Giocare alla guerra

Comincia domani, mercoledì 28 Gennaio, il ciclo “Immagini di guerra – cinema, videogioco e conflitto”. Tre conferenze su cinema, guerra e videogiochi per raccontare il rapporto tra conflitto, visione e simulazione. 

Nelle scorse settimane non era difficile accendere la televisione e ritrovarsi a guardare una pubblicità che veniva trasmessa molte volte nell’arco di tutto il giorno. Si trattava del trailer di Call of Duty: Advanced Warfare, l’ultimo capitolo di una delle serie di videogiochi sparatutto in prima persona di maggior successo della storia. Guardando questo video si possono notare diversi elementi interessanti: la guerra viene presentata come un momento ludico in cui gli strumenti a disposizione (le armi, i mezzi di trasporto e l’equipaggiamento) sono dispositivi tesi a intensificare il coinvolgimento e le possibilità di influenza del giocatore sull’ambiente di gioco.

Activision, l’azienda di sviluppo di questa serie di videogiochi, è una tra quelle che lavorano maggiormente con i veterani di guerra americani, soprattutto quelli che hanno prestato servizio in Iraq. Ha sviluppato un programma chiamato Call of Duty Endowment per assumere tutti i soldati che hanno calcato realmente i campi di battaglia, conosciuto l’esperienza della guerra e accumulato esperienze utili per sviluppo di videogiochi di guerra realistici. Questo è solo uno dei tanti casi in cui l’industria dei videogiochi dialoga con l’esercito statunitense, una tradizione nata contemporaneamente allo sviluppo dei primi giochi elettronici alla fine degli anni Sessanta.

Le origini di questo rapporto nascono dal ruolo ricoperto dalle forze armate americane, da sempre promotrici delle ricerche su nuove tecnologie da implementare in qualche modo nelle propria attività. Come ha scritto il giornalista Ed Halter in From Sun Tzu to Xbox (2006), «le tecnologie che hanno dato forma alla nostra cultura sono sempre state sviluppate per la guerra». Per fare un esempio, la combinazione degli avanzamenti tecnologici promossi dall’esercito, delle strategie militari e delle necessità tattiche durante la seconda guerra mondiale hanno portato direttamente all’invenzione del computer: se fino all’epoca i dati balistici erano calcolati a mano, in quel conflitto gli sviluppi tecnologici dei sistemi di  combattimento aereo richiedevano un calcolo molto più complicato. Fu così che l’esercito promosse la creazione dell’Electronic Numerical Integrator and Computer (ENIAC), uno dei primissimi computer digitali il cui primo compito fu quello di gestire i calcoli necessari per pianificare la detonazione della bomba a idrogeno.

L’interesse dei militari per i videogiochi commerciali popolari iniziò nel 1980, quando Atari rilasciò Battlezone, che permetteva al giocatore di muoversi in un ambiente virtuale a tre dimensioni con una visuale in prima persona: l’esercito chiese all’azienda di aiutarlo a realizzare una versione modificata del gioco per addestrare le reclute. Come osservava il Generale Donn Starry in una conferenza del 1981, «i soldati di oggi hanno imparato a imparare in un mondo nuovo, un mondo con televisioni, giochi elettronici, computer e tanti altri dispositivi digitali». Perché, quindi, non sfruttare queste nuove possibilità?

La successiva collaborazione importante tra l’esercito e l’industria videoludica ebbe luogo nel 1993: la guerra fredda era ormai finita e i fondi per l’esercito americano erano stati conseguentemente ridotti. La necessità di trovare espedienti poco costosi a questioni come l’addestramento e la preparazione dei soldati era al centro delle preoccupazioni delle forze militari dell’epoca. La simulazione virtuale delle battaglie parve essere una buona soluzione a questo problema: le esercitazioni potevano avere luogo in ambienti virtuali sostanzialmente gratuiti che non richiedevano manutenzioni e mesi di preparazione, evitando inoltre di mettere in pericolo gli stessi soldati che vi partecipavano. Fu così che l’esercito iniziò a cercare videogiochi commerciali adatti per questi scopi. In quei stessi mesi venne rilasciato Doom, uno sparatutto in prima persona fondamentale per la definizione dei videogiochi moderni, sviluppato dall’azienda Id Software. Il gioco era stato pubblicato in modo da poter essere modificato da qualunque programmatore e quando l’esercito se ne accorse capì di avere tra le mani il gioco giusto. Venne sviluppato Marine Doom, una versione modificata che insegnava ai marines non solo a mirare e sparare ai nemici, ma anche e soprattutto a lavorare assieme come una squadra.

A partire dalla metà degli anni Novanta, dunque, l’esercito americano cominciò a collaborare attivamente con aziende private che sviluppavano videogiochi di guerra. Questo rapporto trovava le fondamenta nelle necessità delle due parti: l’esercito aveva sempre più bisogno di strumenti, tecnologie e simulatori virtuali che fossero al passo coi tempi, mentre le aziende necessitavano di dati e informazioni di prima mano sui campi di battaglia.

A partire dal 2003, dopo uno studio interno promosso dall’esercito, i militari si resero conto che in una situazione come quella che si era determinata dopo l’11 settembre c’era la necessità di addestrare i soldati a interpretare le informazioni che riguardavano tanto le missioni di guerra quanto le mediazioni con i civili. Per fare ciò fu sviluppata DARWARS, la piattaforma virtuale su cui si sono basati gli addestramenti dell’esercito dal 2003 al 2008. Una delle simulazioni più curiose che nate a partire da questo database è Tactical Iraqi, che permette ai giocatori di interagire con civili iracheni virtuali in diversi contesti di guerra, e il cui scopo è riuscire a comunicare con loro prestando attenzione alle differenze culturali (ad esempio mostrare il pollice in su è ritenuto molto offensivo, così come parlare senza togliersi gli occhiali da sole).

Sempre negli anni successivi all’11 settembre fu pubblicato quello che a tutt’ora viene ricordato come il videogioco di maggior successo sviluppato ufficialmente dall’esercito americano, America’s Army. Rilasciato gratuitamente nel luglio del 2002, fu scaricato oltre due milioni e mezzo di volte nei due mesi successivi diventando in breve tempo un vero e proprio fenomeno fra i giocatori online. Si tratta di uno sparatutto in soggettiva online, in cui i giocatori collaborano in squadre cercando di sconfiggere il team avversario. La vera differenza tra questo gioco e i tanti altri simili sul mercato è il fatto che rende l’esperienza di essere parte dell’esercito un aspetto centrale al gameplay: prima di poter accedere alle partite online il giocatore deve seguire dei corsi virtuali per specializzarsi come cecchino, medico e così via. Tutte le informazioni sulle armi e l’equipaggio sono reali e rispecchiano in larga parte ciò che viene veramente utilizzato in campo di battaglia.

Il rapporto tra forze armate, politica e industria dei videogiochi non riguarda solo gli Stati Uniti: Hezbollah ad esempio ha sviluppato Special Forces, una serie di sparatutto in prima persona in cui i giocatori vestono i panni di combattenti che devono sconfiggere le forze di difesa israeliane; in modo simile in Siria è stato rilasciato Under Siege, un gioco in cui i palestinesi devono combattere contro l’invasione di Israele. In Iran c’è invece Special Operation 85, in cui i giocatori impersonano una coppia di scienziati nucleari che sono stati rapiti dall’esercito americano. Un caso a parte è Glorious Mission dell’esercito cinese, molto simile ad America’s Army a parte per un dettaglio sostanziale: se nel caso di America’s Army si combatte contro terroristi generici, in questo c’è un solo nemico da abbattere, ovvero l’esercito statunitense.

La struttura della maggior parte dei videogiochi di guerra fa sì che il campo di battaglia e i nemici da abbattere siano una scelta di game design che permette al giocatore di accumulare punti e procedere nella trama senza reali ripercussioni su di essa. In questo modo l’abbattimento dei nemici è un’azione anestetizzata, che col passare dei livelli e del tempo diventa sempre più difficile in termini di reazione, velocità e precisione del giocatore: insomma, sfida solo l’abilità del giocatore con il controller.

L’esercito americano sta cercando sempre più di introdurre tecnologie simili a quelle usate nelle simulazioni virtuali nelle proprie battaglie, evitando il più possibile l’utilizzo di uomini e, di conseguenza, perdite umane. C’è una tendenza verso l’appiattimento delle differenze tra la simulazione virtuale della guerra e la guerra stessa.

Il fatto che gli ultimi sviluppi in questo campo stanno portando alla creazione di una piattaforma online che permetterà la creazione di avatar personali per ognuno dei soldati impiegati dall’esercito chiarifica bene in quale modo realtà e dimensione virtuale si stanno sovrapponendo. Questi avatar accompagneranno il soldato dall’inizio del suo addestramento fino al campo di battaglia, permettendogli di vedere quanto è migliorato e in che modo le sue abilità, attraverso la simulazione, avranno un ruolo in condizioni di guerra.

Negli ultimi anni sono state create molte simulazioni virtuali per aiutare i veterani: SimCoach, un simulatore in cui personaggi virtuali “ascoltano” e danno consigli ai soldati che sono tornati a casa dalla guerra e che possono soffrire di depressione o stress, è un esempio di un nuovo fenomeno che sta prendendo sempre più piede. I videogiochi non vengono utilizzati solo per simulare situazioni di guerra ma, in qualche modo, anche per accompagnare e sostenere psicologicamente quei stessi soldati che si erano addestrati in arene di battaglia virtuali.

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