Un Glossario del Teatro Sociale

Abbiamo chiesto agli organizzatori e ai partecipanti di “Metamorfosi” di individuare e analizzare alcuni concetti chiave per comprendere il Teatro Sociale. È nato così un Glossario del Teatro Sociale che, nel tempo, si accrescerà di nuove voci.

Attore: Colui che agisce se/come/quando ha veri/sentiti/personali motivi per farlo, ricreando una successione di segmenti temporali improvvisi e imprevisti, in virtù di una percezione estetica e omogenea.

 

 

Abilità: Attitudine alla percezione estetica e omogenea del tempo come successione di momenti improvvisi e imprevisti.

 

 

Destinatario: Il primo destinatario del teatro sociale è chi lo fa: l’attore sociale. L’unico caso in cui il teatro sembra oggi davvero necessario, riguarda proprio questa speciale forma che definiamo teatro sociale (o integrato, o inclusivo, o educativo, o della comunità, in tutte le variabili in cui è possibile declinarlo). I primi destinatari sono dunque i suoi attori, ossia le persone, a vario titolo, in difficoltà, per ragioni psico-fisiche, sociali, economiche, culturali, linguistiche. Gli spettatori divengono destinatari secondi, potrebbero persino non esserci e il teatro creerebbe comunque benessere e crescita della relazione in chi lo fa.

 

Imprevisto: circostanza, necessità che non è possibile prevedere; contrattempo, contrarietà, impedimento. Ti spiazza continuamente, ti fa vivere in emergenza. Questo porta ad uno spostamento continuo del modo di affrontare e costruire il lavoro. Il non previsto diventa parte del percorso di ricerca. Continuamente ci si adatta agli umori, alle incombenze, agli impegni del momento. Il gruppo non si sgretola, anzi si fa forte e accoglie la novità per reinventare un percorso. Reinventare. Ad esempio, la struttura dell’evento che cominci a costruire si appoggia su un canovaccio: tutto deve essere più aperto possibile anche se con regole precise.
L’improvvisazione a tema diventa lo strumento più adatto per far emergere le intuizioni che potranno evolversi in azione teatrale o perdersi per strada. Le parole cercate sono solo quelle necessarie al bisogno di dire. Così l’imprevisto non è negativo, diventa sorpresa e meraviglia. Ed è allora che lo stupore agisce da motore dell’azione. Si percorrono strade inaspettate e si scoprono nuove possibilità di azione. I corpi in movimento, le voci in azione, lo spazio perde i suoi confini certi e ci si addentra nell’ignoto. Il gioco comincia e tutti sono pronti ad abbandonare se stessi pur continuando ad ancorarsi alle piccole sicurezze. Si diventa trasparenti, nel senso di lasciarsi attraversare: s’intravede un qualcosa che forse si avvia verso un’azione teatrale. E chi conduce il gioco? Rimane imbrigliato nella meraviglia e diventa una parte attiva. I confini si spostano, i limiti diventano altri, i pensieri si complicano e tutto diventa incerto. Si accendono il dubbio e la curiosità che rimettono in discussione il bagaglio di insegnamenti, i metodi di azione, le strade che portano alla creazione di un gesto artistico. Ci si avvicina alle singole umanità e si accoglie con sorpresa la ricchezza di un mondo nascosto e ricco di immaginazione.

 

Improvviso: Tutto parte dall’improvvisazione. Nel laboratorio di teatro sociale come con gli adulti amatori e con i bambini. L’ improvvisazione offre uno spazio di libertà. Ma la libertà fa anche paura, e su quello spazio si misura la capacità di seguire l’ ispirazione del momento senza preoccuparsi del giudizio esterno: affrontare i propri limiti per superarli e non tanto limiti tecnici ma di disponibilità di mettersi in gioco. Il rischio dell’autobiografismo è maggiore in un contesto di lavoro dove i partecipanti sono lì principalmente perché indirizzati da un medico, alla ricerca di qualcosa che li aiuti ad alleviare le loro sofferenze e ad affrontare i loro problemi. D’altro canto, il loro non porsi — se non in misura molto minore rispetto agli attori professionisti o meno — problemi di ordine puramente attoriale, recitativo, li rende spesso più liberi nell’improvvisazione, nella quale cercano e trovano più un piacere personale — che ovviamente può sfociare anche in un narcisismo poco utile al lavoro — che un’attenzione  all’estetica della scena. E spesso qualcosa di veramente improvviso, cioè vero, vivo, esce fuori. Non è detto che sia nel momento “migliore” dell’improvvisazione, non è detto che abbia una logica rispetto a quello che c’è stato prima. Ma spesso da questi momenti felici abbiamo tratto i migliori frammenti degli spettacoli. Lavorando con loro mi sono abituato a resistere alla tentazione di interrompere, o di far intervenire qualcuno che ancora è fuori scena per modificare il corso della scena. Insomma di fare la regia. D’altra parte, “loro” vuol dire poco, se non in riferimento alla premessa fatta sopra, cioè che sono tutti lì per motivi estranei al fare teatro di per sé. Ognuno di loro, come ogni attore, ha un suo modo di reagire alle sollecitazioni dell’improvvisazione, ha le sue personali ciambelle di salvataggio, e via via impara cosa è che può funzionare in determinate situazioni. Però, “loro” sono anche un gruppo che come ogni gruppo, pur nel suo modificarsi continuamente (gente che viene che va), assume una sua identità e si comporta in situazioni differenti con modalità più o meno simili. Ad esempio c’è una notevole differenza tra quando nel gruppo ci sono una o più personalità forti, magari accentratrici, magari anche trascinatrici oppure quando maggiore è l’ omogeneità interna.

Lavorare sull’improvvisazione vuol dire soprattutto lavorare sull’ascolto reciproco, sulla disponibilità a mettere le proprie capacità e la propria inventiva a disposizione del gruppo, e solitamente la risposta è positiva.

Pubblico/Spettatore: Coloro ai quali si offre la propria percezione estetica ed omogenea della successione dei segmenti temporali improvvisi e imprevisti. La reazione può essere altrettanto imprevista. Auspicabilmente la percezione dello spettatore entra nello stesso tempo/ ritmo di quella dell’attore.[1]

Esistono tipologie di pubblico quante sono le tipologie di teatro: tante, eterogenee, dinamiche. Il pubblico è un’entità non definita e definibile, è un’astrazione. Ma può essere anche quella speciale entità fatta di spettatori che, insieme, sono a teatro o in luoghi non canonici nei quali il teatro sociale viene proposto, consapevoli della scelta fatta, del rito da condividere, delle conseguenze che lo spettacolo potrebbe produrre, ovvero una trasformazione di stato: da spettatore isolato a pubblico politicamente attivo, cittadino della polis contemporanea.

Lo spettatore del teatro sociale può sviluppare particolari attitudini a vedere il teatro in modo nuovo, per il fatto stesso che ciò che avrà di fronte a sé è spesso una modalità diversa di pensare e fare il teatro, per la presenza di attori e non attori, di persone disabili, di tempi e ritmi dell’azione scenica spesso inediti. È lo spettatore del presente e anche del futuro, perché molto c’è ancora da fare e da vedere. Lo spettatore è anche “quell’individuo”, ovvero non è il pubblico, ma proprio quella persona, da raggiungere anche individualmente o attraverso gruppi di visione organizzati.[2]

 

Finzione/Verità Ho sempre pensato che la magia del teatro risiedesse nella capacità di far sembrare reale ciò che non lo è; di trasformare un luogo, una persona, un’immagine in qualcosa di fantastico, quindi finto, non reale, non vero, eppure perfettamente credibile. La verità in teatro corrisponde alla credibilità. Certo, lo spettatore, in quanto tale, sarà in un certo qual modo “benevolo” nei confronti dell’artista, ovvero si appresterà a credere ciò cui assisterà sulla base del “contratto” che lo rende testimone della finzione teatrale. Tuttavia, esiste un punto — quel punto che fa accadere la magia — in cui la sua benevolenza non sarà necessaria, perché l’attore (ovviamente coadiuvato dal contesto: la scena, la musica, la regia, insomma tutti quegli elementi che concorrono a creare l’avvenimento) incarna una verità incontrovertibile, come se gli si fosse attaccata alla pelle, come se egli corrispondesse esattamente a ciò che vuole rappresentare. L’attore, nella sua recita è totalmente credibile, l’attore è vero. Questa magia è rara, ed è in grado di creare quello stupore che ogni spettatore cerca quando assiste ad uno spettacolo. Nel mio percorso di lavoro con il teatro in ambito psichiatrico ho imparato a incontrare questo stupore spesso. La postura, lo sguardo, l’espressione, il movimento, la voce delle persone con cui ho lavorato in questi ultimi anni contengono una verità e una forza scenica che non si incontrano con facilità tra gli attori professionisti. Ciò avviene, paradossalmente, perché essi portano dentro la loro finzione tutta la loro verità: anche quando gli si chiede di fingere di essere qualcun altro, quel personaggio avrà sempre qualcosa che appartiene al loro modo di essere, qualcosa di “naturale”— e non “naturalistico”—, qualcosa di immediato, improvviso, vero. Quella cosa – un gesto, un movimento repentino degli occhi, un modo di incedere – renderà quel personaggio credibile, reale e più vero del vero. Si tratta di quel caso fortunoso in cui si assiste ad una forma di bellezza priva di stereotipi e canoni, una sorta di bellezza “evidente”.

Mettere in scena questa verità significa accettare di lasciare spazio all’imprevisto: questo è il motivo per cui tutti gli spettacoli e i video realizzati negli anni nascono da un lavoro che si basa prevalentemente sull’improvvisazione. In molti dei nostri spettacoli numerose scene continuano ad essere improvvisate sulla base di un canovaccio, il che significa assistere letteralmente ad uno spettacolo diverso ogni volta che esso viene replicato.

E la sensazione che provo ogni volta è che mi venga insegnato qualcosa, qualcosa che non sapevo sull’attore, sul teatro, e in definitiva sulla vita. Difficilmente una persona che lavora in ambito teatrale può ambire a qualcosa di più di questo.

 

Limite: In un carcere la parola limite ricorre continuamente, fin dall’ingresso; ci sono limiti di spazio, di azione, di tempo, tutto è regolamentato e delimitato. Il teatro in qualche modo permette di superare questi limiti. La persona detenuta che vive l’esperienza teatrale sperimenta una sorta di evasione virtuale, per un attimo supera le mura del carcere e della sua vita per ritrovarsi a vivere una emozione spesso mai nemmeno concepita ed a confrontarsi con parti di sé raramente esplorate.

I limiti più importanti sono quelli interiori e spesso, proprio a causa delle paure che questi generano, le persone intraprendono percorsi devianti che li conducono inevitabilmente all’esperienza della detenzione. Il teatro permette un viaggio a ritroso, un mettersi a nudo, un confronto alla pari con gli altri attori che non sono più i tuoi compagni di cella ma altri attori, altri scenografi, altri tecnici. Anche le persone esterne, il regista e tutti coloro che collaborano a vario titolo, diventano parti integranti del gruppo teatrale, il limite tra chi è dentro e chi è fuori non c’è più.

Non è un caso che ormai il teatro sia presente, come attività trattamentale, in quasi tutte le carceri; se è vero che la pena deve avere la finalità della cosiddetta “rieducazione” il teatro, con il suo potere catartico, con la sua capacità di permettere alle persone di mettersi a nudo in uno spazio protetto e di dare un senso a percorsi tortuosi, rappresenta uno degli strumenti più efficaci per superare il limite dell’etichettamento, dello stigma sociale e consentire un lavoro di revisione critica della persona e dei suoi trascorsi.

 

Tempo/Ritmo: Percezione estetica e omogenea della successione dei segmenti temporali improvvisi e imprevisti.

 


Gli autori del Glossario

Le voci “Attore” e “Abilità”, sono state redatte da Annalisa Bianco, regista di Egumteatro

Ivana Conte, autrice de Il pubblico del teatro sociale (Franco Angeli, 2012), ha redatto la voce “Destinatario”.

Le voci “Imprevisto” e “Improvviso” sono a cura di Silvia Franco e Ugo Giulio Lurini, coordinatori dei progetti di teatro sociale per laLut Siena

La voce “Pubblico/Spettatore” è stata scritta da Annalisa Bianco e Ivana Conte.

Valentina Palmucci, funzionario psicopedagogico della Casa Circondariale di Sollicciano, è l’autrice della voce “Limite”.

“Finzione/Verità” è stata scritta da Marta Mantovani, responsabile dei progetti di teatro sociale per laLut Siena.


Note

[1] Questa sezione della voce è stata redatta da Annalisa Bianco.

[2] Questa sezione della voce è stata redatta da Ivana Conte.

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