Il Giubileo della misericordia in controluce: gestione della sicurezza, cura delle anime e controllo sociale nell’analisi di Paolo Vanini.
In occasione del cinquantesimo anniversario dalla fine del Concilio Vaticano II, Papa Francesco ha inaugurato il Giubileo straordinario della Misericordia. L’apertura della Porta Santa, simbolo giubilare di un percorso eccezionale verso il perdono, segna anche un momento di continuità rispetto alla chiusura del Concilio del 1965, che, secondo l’attuale Pontefice, «è stata una porta spalancata sul mondo», la testimonianza offerta dalla Chiesa della sua volontà di rispondere ai problemi posti da una società contemporanea che si era distaccata dai canoni della cristianità: non si trattava più di trincerarsi nella censura e nelle «armi della severità», ma di volgersi cristianamente al «rimedio della misericordia». Una scelta di questo tipo, che prende a proprio modello il gesto del Buon samaritano, non è una confessione di debolezza o di una marginalità non desiderata, bensì l’affermazione di un’inaspettata centralità: quella di una Chiesa che, in nome della carità e dell’amore, sa essere un punto di riferimento non solo per ogni cristiano, ma anche per ogni uomo e in ogni città, perché «dovunque c’è una persona, là la Chiesa è chiamata a raggiungerla per portare la gioia del Vangelo». Le «porte della giustizia» del Salmo 117 non devono essere aperte per condannare, ma per perdonare e, se Gesù si identificava in questa porta da attraversare (Giovanni 7, 7-9), lo faceva in quanto pastore che salva le proprie pecore, non come giudice che la manda al macello; un pastore che si esprime così: «Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro. Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e vi sarà perdonato; date e vi sarà dato […] perché con la misura con cui misurate, sarà misurato a voi in cambio» (Luca 6, 36-38).
Come ogni criterio di misura, anche la misericordia ha i suoi parametri: nel caso particolare di questo Giubileo, il livello di sicurezza. A marzo, quando Bergoglio aveva improvvisamente annunciato l’Anno Santo, sia Renzi che Alfano avevano accolto con entusiasmo la notizia, se non fosse che, dopo gli attentati di Parigi, la situazione internazionale si è drasticamente complicata. Organizzare adesso un evento così carico di significati religiosi, e per di più nella Santa Sede, sembrava ad alcuni un’opzione azzardata e alquanto costosa, per un motivo abbastanza semplice: tra frontiere chiuse, stati di emergenze ed eccezionali misure di controllo, quest’autunno è già sufficientemente complicato per impegnarsi pure nella gestione di un Sacro almanacco; senza far conto dei problemi che quotidianamente bloccano Roma, una capitale a cui basta un giorno di neve per andare in cortocircuito.
Contro tali obiezioni, però, il Vaticano ha riaffermato la necessità del Giubileo soprattutto in un momento del genere, dove la paura e la sicurezza dettano l’agenda di ogni pianificazione politica: fare di Roma il centro di un pellegrinaggio cosmopolita è la replica migliore che si possa dare a una guerra che si giustifica sotto le spoglie dell’estremismo religioso. Il Presidente del Consiglio e il Ministro dell’Interno sono stati concordi con il Papa: giubilare nonostante il terrorismo non significa soltanto difendere la religione come strumento di fratellanza universale, indipendentemente dai confini e dai dogmi delle varie culture; significa anche, e in misura ancora maggiore, ritrovare nel cristianesimo un punto di riferimento simbolico per un’Europa che, a causa dei recenti attacchi, si è scoperta incapace di ritrovarsi nei suoi valori culturali, come se la tradizione a cui apparteniamo si fosse lentamente disgregata ben prima che qualcuno si preoccupasse di mandarla in frantumi. In questo senso, l’operazione di Bergoglio è stata interpretata da molti – sia da destra che da sinistra – come un’efficace mossa strategica per rispondere a un conflitto che è tanto armato quanto culturale, e in cui ci si gioca la nostra secolare rappresentazione dell’essere i custodi dei diritti umani e delle libertà civili: «Battaglia immaginifica, non immaginaria: l’unica che un pontefice sia sacramentalmente abilitato e sacrosantamente deputato a ingaggiare, lottando a colpi simboli e liturgie contro i barbari vecchi e nuovi, primitivi o tecnologici».
Rispetto a quanto detto, si comprende che il Giubileo è l’ennesima tappa di un pontificato che è disposto a secolarizzare i propri riti per poter meglio sacralizzare gli eventi storici di cui è testimone, in una cristiana commistione di celeste e profano, di mediatico e liturgico, di politico e provvidenziale. Al riguardo, l’operato di Francesco si è distinto da quello dei suoi predecessori per la sua capacità di proporsi come il «Papa di tutti», nell’ottica pedagogica di una «conversione spirituale» che non si rivolge esclusivamente ai cristiani, ma che propone un «cambio di paradigma» necessario alla comunità umana nelle sue diverse latitudini. Ciò che è andato in onda negli ultimi giorni ne è la controprova televisiva: l’anticipazione del Giubileo nel cuore della Repubblica Centrafricana, quando si è varcata la soglia della poverissima chiesa di Bangui, a cui poi è seguita l’entrata a San Pietro, sotto lo sguardo di migliaia di fedeli e di centinaia di poliziotti. Nella totale discrepanza dei due contesti, la novella da predicare è la medesima: poiché il mondo sta entrando in guerra «un pezzo alla volta», il Papa moltiplicherà le vie d’accesso al perdono e aprirà una porta santa in ogni diocesi e città, dai sobborghi del globo alle cattedrali delle più imponenti nazioni, per immaginare un mondo che si incammina con straordinario coraggio per i sentieri della misericordia.
La cadenza populista del discorso, che fa del Dio d’Amore un coagulo onnisciente di gratuita «tenerezza», sembra riscattare il presente Giubileo dalla sua discutibile genealogia di indulgenze: Bergoglio non propone un’assoluzione amministrata dalla gerarchia ecclesiastica, ma un perdono che chiunque sia disposto a confessarsi può trovare anche all’ingresso di una cella, negli anfratti di quella quotidiana sofferenza che solo gli ultimi e i deboli conoscono. Ragion per cui questo Giubileo appartiene più alla proverbiale bontà del popolo che alla teologica misericordia di Cristo, perché si appella alla «superiore saggezza» che alita nelle zone più infime delle periferie e che difficilmente si riscontrerebbe nell’opulenta erudizione di un ecclesiastico. Eppure, in quanto capo della Chiesa che si avvale della cooperazione del potere istituzionale, all’invito del Papa sembra difettare qualche indicazione, tra cui quelle relative alle “garanzie” della misericordia.
Nelle parole del pontefice, la misericordia viene tratteggiata come un sentimento universale e un’inclinazione spontanea alla cura del prossimo, tanto che, se vogliamo ottenere la grazia, le nostre preghiere e le nostre azioni di carità non possono non essere genuine, perché laddove viene a mancare la spontaneità cade pure la possibilità del perdono. Nello stesso istante è però difficile ignorare che, per l’organizzazione di questo evento giubilare, sono stati molti i provvedimenti non caritatevoli che il Governo ha ritenuto necessari per assicurare l’ordine, compiacendo a una retorica dello stato di emergenza che in tutti gli stati europei è percepita come l’unica reazione adeguata alla minaccia terroristica: bloccare le frontiere, aumentare i controlli e schedare le ombre, in questo ecumenico rifiuto dei più disgraziati, ammazzati a casa loro e a casa nostra o affogati a metà strada, nelle acque di nessuno e dell’Europa, dopo essere stati venduti, umiliati, picchiati e stuprati.
E anche a Roma, a partire dal 13 marzo 2015 – giorno dell’annuncio dell’Anno Straordinario – le misure eccezionali di sicurezza non si sono fatte attendere; da allora, per esempio, le azioni di sgombero forzato sono triplicate, passando da una media di 3 a una di 10 al mese. Emblematico è stato il caso del Centro Baobab, che negli ultimi dieci mesi, ovviando a una grave assenza dello Stato italiano, ha accolto oltre 35 mila rifugiati e ha incarnato l’ideale medesimo di una cura spontanea e volontaria del prossimo, ma che è stato fatto sgomberare proprio a cinque giorni dall’inizio del Giubileo, perché si sa, l’accoglienza è un gesto cristiano, ma se l’occupazione è illegale, la faccenda non è decorosa. Come scrive Alessandro Gilioli: «Al Baobab sgomberano e nessuno pensa che fra tre o quattro mesi gli sbarchi ricominceranno e non ci sarà un altro Baobab ad accogliere chi ha bisogno, perché né il Comune né altri hanno predisposto uno spazio che faccia qualcosa di simile a quello illegalmente occupato fino a oggi».
Tra le voci che non si sono sentite, c’è proprio quella della Chiesa, forse troppo impegnata a celebrare il «mistero di tenerezza e di amore». Nel frattempo, l’azione governativa si è preoccupata di coordinare l’Anno Santo senza trascurare nulla, ma togliendo a molti il diritto di un tetto e di una porta a cui bussare, mettendo ancora una volta in evidenza la distanza tutta terrena che separa la provvidenza dalla prevenzione, in un modo che fa risuonare finanche ridicolo il ritornello liturgico della misericordia redentrice. Soprattutto in questo momento, in cui le “uscite di emergenza” si chiudono sempre e soltanto a destra.
[La foto di copertina è di Vincenzo Bruno]