute classiche leggermente variate e via dicendo. I neofiti dal canto loro avranno difficoltà enormi a seguire la storia e comprendere i meccanismi basilari che regolano il mondo della magia, perché l’opera dà per scontato che già si conoscano determinate informazioni ed eventi, che qui non solo non vengono spiegati, ma compongono le fondamenta su cui poi si sviluppa e annoda la trama.
Lo scrittore di Harry Potter e la maledizione dell’erede è Jack Thorne, un autore inglese che in precedenza, oltre che nel mondo del teatro, ha lavorato a sceneggiature cinematografiche, a romanzi da trasmettere per via radiofonica (tra cui l’adattamento di Notre-Dame de Paris) e ha contribuito alla stesura di alcune serie televisive, come The Fades e This is England ’88, con cui ha vinto due BAFTA Award. Attualmente è occupato nell’adattamento televisivo, finanziato dalla BBC, di Queste oscure materie di Philip Pullman. In Harry Potter e la maledizione dell’erede la qualità della scrittura di Thorne, sempre in bilico tra la ricerca di una voce propria e la volontà di non distaccarsi troppo da quella della Rowling (mimesi elogiata da vari critici, tra cui Kelly Link del «New York Times»), ha spesso delle cadute violente e raramente riesce a risultare unica o memorabile. Del resto i dialoghi di Harry Potter, più che eccellenti in sé, riuscivano a sublimarsi grazie alla complessità contestuale, sempre presente e percepibile, che attraverso la macro-struttura era in grado di donare rilevanza semantica al semplice posizionamento di una virgola.
La trama è del tutto incompatibile con quella del romanzo, intenso come summa organica di sette libri; anche per questo la dicitura “ottava storia” risulta piuttosto truffaldina. La solidità architettonica dell’intreccio di Harry Potter qui viene presa, divelta e alterata, ed è forse il principale motivo per cui La maledizione dell’erede va considerato cosa a sé stante, anche qualora si fosse rivelato una creazione eccezionale (e non lo è). Altra caratteristica prevedibile e scontata della scrittura di Thorne è la debolezza immaginifica: ogni romanzo di Harry Potter – con più o meno intensità – ha ampliato il mondo magico con nuove ambientazioni, oggetti o incantesimi dalle varie ricadute umane e narrative, il tutto senza perdere in coerenza e senza tradire le “regole” precedentemente esposte. Qui, come già detto prima, e salvo rare eccezioni, c’è soprattutto una fastidiosa reiterazione di cliché passati, noti e stranoti e soprattutto totalmente consumati dalla Rowling in ottica letteraria.
Qualcosa di positivo c’è, ed è probabilmente l’elemento più importante, quello che salva l’opera dalla mediocrità. Superate le ambiguità sui destinatari della narrazione e sorvolate le incongruenze narrative in ottica “ottava storia”, il rapporto padre-figlio, tema portante del libro, è ben sviluppato. È presentato in varie forme e attraverso diversi personaggi: amore, ostilità e incomunicabilità generazionale sono argomenti che vengono trattati in modo brillante e senza eccessiva pedanteria o didascalismo, e non è una dote di poco valore. È l’unica caratteristica a conferire una discreta dose di dignità letteraria a Harry Potter e la maledizione dell’erede, che di fatto è uno spettacolo, e come tale va preso: un compendio, una sintesi confusa di quello che Harry Potter è stato in tutte le sue forme, quelle più e meno nobili. Se tra un secolo – com’è probabile – si leggerà ancora questo libro, se il maghetto andrà a far compagnia a Peter Pan, Pinocchio e gli altri, la sua storia terminerà sempre ai Doni della Morte. Il sottotitolo La maledizione dell’erede, a lettura ultimata, assume un’indubbia, indesiderata valenza metaletteraria.
