Tra internazionalismo e nuovo cosmopolitismo.
In una fase storica come quella presente, all’interno della quale il progetto di costruzione europea non è mai stato così tanto in discussione, vale forse la pena recuperare il contributo che Gramsci cercò di dare a una questione centrale nel pensiero marxista del novecento: quella della crisi.
A dire il vero Gramsci, proprio rispetto a questo tema, diede probabilmente uno dei contributi più originali perché cercò, all’interno della crisi della modernità in tutte le sue manifestazioni e sullo sfondo del rapporto tra crisi organica e occasionale, di analizzare il tema della contraddittorietà costitutiva della modernità europea e della esigenza di fondare una teoria generale delle crisi a partire da questa contraddittorietà.
Se il politico sardo si trovasse ad assistere, quindi, allo scenario in cui ci troviamo a operare noi, che idea si farebbe dello stato in cui si trovano le forze progressiste e il loro progetto di trasformazione dell’esistente? Come impiegherebbe i concetti tanto utili di “espansione relativa” e quella di “limite dell’espansione possibile” nel contesto di complessiva adesione agli interessi capitalistici europei della gran parte delle organizzazioni politiche di sinistra e delle forze del lavoro? Cosa penserebbe poi del progetto europeo? Lo interpreterebbe come funzionale alla capacità di ripristinare dei rapporti pre-moderni da parte della borghesia del vecchio continente? Di costituirsi in casta? Di rendere incontestabili i propri privilegi come accade nei processi di rivoluzione passiva?
Gramsci sosteneva che questi momenti storici sono caratterizzati da elementi di pianificazione che inevitabilmente costituiscono le premesse del proprio stesso superamento, ma riteneva che in questi momenti critici la classe dominante riuscisse a esercitare una forza egemonica tale da conservare il proprio ruolo e governare il cambiamento a proprio vantaggio mantenendo i propri privilegi, nonostante le profonde trasformazioni che proseguono nel tempo, ben oltre le previsioni che sarebbe legittimo fare sul loro perdurare.
Alla luce di questi spunti non potremmo ipotizzare che i tecnocrati di Bruxelles incarnino perfettamente questo profilo e rimandare alle analisi che faceva Gramsci, pur con toni non sempre condivisibili, sull’avvento del fascismo e l’affermarsi dell’americanismo, a cavallo tra gli anni Venti e Trenta del secolo scorso? E non varrebbe per Juncker, o per Draghi, sul piano europeo, oggi, quello che Gramsci pensava di Cavour, o per usare una sua celebre espressione, dell’apostolo illuminato Mazzini? Non potremmo leggere nel processo di costituzione dell’Unione Europea, come nel caso del Risorgimento italiano, un processo storico passivo all’interno del quale l’operazione di modernizzazione del nostro continente oggi, come dell’Italia alla fine della seconda metà dell’Ottocento, si interpreti come un processo funzionale a rendere ancora più salda e inattaccabile la posizione egemonica dell’aristocrazia del nord del continente e del nostro paese, a fronte di una incapacità delle forze operaie e contadine di opporre una resistenza e intervenire in questo processo, mostrando la stessa debolezza che si rivelò fatale durante l’affermazione del fascismo e dell’americanismo?
L’Unione Europea, dopo aver programmato un progressivo processo di allargamento geografico e aver pianificato una sottomissione degli interessi degli stati membri alle politiche neoliberiste, ha visto crollare i sistemi più fragili al suo interno. A questi, infatti, sono state applicate condizioni di vassallaggio politico ed economico i cui danni non sono ancora stati assorbiti dai lavoratori e le lavoratrici. Le vecchie classi dominanti, potremmo dire, si feudalizzano privilegiando rendite parassitarie e riesumando logiche castali. Come con il fordismo e il fascismo, questa Europa non rappresenta l’argine a una implosione nazionalistica che minaccia le conquiste civili e il livello di benessere raggiunto nell’arco delle Trentes glorieuses e polverizzato nei trent’anni successivi, ma un sistema enormemente capace di difendere interessi costituiti e dominanti e propenso alla «cristallizzazione del personale dirigente che esercita il potere coercitivo e che a un certo punto diventa casta». (Q 752)
All’interno di questo processo, all’interno di questa crisi, quali sono gli attori ai quali Gramsci attribuirebbe la responsabilità di raccogliere le energie e lavorare perché lo sbocco dialettico produca un progressivo avanzamento delle condizioni delle classi subalterne e inneschi un processo di tendenziale emancipazione? Si unirebbe al coro di chi ha velocemente e senza tanti dubbi liquidato come inadatte, regressive e finanche ingenue le esperienze dei movimenti indipendentisti – prima quello Basco, e più recentemente quello Catalano – che hanno, a partire da rivendicazioni territoriali, provato a contestare la natura imperialistica e autoritaria dell’Unione Europea e di uno dei suoi paesi membri, la Spagna?
A noi queste esperienze sembrano permettere una lettura: l’espressione della capacità di ampi settori popolari di uscire dall’impasse determinata dal sostanziale equilibrio di forze (sociali e politiche) e interrompere il tipo di situazione che Gramsci definisce “inoperosa”.
Come valuterebbe ciò che è avvenuto proprio in Catalogna negli ultimi anni? Sarebbe disposto a valutare diversamente l'”arte politica” delle organizzazioni indipendentiste e la loro capacità di costruzione del presente e dell’avvenire, rispetto a quanto è avvenuto prevalentemente a sinistra?
Azzardiamo un parallelo: la mobilitazione e poi la sconfitta dell’Indipendentismo catalano sarebbero per lui esempio emblematico di una imminente sconfitta organica della modernità europea, come la Comune di Parigi e la sconfitta dei comunardi lo furono per l’essenza del dominio borghese ottocentesco, o questa sconfitta sarebbe la logica conseguenza di un errore strategico oltre che tattico delle organizzazioni indipendentiste? Imputerebbe loro di non essere state in grado di calcolare con la dovuta cautela la correlazione di forze e di aver commesso l’errore di affrontare una “guerra di movimento” senza che fossero cambiati i rapporti sociali e si fosse innescata una crisi irreversibile?
I comunardi avevano capito che la modernità borghese era entrata in una fase terminale, il cui sbocco sarebbe stato il primo conflitto mondiale, come in Catalogna la parte più avanzata del movimento indipendentista ha capito che il progetto europeo ha una matrice imperialistica della quale molti settori sociali, per primi le classi dirigenti dei partiti di sinistra, non sono affatto consapevoli: all’interno, tra i paesi che hanno pagato a caro prezzo l’introduzione dell’euro a vantaggio di quelli come la Germania che ne hanno tratto beneficio; all’esterno, in una divisione delle sfere di influenza e del lavoro su scala mondiale.
Il progetto imperialistico europeo si fonda sull’affermazione di una strategia ideologica che vede in una visione cosmopolita dei rapporti sociali uno dei suoi principali pilastri. Ma questo cosmopolitismo è ben lontano da quella tipologia di cosmopolitismo nuovo di stampo democratico che Gramsci esplorò attraverso l’introduzione della categoria di nazional-popolare, intesa come un moderno e rinnovato rapporto tra la città e la campagna, tra i ceti colti e le classi subalterne di un determinato territorio, una categoria che invece ci pare stia alla base dell’articolazione del progetto indipendentista (o almeno dell’area anticapitalista che ne è una componente importante).
Un progetto, quello di cosmopolitismo nuovo, assolutamente in linea con l’idea che tra i gruppi dirigenti e le masse andasse costruito un legame ben saldo al quale invece le organizzazioni riformiste avevano rinunciato. Per Gramsci è propria del dirigente politico comunista la capacità di con-partecipare con operai e contadini, è propria del dirigente la funzione di con-passionalità, di azione sperimentale, che lo mette al riparo dall’assunzione di posizioni dogmatiche e da quella distanza dalle masse che porta inevitabilmente al bizantinismo politico, allo scolasticismo che è la tipica inclinazione a feticizzare la “coerenza logica e formale”, quasi che «le quistioni così dette teoriche avessero un valore per se stesse, indipendentemente da ogni pratica determinata» (Q1113).
Il cosmopolitismo che in molte parti della sinistra, anche quella che si autodefinisce radicale, sentiamo difendere assomiglia molto a quella versione dell’internazionalismo che, per le ragioni poc’anzi illustrate, Gramsci tendeva a ritenere non più utile a definire l’atteggiamento, i comportamenti, la visione di insieme che i militanti comunisti dovevano sapere esprimere nei confronti dei processi di ristrutturazione del capitalismo a vocazione internazionale a lui contemporaneo. Questo internazionalismo un po’ meccanico e determinista, in parte legato alle posizioni che inizialmente gli stessi Marx ed Engels assunsero nei confronti del problema nazionale, è ancora oggi un principio al quale la sinistra si aggrappa in modo equivoco e che, nutrendosi di una visione “facilmente antiessenzialista” delle appartenenze culturali ed etniche (per riprendere una categoria di Paul Gilroy sulla quale lavora da molto tempo Miguel Mellino), confonde molto le idee piuttosto che aiutare a chiarirle.
Al sovranismo fascista dei Salvini, degli Orbán, di Le Pen, dovremmo opporre una visione cosmopolita dell’umanità. Alla crisi dell’Europa un suo rafforzamento, perché essa è espressione delle libertà, dei diritti civili, del welfare state. Conquiste pagate a caro prezzo dalle classi subalterne di questo continente, e che non pretendiamo certo di sottovalutare, ma la cui difesa non dipende dal grado di de-territorializzazione delle nostre identità, bensì forse proprio dalla capacità di riconnettere queste identità a partire dalle loro differenze.
In alcuni passaggi dei Quaderni del carcere Gramsci sostiene che
una classe di carattere internazionale in quanto guida strati sociali strettamente nazionali (intellettuali) e anzi spesso meno ancora che nazionali, particolari e municipalisti (i contadini), deve “nazionalizzarsi”, in un certo senso, e questo senso non è d’altronde molto stretto, perché prima che si formino le condizioni di una economia secondo un piano mondiale, è necessario attraversare fasi molteplici in cui le combinazioni regionali (di gruppi di nazione) possono esser varie (Q1729).
Ben inteso, non che a noi piacciano le frontiere e le divisioni, gli Stati e la logica che li sorreggono, ma come Gramsci ci interroghiamo sulle tendenze e gli sviluppi di una fase e sulla distanza che separa il presente dalla costruzione di una società senza classi. Solo nel costruire il superamento di questa divisione si supererà la forma Stato ed esso, strumento a quel punto superfluo, verrà sostituito da forme organizzative più capaci di quelle che conosciamo di garantire una definitiva emancipazione dalle gerarchie sociali che condannano i subalterni alla loro posizione di sottomessi e garantiscono ai dirigenti il privilegio del dominio.
Siamo ben lontani anche solo dalla possibilità di immaginarla, una società come questa, e ci troviamo legati mani e piedi a una fase di transizione dalle tinte contraddittorie: dunque teniamo testa a queste contraddizioni e cerchiamo di governarle, perché si riduca il più possibile la distanza da quell’orizzonte oggi drammaticamente e tragicamente utopico, invece di allontanarcene ulteriormente. Non confondiamo quindi le possibilità progressive che si aprono in un determinato scenario da quelle rivoluzioni passive che, pur modificando profondamente l’esistente, garantiscono alla classe dominante di continuare a mantenere e in alcuni casi di veder rafforzata la propria egemonia. Non ci aggrappiamo a facili schematismi affibbiando etichette che non aiutano a capire.
L’Europa contemporanea è attraversata da tensioni sociali, economiche, culturali, ma anche territoriali, e queste tensioni sono – almeno nel caso Basco e Catalano – prodotte dalla convinzione che nel colpire gli interessi della borghesia spagnola, alleata alla monarchia borbonica, si possano riscrivere i rapporti di forza nel campo delle forze progressiste e reazionarie, aprendo interessanti scenari i cui orizzonti non rimarrebbero certo circoscritti al contesto spagnolo ma avrebbero certamente delle ricadute anche a livello europeo. Facciamo attenzione prima di parlare di un fenomeno piccolo borghese, perché si potrebbe restituire la critica al mittente utilizzando nei confronti di tutti quelli che si sono scagliati contro l’indipendentismo, le parole che Gramsci diceva nel Quaderno 3 ai dirigenti socialisti: li accusava di dirigere una organizzazione paternalistica, «di piccoli borghesi [loro sì] che fanno le mosche cocchiere», la cui tendenza è quella di «trascurare e peggio disprezzare i movimenti così detti “spontanei”» spianando la strada all’avvento del fascismo.
Che si possa produrre una rottura, una breccia nell’inoperoso presente, e possa farsi strada la proposta di riorganizzazione dei rapporti sociali – certo non al di fuori di un quadro capitalistico ma per lo meno all’interno di una profonda ridefinizione degli spazi di democrazia e di utilizzo radicale, espansivo, delle istituzioni dello Stato da parte di questa composita e variegata area politica – dipenderà in buona misura dalla maggiore comprensione della posta in palio da parte di tutti quei settori sociali, gruppi, organizzazioni che si trovano fuori dalla Catalogna e anche dai Paesi Baschi.
Per il momento non sono stati in grado di fare quello sforzo d’interpretazione, di rielaborazione di categorie e analisi che proprio Gramsci, adottando il materialismo dialettico e la filosofia della praxis come metodo di indagine della realtà e non come feticcio, ci ha indicato come l’unico modo di essere attori consapevoli del presente e non spettatori passivi.
Non ci arrendiamo all’idea che in futuro il quadro possa cambiare.