Sulla ricerca di una formula sostenibile per la stampa che garantisca qualità dei contenuti e qualcosa di simile a un pareggio di bilancio.
Il tema non è certo nuovo, eppure non smette di perdere attualità, soprattutto dalle nostre parti, aiutato dalla crisi nera dei giornali italiani, che arrancano sempre più a fatica tra debiti e colonnine di destra, costretti dal digitale a ripensarsi da capo a piedi in termini di economie, strumenti e professionalità coinvolte.
Quest’anno il Festival di Internazionale si è chiuso proprio con un dibattito sul futuro del giornalismo d’inchiesta, dove per futuro s’intende appunto la riformulazione dei modelli nel contesto del digitale. E per una volta il digitale, anziché essere presentato come un potente strumento a cui sopravvivere, ne è uscito come un potente strumento di crescita. Sul palco del teatro comunale di Ferrara si sono trovati faccia a faccia due esempi di successo del giornalismo online: Martin Baron, direttore del «Washington Post» e Edwy Plenel, fondatore di «Mediapart».
Baron e Plenel però, per quanto uniti nella convinzione che il digitale ridisegni in meglio lo scenario e le prospettive del giornalismo, incarnano due modelli di business (e quindi anche culturali e politici) perfettamente antitetici e la distanza che separa le loro visioni è una buona sintesi del dilemma che incatena il giornalismo di questi anni a una continua interrogazione su se stesso.
«Mediapart» è una testata quotidiana online nata nel 2007 per iniziativa di alcune firme fuoriuscite da «Le Monde» e finanziata esclusivamente dagli abbonamenti: niente contributi pubblici, né di privati, né spazi pubblicitari. Atterrando sulla sua homepage si possono leggere i titoli e i blog, ma tolti quelli la lettura delle notizie è riservata agli abbonati: non ci sono contenuti gratuiti. Quando è nato, sette anni fa, in molti li hanno derisi e trattati come un esperimento anacronistico. Edwy Plenel riporta ridendo sotto i baffi il modo in cui Alain Minc, influente consulente politico ed economico francese, liquidò il progetto: «Non funzionerà mai, la stampa in rete non può che essere gratuita». Oggi «Mediapart», oltre a incarnare i sogni di gloria dei giornalisti di mezzo mondo, vanta un profitto del 15 per cento sul totale del fatturato, più di centomila abbonati e un numero di visitatori unici paragonabile a quello di «Le Monde» e «Figaro». Nel mezzo c’è stato l’affaire Bettencourt e numerosi scandali ambientati tra i palazzi del potere, che «Mediapart» ha coperto con un’aggressività e libertà che, sostiene Plenel, può avere solo chi dipende solo dai suoi lettori.
David Baron invece è il direttore del più noto «Washington Post», colosso dell’informazione americana, che ospitò l’inchiesta più celebre e celebrata della storia del giornalismo, lo scandalo Watergate, e più di recente una parte dell’inchiesta legata alle rivelazioni di Edward Snowden. Le casse del giornale sono state ingrassate, poco più di un anno fa, da un finanziamento di duecentocinquanta milioni di dollari da parte di Jeff Bezos – proprio lui, Mr. Amazon – che ha rilevato il giornale dalla proprietà precedente. Da allora ha assunto un centinaio di persone soprattutto per potenziare la versione digitale, che è consultabile gratuitamente ed è cresciuta fino a raggiungere quasi quaranta milioni di visitatori unici mensili.
Due esempi virtuosi dunque, sia dal punto di vista della qualità del giornalismo che della salute delle finanze, che non nascondono la diversità delle loro vedute. Plenel non crede nella gratuità dell’informazione, ma nella gratuità di scambio, cioè che dietro a un abbonamento possano esserci anche due o tre persone. E si scalda a ripetere che i grossi finanziamenti da parte di imprenditori o politici saranno sempre portatori di interessi che prima o dopo avranno influenza sui contenuti pubblicati. Baron risponde che al contrario i finanziamenti privati non solo non intaccano la libertà editoriale, ma la rendono possibile, lasciando spazio vitale (ovvero respiro economico) anche alle attività più “lente” e dispendiose, come quelle di ricerca e inchiesta.
Uno degli elementi più interessanti del loro confronto è il diverso ruolo che assegnano al lettore. «Mediapart» ha indovinato l’alchimia per riproporre online la formula del quotidiano cartaceo, arricchita dalle possibilità di interazione concesse dal supporto digitale. In questo modello il lettore ha un ruolo attivo: cerca la notizia e sceglie la fonte da cui attingerla, fonte che se lo soddisfa diventerà il suo giornale, quello a cui accorderà la sua fiducia (almeno per il periodo dell’abbonamento). Il «Washington Post», come gran parte delle testate online punta invece al lettore fluttuante, che va conquistato di giorno in giorno, di notizia in notizia, di canale in canale, tant’è che lo stesso Baron sottolinea che la maggioranza dei visitatori della versione mobile arriva da link esterni disseminati sui social. Il suo lettore non necessariamente cerca la notizia, ma la trova, se non è lei a trovare lui, nel magma multitasking del feed di Facebook, tra la foto del nipote e gli auguri di compleanno all’amica.
In sintesi, «Mediapart» traghetta online un contratto con il lettore che prevede che sia quest’ultimo a decidere quando e in che modalità affacciarsi sullo spazio pubblico; il modello del «Washington Post» percorre la direzione opposta, facendo capolino nella routine di navigazione del suo lettore, in mezzo a contenuti che un tempo avremmo definito “privati”.
Il successo di «Mediapart» ha probabilmente a che fare, almeno in parte, con il tema della selezione. Selezione che è diventata tanto più cruciale nel momento in cui la connessione a internet è arrivata a coincidere con lo stato di veglia e i nostri inseparabili device mobili ci rendono perennemente accessibili tutte le informazioni esistenti, il che non è poi così diverso da non darcene nessuna. Come ci insegna Borges con Funes il memorioso e come va ripetendo da anni Umberto Eco, la selezione è parte integrante del processo di conoscenza e il web, trasformando ogni persona della terra in potenziale produttore di contenuti, ha reso questo processo selettivo molto faticoso. Pagare per una testata, e in questo caso per una testata online, certifica la fiducia del lettore nella selezione di notizie e punti di vista che questa propone, e lo solleva da qualsiasi preoccupazione in tal senso, lasciandolo riposarsi nella rassicurazione dell’abitudine.
Il «Washington Post» va, almeno per ora, in una direzione diversa, che accetta la sfida dell’informazione “liquida”, e punta ad accaparrarsi un numero sempre maggiore di visitatori unici. Per farlo deve creare molteplici occasioni di lettura disseminate fuori dal sito e per questo non può che essere gratuito. Nel frattempo, per quanto Baron sottolinei che il proprietario è Bezos in persona e non Amazon, le congetture su una prossima convergenza tra il «Washington Post» e le altre aziende di Bezos si fanno più insistenti. Businessweek ad esempio riporta che la redazione sta lavorando a un’applicazione che offrirà una selezione di notizie prese dal giornale, che sarà installata gratuitamente nei nuovi modelli di Kindle, mentre sarà disponibile a pagamento per tutti gli altri e-reader. In questo caso il «Washington Post», o una sua costola, diventerebbe una feature di un apparecchio per leggere. Che è come dire che si invertirebbe il rapporto di strumentalità tra supporto e contenuto che ha sorretto la produzione di notizie nell’era della carta: non uso la carta per vendere notizie, ma uso le notizie per vendere l’e-reader. Senza considerare le potenzialità di incorporare ogni nuovo lettore all’interno dell’ecosistema Amazon, che però non cambierebbe la sostanza: uso le notizie per fare profitto altrove.
A oggi non sappiamo se una delle due ricette sia più promettente dell’altra, ed è un ragionamento che va molto al di là del confronto tra «Mediapart» e«Washington Post». Se il modello “cartaceo” della fedeltà, resuscitato da «Mediapart», andrà a riconquistarsi la fiducia dei lettori che, questo sì, il web ha reso più consapevoli; o se il modello “digitale” delle occasioni di lettura continuerà a crescere e – se resterà gratuito – con quali ripercussioni sui contenuti. Quello che possiamo constatare a oggi è che le due testate crescono e sono in buona salute.