Il 24 marzo di quarant’anni fa le forze armate argentine prendevano il potere, ponendo fine all’ultimo governo costituzionale dell’America del sud.
Nonostante questo la violenza di Stato e quella clandestina erano già cominciate sotto il governo di Isabel Perón (1974-76). L’iniziativa militare si inseriva in una lunga “tradizione” reattiva dei militari che dagli anni Cinquanta, coordinati e addestrati dagli Stati Uniti, avevano cominciato a elaborare schemi di azione controrivoluzionaria.
Dopo la rivoluzione cubana del 1959 la priorità dei governi statunitensi condensate nella Dottrina di sicurezza nazionale, era stata quella di evitare l’allargamento della rivoluzione ad altri paesi dell’area latinoamericana. Sono celebri, anche in Italia, le immagini del golpe cileno (1973), così come familiari ci appaiono le figure di Allende e di Pinochet, non lo sono altrettanto invece quelle del golpe argentino.
La memoria collettiva del golpe cileno si è rigenerata di anno in anno diventando, in contrapposizione alle celebrazioni statunitensi, la vera data da celebrare, il “vero” 11 settembre. Non di rado nei social, ma anche nel discorso pubblico si è assistito alla richiesta di ricordare, al posto dell’attentato delle Torri gemelle, il golpe cileno.
Il colpo di Stato argentino del 1976 si inseriva in un contesto di progressivo sfaldamento delle istituzioni dello Stato, dato che già dall’anno precedente, per far fronte ad alcuni gruppi di guerriglieri operanti nella selva di Tucumán, in questa regione dell’Argentina l’ordine pubblico e l’amministrazione provinciale erano stati affidati all’esercito. Era un piccolo golpe che successivamente si sarebbe ripetuto su scala più grande. I tre capi delle forze armate guidati per i primi anni da Jorge Rafael Videla instaurarono un governo del terrore basato sul rispetto formale delle istituzioni e sull’uso indiscriminato della violenza clandestina.
A Santiago del Cile, una volta concluso il golpe del settembre 1973, furono radunati gli esponenti politici d’opposizione nello stadio e di lì furono a poco condannati a morte. La dittatura argentina invece si caratterizzò per l’eliminazione fisica dei propri “nemici”, i movimenti guerriglieri, i sindacalisti, gli intellettuali, attraverso squadroni paramilitari che agivano nella totale impunità: non fu infatti pronunciata nemmeno una pena di morte da parte di un tribunale, civile o militare che fosse. Fu in questo frangente che la parola desaparecido (scomparso), entrò nel vocabolario giornalistico internazionale.
Prima di tutto per i vincoli fra governo italiano ed argentino. In secondo luogo per la rete di potere, nella pratica sovrapponibile alla P2, che influenzando pesantemente gruppi editoriali e giornali selezionava le notizie che arrivavano dal Sudamerica. Angelo Rizzoli, proprietario del Corriere e membro della P2, facendo filtrare il più possibile le notizie sulla situazione argentina riuscì successivamente ad acquistare il gruppo editoriale El Abril di Buenos Aires, grazie all’intermediazione di Gelli e Massera.
I partiti politici italiani poi, se nel caso degli esuli cileni si erano dimostrati solidali, coi peronisti, e con la loro “particolare” visione politica, si tennero più cauti. Fu questo il caso del Pci, e in maniera minore del Psi.
Il governo italiano dal canto suo era interessato a grossi affari commerciali coi generali ragion per cui applicò misure molto restrittive rispetto alle tante richieste di asilo politico pervenute all’Ambasciata d’Italia a Buenos Aires. Erano state diverse le corrispondenze fra l’Ambasciata e il Governo italiano in cui si affermava nettamente la necessità di non accettare esuli politici in Italia per non compromettere le relazioni fra i due paesi, oppure i colloqui Videla-Andreotti del 1978 in cui quest’ultimo «comprendeva» che il golpe era stata l’unica soluzione possibile per ristabilire l’ordine nel paese. I desaparecidos di cittadinanza italiana furono centinaia e per anni non se ne parlò.
Continuare a riflettere sulla doppia pista Roma-Buenos Aires pone domande fondamentali rispetto a come sia stato gestito il post-dittatura (nel caso italiano la “fine” del terrorismo) sia a livello politico sia sul piano del discorso pubblico.
In Argentina, nel 1984, si celebrò il primo processo alle giunte militari che culminò con la condanna dei generali. Coi governi neoliberali di Menem invece vennero promulgate ampie amnistie che misero in libertà gli autori dei delitti contro l’umanità. Nel 2003 e col conseguente arrivo dei governi «nacional y popular» dei Kirchner (prima Néstor e dopo Cristina 2003-2015) è stata avviata la fase più lunga e proficua di politiche per i diritti umani e per la memoria che a livello internazionale ha fatto scuola. Nel 2003 il principale luogo di detenzione clandestina dei dissidenti politici, la Esma (Scuola di meccanica dell’Armata), è stato consegnato ai movimenti per i diritti umani che nel decennio trascorso l’hanno trasformato nella casa dei diritti.
Non solamente a Buenos Aires ma in tutto il Paese sono stati inaugurati Espacios de la memoria, nei quali alla ricerca storica si sovrappongono riflessioni collettive sugli anni Settanta e sul terrorismo di Stato. In contemporanea, è stata portata a termine un’enorme mole di processi contro chi negli anni della dittatura si era macchiato di crimini contro l’umanità. Non solo i generali: ma anche i commissari di polizia, gli ufficiali, gli esecutori materiali. Un dato spiega più di mille parole questa circostanza: 557 condannati in via definitiva per crimini commessi durante la dittatura.
Per comprendere la fredda brutalità della repressione, dal 1998, è aperta a La Plata, la capitale della provincia di Buenos Aires, l’Archivio della Dipba, ossia di uno dei principali organi di polizia che schedò, informò ed eseguì centinaia di sequestri. Così come per gli archivi della Stasi, è oggi possibile leggere i fascicoli che per ogni “sovversivo” venivano confezionati e aggiornati con meticolosa cura. Una testimonianza in più della capacità dell’Argentina di guardare al proprio passato senza problemi, senza la paura di dover fare i conti coi responsabili.
Quest’indirizzo si è poi andato confermando con altre iniziative, come per esempio la “riparazione” dei fascicoli dei lavoratori desaparecidos durante la dittatura. La Comisión de trabajo por nuestra memoria ha negli ultimi anni “riparato” i fascicoli dei lavoratori, aggiungendo nella casella riguardante la causa del licenziamento la dicitura: «la vera causa del licenziamento/sparizione è da imputarsi all’azione dallo Stato terrorista». Una testimonianza in più delle politiche della memoria e del significato che è stato dato ai diritti umani in Argentina.
Potremmo chiederci in che modo invece in Italia è stata gestita l’eredità degli anni Settanta, del terrorismo, delle stragi di Stato. Ma la questione non attiene solamente alle scelte governative o processuali: in che modo la società ha metabolizzato, se lo ha fatto, l’eredità di quegli anni? L’impressione è che sia prevalso nella società italiana, al netto di una raffinata ed isolata riflessione storica, un assolutorio e comodo oblio. Anche nei confronti della questione dei desaparecidos l’atteggiamento italiano rispecchia a pieno l’attitudine tenuta coi “misteri” patri: negare e tenere i documenti segretati.
Verso la fine della dittatura argentina Guillermo O’Donnell aveva coniato l’assioma dello Stato «burocratico-autoritario» per definire la complicità che si sviluppò durante la dittatura fra parti sociali, gruppi di interesse, partiti politici, industriali e militari. Il paradigma era necessario per evirare una riflessione pubblica che finisse con l’addossare solo ai militari le responsabilità per i delitti commessi. Per evitare di scaricare sui “gruppetti” e sugli estremisti le colpe di un decennio, ritagliando alla zona grigia, agli inerti, agli “innocenti”, in fondo a tutti i settori della società che vi si riconoscessero, questo comodo e fittizio spazio della memoria, era stato necessario ricordare in che modo la società argentina era arrivata al genocidio.
Il poderoso report elaborato da storici, sociologi, giuristi e lavoratori della Secretaría de Derechos Humanos sulle «Responsabilità imprenditoriale nei delitti di lesa umanità: repressione dei lavoratori durante il terrorismo di Stato» (2015) ha lo scopo di sottrarre alla zona grigia gli “altri” responsabili. Il report (più di mille pagine) sarebbe servito da base per istruire una serie di processi contro i vertici delle imprese accusati di aver fatto scomparire, torturare e infine uccidere centinaia di operai. Sarebbe, perché effettivamente non sarà. Dal 10 di dicembre un improvviso cambio di governo, la fine del Kirchnerismo e il ritorno del neoliberalismo sotto le spoglie del nuovo presidente Mauricio Macri, hanno posto fine a questa fase di ricerca dei responsabili “civili” della dittatura.
A quarant’anni dal golpe val la pena interrogarsi su cosa stia accadendo nell’America latina di oggi. La fine dei processi in Argentina, la sconfitta di Evo Morales in Bolivia per il referendum che gli avrebbe consentito di essere rieletto nel 2019, i tentati colpi di Stato contro Maduro in Venezuela. Come giudicare il tentativo di rovesciare, dopo gli scandali per la corruzione, il governo della Rousseff? Queste manifestazioni sono, a mio parere, elemento sufficiente a comprendere che le destre polverizzate da anni, i gruppi d’interesse, le oligarchie urbane, si sono riorganizzate per mettere fine alla fase progressista in America latina.
Varrebbe la pena di riflettere su quanto la fine dei governi riformisti in America latina sia un classico esempio di crisi egemonica (nell’accezione elaborata da Ernesto Laclau). Cosa hanno lasciato dieci anni di governi indigenisti, nazional-popolari, sviluppisti, ecc…? Probabilmente assistiamo ad una crisi interna, dettata dall’impossibilità da parte di tali governi di proporre modelli di sviluppo e di convivenza alternativi a quell’egemonia fondata sull’individualismo che oggi reclama la guida dei paesi dell’area.
A Buenos Aires uno dei primi atti del neoeletto presidente è stato quello di far riunire il Segretario per i diritti umani coi rappresentati di una delle associazioni “per l’altra memoria”, un’“altra” che indica la memoria di chi fu vittima degli attentati di guerriglia, (soprattutto militari e poliziotti) per ricordare a tutti che i diritti umani non sono un tema di parte, che vanno depoliticizzati. Con la stessa logica nei primi tre mesi di governo sono stati licenziati in quanto politicizzati, trentamila lavoratori della pubblica amministrazione.
La fine del ciclo riformista in America latina in futuro si potrà far ricadere su una data simbolo: il 24 di marzo. Quarant’anni fa soccombeva sotto gli stivali dei generali l’ultimo governo costituzionale del Sud America, oggi, nel 2016, il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama terrà un discorso all’Esma. Due date e un destino in comune: la fine di un progetto antagonista rispetto all’egemonia statunitense e occidentale nel cono Sur.