Tornano in libreria i racconti dell’editor e critica letteraria Grazia Cherchi.
Di Grazia Cherchi (1937-1995) si cita spesso l’importante attività di editor, critica letteraria e consulente editoriale, senza dimenticare il suo apporto alla fondazione dei «Quaderni Piacentini», attorno a cui è nato un nuovo interesse dopo la recente ripubblicazione da parte di minimum fax del suo Scompartimento per lettori e taciturni e l’uscita del prezioso studio di Giulia Tettamanti Tuffarsi nell’altrui personalità. Il lavoro di editor di Grazia Cherchi (Unicopli, 2016). Ciò che invece continua a mancare nei discorsi attorno alla sua figura sono le prove narrative.
Nella speranza di vedere presto ristampato il suo unico romanzo Fatiche d’amore perdute (Longanesi, 1993), possiamo consolarci con i racconti di Basta poco per sentirsi soli (Papero editore, 2018), che tornano in libreria a distanza di ventitré anni dall’ultima edizione per e/o. Sono brevi operette morali o serie di sketch dove fatti privati e quotidiani sfociano nella comicità involontaria. Al centro delle vicende e voce – quasi sempre – narrante, è una donna non più giovane, insofferente ai piagnistei, a cui non interessa l’aneddotica, estremamente puntuale ma che al mattino può «solo sbrigare faccende di ordinaria amministrazione». Una lettrice – per mestiere e per passione – e più di tutto una persona abituata ad ascoltare, in primis gli scrittori mai distratti da sé, con cui adotta lo stesso, infallibile criterio: «se cominci con le lodi, poi accettano tutto».
Muovendosi in un mondo dove «meno si ha una meta, più si ha fretta», Cherchi redige un prontuario di buona educazione ironico e bonariamente crudele – nella prefazione al volume, Benedetta Centovalli parla di «finta cattiveria» – che a ben vedere rivela un grande senso di affetto e responsabilità nei confronti delle persone a lei vicine, di cui conosce predilezioni e gusti gastronomici, sempre disposta a concedere a un amico «tutto il tempo che vuole».
Ogni racconto rappresenta il risvolto comico della disperazione di chi ha scelto di adattarsi a narcisismi e ipocondrie altrui assumendo uno «stato di quiete incline alle fantasticherie». Un pessimismo sfaccettato reso attraverso una prosa scarna, selettiva, ricca di dialoghi caustici che sottolineano l’assenza di una reale comunicazione a favore dell’indifferenza: «Già, non è il caso di preoccuparsi per me. Io ce la faccio, è notorio». Per fuggire alla solitudine, l’alter ego di Cherchi si conforta accanto agli alberi, fuma una sigaretta, «compagnia da non trascurare», mette da parte il rumore esterno per assecondare le esigenze private. «Ho notato che nei rapporti umani fa bene assestarsi ogni tanto. Ricrea distanze scomparse» scrisse Silvana Mauri (1920-2006), altra infaticabile lavoratrice editoriale, nel suo Ritratto di una scrittrice involontaria (nottetempo, 2006).
Nella seconda parte, intitolata Mezzi e luoghi pubblici, Cherchi diventa osservatrice insofferente di nuovi usi e consumi linguistici e comportamentali. Accanto a giudizi prevedibili su volgarità, televisione, mendicanti e alimentazione, però, non mancano luminose intuizioni: «Ormai sono rimasti solo gli animali ad allietare la gente. Per ora soprattutto gli anziani, ma presto capiterà anche ai giovani». Difficile darle torto. Tuttavia a convincere davvero in questi racconti è il suo sguardo più intimo, soprattutto quando regala brevi ritratti ricchi di umanità:
Nella casa di fronte una donna stava versando un risotto giallo nella scodella di un uomo seduto a tavola. Parlando e sorridendo – lui a capo chino, col cucchiaio in pugno – gli si sedette davanti. Lui mormorò qualcosa e lei si alzò a prendere la saliera. Mai che se la prendano da soli. La donna riprese a parlare con vivacità. Ebbi un moto d’amore per lei, e per tutte le donne, che si consumano nella dedizione, nell’allegria, nella dolcezza, che tengono in vita gli uomini, tutti quanti. Questa è la verità.
I piccoli equivoci – o narrazioni interrotte – di Basta poco per sentirsi soli costituiscono un’opera matura e compiuta dove a produrre storie è, ancora una volta, ciò che si considera ordinario. A tal proposito viene voglia di accostare questo libro a una godibile e riuscita raccolta di Giulio Mozzi – a sua volta editor e consulente editoriale – intitolata Sono l’ultimo a scendere (Mondadori, 2009; Laurana, 2013): un «diario pubblico» di episodi credibili che vedono protagonista un uomo costretto, suo malgrado, a gestire numerose relazioni umane. Anche qui, come spiega l’autore, a emergere non è «la varietà, ma la ripetizione, non il meraviglioso ma il banale. Perché la quotidianità è soprattutto ripetizione e banalità». Grazia Cherchi, proprio come Mozzi, non parla di avvenimenti ma li fa accadere sulla pagina fermandosi sempre un attimo prima, riportando ogni volta il lettore al presente con nuovi gesti e pensieri. La letteratura, dunque, come possibilità di fare luce sui nostri giorni – una delle tante.
Basta poco per sentirsi soli inaugura la collana Sorelle d’Italia dell’editore piacentino Papero, dedicata alle scrittrici italiane del Novecento da tempo fuori catalogo. Un progetto di recupero voluto da Gabriele Dadati che si fonda sul crowdfounding: attraverso una sottoscrizione i lettori possono prenotare la loro copia fino a raggiungere l’importo utile per andare in stampa. Una filiera ridotta che, con coraggio e sana incoscienza, rimette al centro il lettore e le sue scelte. E forse non è un caso che la portabandiera di questa iniziativa sia proprio colei che ha fatto parte di quei lettori accorti, resistenti alle mode e al cattivo gusto, lontani da «l’odierna smania che ognuno ha di dire la sua». Perché leggere, proprio come scrivere, non è mai un gesto passivo, ma un’attività in cui la vita prende forma.
Facendo sua una domanda del giurista svizzero Peter Noll, Cherchi si chiedeva: «Perché a nessuna società ferroviaria è mai venuto in mente di istituire scompartimenti per taciturni o per lettori?» Chissà cosa direbbe oggi che i treni Frecciarossa sono dotati di «Area del silenzio» e nuovi editori tornano a interloquire con i lettori? Forse ne scriverebbe o forse non direbbe nulla, limitandosi al sorriso indulgente di chi già da tempo ha compreso che, come scrisse Fitzgerald ne Il crollo, uscito nel 2010 per Adelphi, la «condizione naturale dell’adulto senziente è una condizione di infelicità circoscritta».