Tong Men-g: dalla Cina all’Italia. Gli atti di uno spettacolo che raccontano cosa significa nascere due volte.
«Da migranti si vive il doppio» ho scritto in un altro articolo, ed è il pensiero che mi avrebbe tormentato anche per tutta la durata dello spettacolo Tong Men-g (Porta di bronzo, stesso sogno, regia di Cristina Pezzoli) andato in scena il 22 settembre al Teatro Brancaccio di Roma. Un monologo di oltre due ore recitato da Shi Yang Shi, il primo spettacolo prodotto in Italia il cui protagonista è un attore di origine cinese – anche se poi Yang Shi vive in Italia da ventiquattro anni. Ma è proprio da questa doppiezza – nascere in Cina e crescere in Italia – che scaturisce l’esigenza nell’uomo, ancor prima che nell’attore, di ripercorrere le proprie origini per cercare di definirsi, ricomporre i tasselli di un’identità che sfugge alle categorie comuni. Il teatro si pone qui come strumento d’indagine, un modo di scandagliare l’animo per far emergere alla coscienza significati nascosti in una cultura che portiamo dentro anche senza conoscerla; ma è anche un atto sociale consapevole rivolto allo spettatore che in queste due ore può vivere da dentro l’intensa storia di un uomo considerato italiano dai cinesi (un banana: giallo fuori e bianco dentro) e cinese dagli italiani, un uomo il cui cammino verso la realizzazione di sé è stato profondamente influenzato dalla propria “doppia nascita”.
Lo spettacolo è diviso in due parti: nella prima Yang Shi ripercorre la storia dei suoi antenati mentre la seconda è dedicata alla nuova vita in Italia. Spartiacque è il 1990, quando a soli undici anni è costretto a trasferirsi in Italia per inseguire la fortuna promessa dai genitori.
È così che Yang Shi si traveste, cambia voce, scende in platea tra gli spettatori un po’ increduli, un po’ impauriti, interpretando – sempre in doppia lingua – la trisavola materna, i bisnonni materni, il nonno paterno, il padre e lo zio materno, ripercorrendo in un’ora praticamente l’intera storia della Cina del XX secolo (la tradizione, la guerra, la rivoluzione). Grazie alle vite dei suoi antenati possiamo farci un’idea di quello che un bambino cinese di undici anni debba portarsi dentro e rielaborare nel momento in cui, di punto in bianco, si ritrova a Milano da clandestino. Da studente modello ad asino della classe (perché non sa una parola d’italiano), lavapiatti in Calabria per la stagione estiva, venditore ambulante sull’adriatico e poi traduttore di lusso. Ed è in questi momenti, i più duri, quando Yang Shi si ritrova a trasportare un sacco d’immondizia più grande di lui, quando si vede decurtare di trecentomila lire il suo stipendio di cinquecentomila per aver rotto venti piatti da pizza (in realtà le trecentomila lire servivano al datore di lavoro per pagare la multa che lo vedeva colpevole di sfruttamento di lavoro minorile) che prende coscienza di se stesso, della sua vita, che decide di impegnarsi e realizzarsi in Italia. Così Yang Shi impara l’italiano, a pronunciare la erre, diventa il primo della classe, si diploma e va a studiare alla Bocconi. Ma a quattro esami dalla laurea prende una delle decisioni più importanti della sua vita: lasciare l’università, e così deludere il padre e i suoi sogni di creare un’azienda di famiglia in Italia, e diventare attore. Col senno di poi ha ovviamente tutto un altro sapore, un qualcosa che sa di rivincita. Soprattutto perché, pur essendo stato accettato alla scuola di drammaturgia, il primo anno venne bocciato perché considerato troppo “dispersivo”. Non sarà questo a fermarlo.
Nel 2012 finalmente arriva la televisione, Le Iene, e con essa la notorietà.
L’ultimo atto dello spettacolo prende le mosse dalla tragedia del 1 dicembre 2013 in cui sette cinesi morirono carbonizzati in una fabbrica di Prato, avvenimento che acuì sensibilmente le tensioni fra italiani e la comunità cinese presente in Italia. Il prezioso lavoro di mediazione culturale che, attraverso il teatro – qui inteso come arte sociale – e molte altre iniziative, porta avanti Yang Shi con l’appoggio del Compost, realtà di produzione indipendente con sede a Prato, è quello di riavvicinare le due parti facendo comprendere l’un l’altra le proprie ragioni, mostrando una possibile pacifica convivenza. Possibile perché lui stesso ne è la dimostrazione. Yang Shi è sia cinese che italiano e dato che i cinesi lo chiamano Shi Yang e gli italiani Yang Shi si fa chiamare Shi Yang Shi. Ma non solo convivenza, anche arricchimento. Ed è ancora questo attore italo-cinese (Yang Shi è cittadino italiano dal 2006), col suo spettacolo, a impersonificare la ricchezza dell’unione di due culture così diverse.
Assistere a Tong Men-g è assistere alla rappresentazione di una vita segnata dalla migrazione, una vita raddoppiata, una ricchezza che il teatro valorizza nell’intensità dell’arte, un’azione culturale nata fuori dalle scene, poi spettacolarizzata, ma che deve tornare fuori, sulle strade, nelle piazze, come esperienza personale di ognuno di noi.